di PUN NGAI, HAN YUCHEN, SHEN YUAN, LU HUILIN
In vista della presentazione di iSlaves: Ausbeutung und Widerstand in Chinas Foxconn-Fabrike (Sfruttamento e resistenza nella fabbrica cinese della Foxconn, Vienna, mandelbaum, 2013), che si terrà a Bologna il prossimo 15 ottobre in Corte Tre, con il curatore dell’edizione tedesca del volume, Ralf Ruckus, e Antonio Fiori, pubblichiamo la traduzione del capitolo 8 del libro. In modo sintetico ma efficace gli autori mostrano la connessione tra il capitale transnazionale, lo Stato cinese e le autorità locali come condizione di possibilità del successo del «modello» di sfruttamento e disciplina del lavoro di Foxconn, ma anche individuano un orizzonte di possibilità in una generazione di lavoratrici e lavoratori migranti cinesi che rifiutano di essere incatenati all’eterno presente che quel «modello» impone loro.
I risultati delle ricerche sulla Foxconn sono stati già resi pubblici più volte e quelle ricerche continueranno. La società non deve in alcun modo tirarci una linea sopra, ma deve continuare a occuparsi del destino dei lavoratori e delle lavoratrici della Foxconn. L’appello per la fine dell’era delle fabbriche del mercato mondiale suona sempre più alto, la pretesa di un modello di sviluppo che riconosca l’uomo e la sua dignità diviene sempre più forte.
I temi della nostra ricerca sono il regime produttivo in alto grado dispotico che dalla fabbrica si estende al sistema dei dormitori, lo sfruttamento della forza lavoro fatta di studenti, i molti trucchi per non riconoscere le malattie professionali e gli incidenti sul lavoro, i problemi dell’allargamento della Foxconn verso Occidente, le forme di resistenza e le lotte senza sindacato. Vogliamo rendere pubbliche le procedure della Foxconn che vanno contro la legge, e vogliamo analizzare il sistema di lavoro della Foxconn con la sua alta intensità di lavoro, gli esagerati tempi di lavoro, i suoi bassi salari e suoi bassi costi, che consentono alla Foxconn la massimizzazione della produttività e del profitto.
Noi ci rivolgiamo contro il violento disciplinamento e la divisione dei lavoratori e delle lavoratrici che cercano di sottrarre loro la forza di resistere; contro lo stile manageriale che disprezza la loro dignità, la loro salute e persino la loro vita. Foxconn controlla le mense, i dormitori e persino i quartieri dormitorio al di fuori dei muri della fabbrica, rendendoli delle mere appendici della fabbrica che servono all’ulteriore abbassamento dei costi. La stretta connessione tra fabbrica e dormitorio caratterizza il sistema dei dormitori lavorativi della fabbrica del mercato mondiale.
Questo è il segreto del successo della Foxconn. Tutto serve allo sfruttamento della forza lavoro. Foxconn disciplina gli operai e le operaie fisicamente e intellettualmente, determina il loro modo di vita e di lavoro e li obbliga a essere disponibili 24 ore al giorno. Questo sistema di management porta all’alienazione delle lavoratrici e dei lavoratori e produce un trauma collettivo. La mancanza di prospettive spinge alcuni di loro al suicidio, portandoli a fare della messa in gioco della propria vita un atto di muta resistenza.
Il sistema di produzione Foxconn non è però semplicemente un «capolavoro» dell’impresa, bensì dipende dal sostegno delle autorità locali e del capitale transnazionale. Il modello di sviluppo fondato sull’aumento del prodotto sociale lordo e il miglioramento dei fondamentali economici favorisce gli interessi del capitale e trascura quelli degli operai. La politica statale macroeconomica si orienta a un modello di sviluppo per l’esportazione: per attirare il capitale interno ed estero, la Repubblica popolare cinese vuole ancora offrire una forza lavoro a buon mercato e con quasi nessuna garanzia giuridica. Solo su queste basi la Foxconn può realizzare vertiginosi guadagni. Inoltre le autorità locali non proteggono i diritti del lavoro giuridicamente garantiti. L’esempio più eclatante è che in molte regioni viene permesso alle scuole di procurare masse di studenti e studentesse alla Foxconn, dove diventano apprendisti di una nuova era delle fabbriche del mercato mondiale. Le autorità locali hanno dato il benestare persino all’occupazione di apprendisti minorenni.
Per gli operai e le operaie vale la massima «alte prestazioni, minimo salario» ed è su di essa che si fonda l’enorme espansione dei complessi industriali transnazionali. Nelle catene globali della produzione dominate da questi complessi industriali i produttori hanno minimi margini di profitto e i salari sono molto bassi. Il potere d’acquisto sul mercato interno cinese è ancora minimo, così che le merci Hi-Tech prodotte dagli operai e dalle operaie della Foxconn sono tuttora essenzialmente destinate ai mercati esteri dei paesi sviluppati. Assieme ai beni di consumo defluiscono continuamente verso l’estero risorse e plusvalore. I complessi industriali transnazionali puntano sulla «produzione snella» e comprano là dove essa è più a buon mercato. I fornitori si vedono perciò costretti ad abbassare ulteriormente i salari, a estendere gli orari di lavoro e a innalzare l’intensità lavorativa. Tutto questo aumenta in ultima istanza la pressione e il carico che gli operai devono sopportare sulle linee produttive.
