di FELICE MOMETTI, da New York
Il 28 agosto del 1963 a Washington più di 300 mila persone, in larghissima parte afroamericani, marciarono per il lavoro e la libertà. In quell’occasione Martin Luther King, nel suo discorso, pronunciò la famosa frase «I have a dream». Bob Dylan e Joan Baez improvvisarono una performance dal palco degli oratori. Quella marcia fu probabilmente l’evento che diede maggior forza al movimento americano per i diritti civili degli anni ’60 del secolo scorso. Non tutti, nella comunità nera, si riconobbero in quella forma di protesta. Il Black Muslim di Malcom X la definì un «picnic», un «circo».
A 50 anni di distanza, il prossimo 24 agosto il National Action Network, un’organizzazione per i diritti civili legata al pensiero di M.L King e tra i più convinti sponsor dell’elezione di Obama, ha convocato da più di un mese una marcia a Washington per commemorare l’evento del 1963. Ma l’assoluzione di George Zimmerman, l’assassino del giovane nero Trayvon Martin, e le manifestazioni che ne sono seguite in un centinaio di città – con una notevole partecipazione e conflittualità soprattutto nella Bay Area di San Francisco, a Chicago e New York – potrebbero imprimere un segno politico diverso da quello previsto dagli organizzatori della marcia. Non più una commemorazione ma un’iniziativa di mobilitazione e lotta contro un razzismo che si sta assestando sempre più nelle istituzioni, negli apparati di controllo sociale, nello scarso welfare ancora presente, sui luoghi di lavoro, nei sindacati. Un razzismo certamente diverso rispetto a quello degli anni ’60. Non ci sono più i posti solo per bianchi sugli autobus e i cittadini neri possono votare, pur tra infinite difficoltà procedurali e di registrazione. Oggi predomina ancora l’ipocrisia del politically correct di leggi e provvedimenti che riconoscono eguali diritti a tutti i cittadini che però sono sistematicamente negati, calpestati nella concreta riproduzione del funzionamento della società, nell’accesso al lavoro seppure precario, nei diversi stili di vita, nella repressione dei cosiddetti comportamenti devianti. La popolazione nera degli Stati Uniti rappresenta il 13% del totale, la percentuale sale al 39 se si considera solo la popolazione carceraria. Mediamente ogni 28 ore la polizia uccide un cittadino nero e i controlli di massa, le perquisizioni improvvise nei quartieri a predominanza nera delle grandi città sono di gran lunga più frequenti e violente rispetto a tutti gli altri. Un razzismo elevato quasi a tecnologia di controllo sociale e politico che si regge su un divario crescente tra diritti riconosciuti e concreta «amministrazione delle cose». Un divario che una parte non piccola dell’establishment americano, non fa molta differenza se democratico o repubblicano, vuole ridurre riallineando le leggi al concreto funzionamento dei rapporti sociali. Ne è esempio la vicenda della recente legge sull’immigrazione in procinto di essere approvata definitivamente, che allunga a dismisura i tempi della regolarizzazione, aumenta il denaro da versare a vari enti statali o federali e introduce prove suppletive per ottenere un permesso di soggiorno.
Nonostante sia agosto, nelle comunità afroamericane, nelle associazioni antirazziste, nelle strutture che rimangono del movimento #Occupy si susseguono riunioni, iniziative, incontri per discutere se e come partecipare alla marcia del 24 agosto a Washington. A New York, dopo un lungo periodo, si sono riattivate vecchie associazioni e ne sono nate delle nuove a Harlem, nel Bronx e a East Brooklyn che stanno organizzando autonomamente dei pullman per partecipare alla marcia. Sembra di essere su un crinale dove basta pochissimo per imboccare un versante oppure l’altro: il ritorno a una situazione difficilissima in cui l’antirazzismo è monopolio di gruppi religiosi e lobbies istituzionali oppure l’avvio di un movimento che fa della lotta antirazzista il terreno principale dello scontro politico e sociale.