di GABE CARROL, da New York
È partita intorno alle 6 e mezza la terza grande mobilitazione dei Fast Food Workers. In circa 60 città americane si sono svolti scioperi, picchetti, azioni e occupazioni simboliche dentro ai ristoranti, piccoli cortei e presidi. La denuncia delle condizioni di lavoro è la stessa di quando la campagna è partita quasi un anno fa: salari insufficienti per mantenere se stessi o una famiglia, mancanza di garanzie e incentivi, maltrattamenti e soprusi, controllo ossessivo e aggressivo sul posto di lavoro. La coalizione che sostiene la organizing drive è la stessa, ma nel frattempo si è ingrossata, raccogliendo quella tipologia di realtà a metà tra sindacalismo di base e community organizing che stanno cogliendo la sfida dell’organizzazione del lavoro posta dalla crisi e dal riflusso post-Occupy: New York Communities for Change, Fast Food Forward, 99 Pickets Brigade e altre.La mobilitazione ha scelto parole d’ordine molto semplici: l’aumento del salario minimo e il diritto di organizzarsi in sindacato. Se la media nazionale complessiva di salario è di 18.30$ all’ora, per quasi il 90% degli addetti del settore la media è di 8.94$, e in città come New York moltissime lavoratrici e lavoratori percepiscono un salario di poco superiore al minimo legale di 7.25$. Da qui lo slogan molto diffuso nella mobilitazione di oggi: «You can’t survive on 7.25». L’obiettivo nazionale è di un minimo sindacale di 15$ all’ora per tutto il settore, rivendicazione che sottolinea come queste precarie e questi precari percepiscono il loro lavoro, non come qualcosa di temporaneo, ma come qualcosa che deve permettere di vivere e sopravvivere nelle città in cui lavorano.
Questo piano rivendicativo mette in crisi la giustificazione da sempre che viene dato per questo regime di precarietà e sfruttamento: la ristorazione fast food è un settore entry level, ovvero un settore di lavoro temporaneo per fornire le prime esperienze lavorative ai giovani: uno sfruttamento pedagogico insomma. Il fatto che l’età media di chi ci lavora sia in aumento (sempre più sui 24-30 anni, molti con famiglie a carico), che senza il lavoro di queste precarie e di questi precari un’industria multimiliardaria non potrebbe andare avanti, difficilmente riesce a scalfire questa narrativa della destra (e sinistra) neoliberista, per cui chiedere un lavoro dignitoso è chiedere troppo. Il salario diviene anche occasione per una forma di razzismo mascherato, per cui certe comunità, dovendo già considerarsi fortunate ad avere un lavoro, non devono azzardarsi a chiedere altro.
Solo un paio d’anni fa, la maggioranza (di destra o di sinistra, o nei sindacati stessi) ha detto che una cosa di questo tipo non poteva essere fatta. Tu sostieni questa cosa. Vai a un picchetto. Quello di domani è uno sciopero di un solo giorno, per dimostrare che può essere fatto.
In un post su Facebook nei giorni precedenti lo sciopero, Boots Riley ha così riassunto succintamente la novità di questa mobilitazione e l’importanza politica di sostenerla. La posta in gioco, la scommessa politica, è alta. La rivendicazione di un living wage, di un salario per vivere, separa il salario dal lavoro, dalla crisi, dall’obbligo propedeutico allo sfruttamento. Fare della vita di migliaia di lavoratrici e lavoratori la misura del salario, significa farne una misura politica che non può essere misurata economicamente. È la stessa scommessa messa in campo da tante lotte «impossibili», che prima di vincere sul piano salariale devono conquistare l’agibilità minima necessaria per lottare, cambiando i rapporti di forza base del loro settore. Di conseguenza tirare le somme di questa giornata è difficile, se non impossibile. Bisogna aspettare per vedere se questa lotta, insieme a quella dentro alla Walmart, e altre riesce a innescare un ciclo di conflitto in tutto il settore entry level, andando oltre ai singoli franchise e ai circa 4 milioni di lavoratrici e lavoratori del settore fast food. Detto questo, alcuni risultati sono già chiari. Migliaia di precarie e di precari si sono organizzati, hanno scioperato e sono scesi in strada. Anche se il movimento rappresenta ancora una minoranza di lavoratrici e lavoratori del settore complessivo, e non è ancora in grado di produrre chiusure in massa di ristoranti e massicci danni economici nelle varie catene coinvolte (McDonald’s, Burger King e Wendy’s le più grosse), la risonanza mediatica è stata molto forte, provocando dibattiti accesi sulla legittimità della lotta, la plausibilità delle rivendicazioni e la natura stessa del minimum wage in tempi di crisi. C’è stata anche una certa risonanza politica a New York, evidenziata dalla partecipazione di diversi candidati e campaigners (le prossime elezioni a sindaco e ad altre cariche cittadine sono a novembre) alle iniziative di lotta, che non hanno perso l’occasione di farsi intervistare dai (tanti) giornalisti presenti. Il tutto s’inserisce nella spinta dell’amministrazione Obama (nei pochi momenti lasciati liberi dalla nuova spinta alla guerra) di aumentare il salario minimo federale a nove dollari all’ora.
In questo emerge quella che sarà una sfida fondamentale se questo movimento continuerà ad esistere. Già i sindacati mainstream, in crisi da tempo, si stanno inserendo in un contesto inizialmente segnato da una forte autonomia delle lavoratrici e dei lavoratori. C’è anche la possibilità che il partito democratico cerchi di cavalcare la lotta a livello locale per sostenere la proposta (tutt’altro che radicale, ma comunque importante) dell’aumento del salario minimo di 1.75$ e mostrarsi sensibile alle esigenze della working class e più in particolare delle comunità afroamericana e ispanica, che rappresentano una parte consistente (e in molti contesti maggioritaria) della forza-lavoro nella ristorazione fast food.
Emerge con certezza che lo spazio di conflittualità di classe aperto dalla crisi e potenziato dal ciclo di Occupy continua a produrre situazioni d’interesse e riproporre il problema dell’organizzazione, mettendo al centro il salario ma andando oltre il singolo luogo di lavoro, intercettando le contraddizioni delle comunità of color e non solo (come suggerito dallo stesso Boots Riley qualche tempo fa in un’intervista per questo sito). La forma sindacale è al centro della discussione, ma non è il soggetto di riferimento, la troviamo come tattica e come rivendicazione, ma non come forma definitiva dell’organizzazione della lotta.
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