Con la collaborazione dello Stato e del capitale la Foxconn ha sviluppato un complesso regime di fabbrica che comprende la produzione e la riproduzione degli operai e delle operaie disciplinandoli nella maniera più estrema. Nel processo lavorativo la disciplina non può tuttavia essere completa. Gli operai e le operaie non si lasciano controllare costantemente e inoltre perdono ogni sensibilità per il contenuto di senso del lavoro e della vita. La Foxconn spera di demolire l’emozionalità degli operai attraverso un ben congegnato sistema di produzione e di management che li faccia diventare delle macchine senza sentimenti per alte prestazioni da spremere giorno e notte. Questo rimane comunque un’illusione capitalistica. La Foxconn ha creato un gigantesco impero industriale ed evoca uno spirito capitalistico d’impresa che anche gli operai dovrebbero interiorizzare. Le idee della Foxconn si dissolvono però nell’aria. Quello spirito capitalistico può far decollare verso lo sviluppo economico l’ambizione degli imprenditori e delle autorità locali, ma non sembra avere pressoché nessun effetto sugli operai. Il fatto che nella Cina odierna si siano già costruiti dei monopoli blocca per gli operai generici il cammino verso il successo economico. Per gli operai e le operaie con i quali noi parliamo lo spirito imprenditoriale è solo una fata Morgana, un’evidente delusione.
La serie di suicidi dei lavoratori e delle lavoratrici della Foxconn è una forma estrema di resistenza contro il disciplinamento capitalistico. Molti lavoratori e molte lavoratrici cambiano spesso fabbrica. Non appena in una ditta sorge un piccolo conflitto, essi s’infuriano e se ne vanno. In questo modo essi scherniscono quel «meraviglioso sogno» creato per loro da Terry Gou. Operai e operaie praticano quotidianamente diverse misure di resistenza – individuali e collettive – rifiuto del lavoro e scioperi bianchi. Occasionalmente essi arrivano anche alla rivolta militante.
La Foxconn, questa «superfabbrica globale», è l’eminente rappresentante dei numerosi contoterzisti cinesi e quasi una versione in miniatura della «fabbrica del mondo» cinese. Gli operai e le operaie possono certamente decidere di abbandonare «liberamente» la fabbrica. Il sistema delle fabbriche del mercato mondiale cambia però poco e gli operai e le operaie possono solo scegliere tra differenti fabbriche del sudore.
Lo scopo della nostra ricerca non è solo scoprire le procedure illegali e le deficienze dei metodi militareschi del management, bensì anche fare appello alla società affinché ripensi questo modello di sviluppo che viola i diritti fondamentali e la dignità degli operai e delle operaie. Dietro alla serie di suicidi c’è il modo di produzione del capitale monopolistico. Fino a quando questo modo di produzione non cambia, fino a quando non finisce l’era delle fabbriche del mercato mondiale, queste tragedie continueranno immancabilmente.
Nonostante la serie di suicidi abbia richiamato l’attenzione sociale, essa non ha potuto purtroppo evitare l’espansione territoriale della Foxconn. Grazie alla zelante collaborazione delle autorità locali la Foxconn è riuscita a penetrare in ampie zone della Cina centrale, fagocitando più capitale, più risorse, più forza lavoro. L’espansione della Foxconn non ha migliorato la vita delle operaie e degli operai; al contrario. Essa ha defraudato i contadini della terra dalla quale dipendeva la loro esistenza. Contadini e contadine hanno perso i loro mezzi di produzione e di vita e sono diventati via via proletari, così come è stato descritto da Marx. Alcune autorità locali utilizzano l’agglomerazione di villaggi in unità amministrative più ampie come pretesto per espropriare illegalmente la terra, spianando così la strada all’espansione del capitale monopolistico. Così, anche nella Cina odierna è cominciato il processo delle enclosure.
Di fronte a questa tragedia epocale si impone la domanda: nel corso del suo sviluppo l’umanità deve necessariamente attraversare una fase di espansione del capitale monopolistico? Quando finirà l’era della fabbrica del mercato mondiale? Abbiamo iniziato in maniera del tutto innocente l’analisi del modello di management della Foxconn e di quello di sviluppo delle fabbriche del mercato mondiale. Questi cosiddetti «modelli» ci si sono presentati come concetti astratti, ma nella realtà essi gravano sulla schiena di più di un milione di operai e operaie della Foxconn così come su quelle di diversi milioni di lavoratori migranti in tutta la Cina. Questi giovani uomini e donne sono i soggetti dell’era della fabbrica del mercato mondiale. Essi hanno creato con il loro sudore, con la loro carne e il loro sangue il miracolo Foxconn.
I lavoratori e le lavoratrici migranti sanno che il loro lavoro è solo a tempo determinato. Hanno pochissime possibilità di formarsi e di essere promossi, e non hanno ragione di credere di poter mettere radici nella città. Sono disorientati e indecisi. Il 42,9 % degli intervistati ha dichiarato di voler ritornare a casa e aprire un negozio, il 28,1% sperava di rimanere in città e di poter continuare a lavorare, il 22,8% non aveva ancora deciso cosa fare, lo 0,5% voleva tornare a casa per lavorare nell’agricoltura. La percentuale maggiore, dunque, dichiara di voler tornare a casa e aprire un negozio, ma non sappiamo se questa intenzione sia spontanea oppure se sia il frutto di una scelta obbligata perché tanto sanno che non potranno restare in città. In realtà, infatti, non pochi di coloro che dichiarano di voler tornare a casa e aprire un negozio, alla fine però tornano in città per vivere nuovamente, tra assuefazione e rabbia, sempre lo stesso ciclo di duro lavoro in qualche fabbrica. Così capita che facciano da pendolari dalla campagna alla città, un periodo lì e un periodo qua.
Negli ultimi trent’anni i milioni di lavoratori provenienti dai villaggi, la forza lavoro più economica, hanno fatto diventare la Cina la base delle «fabbriche del mercato mondiale» orientate all’esportazione e hanno reso possibile la sua vertiginosa e costante crescita economica. Nello stesso tempo, però, i diritti elementari e gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici sono da molto tempo trascurati: lo status di «lavoratori contadini» serve come pretesto per mantenere i loro salari al di sotto dei minimi stabiliti e per impedire loro di vivere più a lungo in città. Essi trascorrono una vita senza dignità, senza radici, senza assistenza, senza contatti con la famiglia e anche senza potersi occupare dei propri genitori o poter offrire affetto e amore ai loro figli. Inoltre, su di loro grava la sempre maggiore differenza di entrate tra città e campagne, che è uno degli effetti delle riforme, una differenza rafforzata ulteriormente dal sistema di certificazione della residenza (hukou). Tale sistema sembra giustificare l’espropriazione continua dei lavoratori migranti stagionali e rende loro sempre più difficile realizzare il sogno di stabilizzarsi in città. Il dilemma della prima generazione di lavoratori, le loro preoccupazioni e le sofferenze legate alla loro semi-proletarizzazione sono stati soverchiati dai roboanti discorsi sull’evoluzione economica complessiva. Per questo sono tornati al loro luogo d’origine, hanno costruito lì una casa, cresciuto i loro figli e sperato che la generazione successiva potesse lasciare il villaggio. Nella maggior parte dei casi lavoratori migranti di questa nuova generazione non vogliono, però, più tornare a fare i contadini nei villaggi come i loro genitori dopo essersene andati per lavorare.
La sofferenza e il supplizio della nuova generazione di lavoratori migranti dipendono anche dalla problematicità della costruzione della loro identità: essi non si sentono né contadini né operai. Alcuni hanno perso il loro appezzamento di terra nel luogo d’origine a causa dell’espropriazione, altri non sanno già più come si lavora la terra. Non sono più abituati a lavorare «dall’alba al tramonto». Percepiscono l’acuto contrasto tra la campagna «arretrata» e la città «moderna» e la vita in campagna sembra sempre più «senza prospettive». Qui sprecano in ogni modo la loro giovinezza tutti i giorni alla catena di montaggio e non appena hanno dietro di sé l’età d’oro del lavoro migrante, sono obbligati a lasciare sia la fabbrica sia la città. Ma non realizzano subito di non potersi effettivamente stabilire in città e così va perso tutto il senso e la funzionalità del lavoro migrante. Ora la strada per proseguire è bloccata, mentre la strada che va indietro è già sbarrata da molto tempo.
La storia avanza tuttavia senza sosta. Nella fase iniziale delle riforme è stato detto che una parte degli uomini si doveva sacrificare per l’accumulazione originaria del capitale. Ora le riforme durano già da 30 anni e gli sforzi di due generazioni di lavoratori e lavoratrici migranti hanno portato alla prosperità economica della Cina. La società è più benestante, ma di ciò ha approfittato soprattutto la popolazione delle città. La grande tragedia è che la prosperità economica si fonda sempre sulla violazione dei diritti e degli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici migranti.
Noi ci battiamo per un modello di sviluppo sociale più umano. Il lavoro migrante è stato un’aberrazione epocale. Nella fabbrica del mercato mondiale i lavoratori migranti danno il loro sudore e il loro sangue per la crescita economica della Cina. Noi sappiamo che il distacco dal modello della fabbrica del mondo non può essere compiuto in una notte, ma se noi affrontiamo in maniera indifferente la sofferenza dei lavoratori migranti e accettiamo il loro sfruttamento e la loro oppressione, si arriverà indubbiamente a ulteriori tragedie come quelle accadute alla Foxconn. Perciò appoggiamo i lavoratori e le lavoratrici della Foxconn e delle altre fabbriche del mercato mondiale che resistono strenuamente e creano insieme un futuro migliore!