lunedì , 23 Dicembre 2024

Femministe a parole. Un libro per tutte e per nessuna

di EVELYN COUCH

1649-1 Femministe a parole_cop:14-21Come recita il sottotitolo, il libro Femministe a parole (Ediesse, Roma, 2012, pp. 368), curato da Sabrina Marchetti, Jamila M.H. Mascat e Vincenza Perilli, si presenta come un insieme di grovigli da districare. La raccolta di voci, che va dalla A di Anticolonialismo alla W di Welfare transnazionale, è stata compilata da diverse autrici che hanno cercato di stilare una «lista di temi aggrovigliati». I lemmi sono selezionati dalle curatrici in modo parziale, ovvero secondo una scelta di parte derivata dal posizionamento di ognuna, «a volte distante e persino opposto», e sono pensati per essere letti da un pubblico vasto di donne e di femministe. Secondo l’intenzione delle curatrici, ridefinendo alcune delle proprie parole chiave il femminismo può ripensare se stesso. In questo groviglio di temi, o tra questi temi aggrovigliati, è allora legittimo chiedersi come riemerga il femminismo e in che modo riesca a esprimere una parzialità.

Si può dire che ne emerga, in primo luogo, un femminismo plurale. Non esiste – e non si vuole che esista – un accordo tra le molte autrici del libro sulla natura stessa della ricerca femminista. La disomogeneità delle posizioni è il punto di partenza dichiarato sin dall’introduzione, ritenuto necessario a «stimolare una riflessione critica sulle esperienze teoriche e pratiche che oggi abitano l’universo femminista». In questo modo, il testo è sicuramente in grado di cogliere la complessità del femminismo, che non è oggi e non è mai stato un discorso uniforme e privo di interne tensioni. Tuttavia, ciò che rischia di perdersi nella pluralità delle voci è il fatto che le tensioni sono anche luoghi di distanza, incomunicabilità e scontro, così che fare della disomogeneità un valore in sé rischia di diventare un pronunciamento a favore della completa malleabilità dei significati. Le parole, però, non sono segni neutri che si lasciano risignificare a piacere. Esse identificano chi parla, evocano simboli e significati, e portano con sé rapporti di potere. Come il femminismo ha storicamente dimostrato, le parole possono dire ma anche impedire di parlare, in base ai soggetti che prevedono e ai confini che pongono. Non sono immutabili ma sono il terreno di uno scontro. Mostrare tale scontro è possibile mettendo le parole alla prova del presente globale, a partire dai confini e dai loro attraversamenti. Così il libro può essere letto, senza pretendere di esaurire la quantità e qualità delle voci e la loro ricchezza tematica, per fare emergere, all’interno di quei «grovigli da districare», contraddizioni difficilmente ricomponibili in un’aspirazione pluralistica.

Per fare questo si può partire dalla voce meno «globale» di questo testo, ovvero Cittadinanza, una categoria che è stata storicamente contestata dalle istanze portate avanti dai soggetti che ne sono stati esclusi o inclusi in posizione subordinata e che oggi può essere osservata solo alla luce dei movimenti globali di uomini e donne e dell’orizzonte transnazionale del femminismo. Alessandra Sciurba registra questa dimensione non più confinabile della cittadinanza, e propone quindi di ridefinirla appellandosi alla «valorizzazione degli esseri umani in quanto esseri sociali inseriti in un contesto di interdipendenze con l’ambiente in cui vivono». In questo modo, anche se sembra riconoscere l’insieme delle condizioni concrete che determinano quanti godono della cittadinanza o ne sono esclusi, Sciurba recupera l’umanesimo che sta alla base del linguaggio astratto dei diritti, trascurando in ultima istanza le contraddizioni che proprio le donne e le femministe hanno continuamente fatto emergere, prima di tutto con le loro pratiche. Da questo punto di vista, è indicativo che venga citata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma non la Dichiarazione dei diritti delle donne di Olympe de Gouges, che nel momento stesso in cui rivendicava un’inclusione delle donne nella sfera della cittadinanza moderna metteva in luce i rapporti di potere sui quali essa si è strutturata sin dal principio. Certamente, Sciurba evidenzia come la cittadinanza possegga una «vocazione egualitaria» e al tempo stesso una «tendenza discriminante», che favorisce l’affermazione di quello che Foucault chiama razzismo di Stato, e riconosce la centralità di donne e migranti nella messa in crisi del concetto a partire da coloro che ne venivano esclusi. Questa critica, però, sembra ancorata a due limiti. In primo luogo, il riferimento al razzismo «di Stato» non tiene conto della natura transnazionale e quindi globale del potere veicolato dalle istituzioni che governano i regimi nazionali della cittadinanza. In secondo luogo, l’idea che il connotato nazionale e nazionalistico dei diritti determini la subordinazione solo dello straniero, l’altro da sé incarnato nel «diverso» per colore o patria, mentre si sostiene che le donne oramai sono state «almeno formalmente» normalizzate nella «funzione includente della cittadinanza». Insistere sulla natura solo formale dell’inclusione tiene aperta la possibilità di un’inclusione reale che non sconta alcune questioni che ci paiono dirimenti, ovvero in che modo le donne sono incluse nella cittadinanza, per quali motivi, con quali effetti? Quando le donne sono state ricomprese nella cerchia dei cittadini, spesso lo sono state come madri di famiglia, mogli o figlie, e la differenza sessuale è stata integrata nel meccanismo della cittadinanza, come elemento ora da ignorare in nome di una astratta uguaglianza, ora utile a rinsaldare i rapporti di potere tra i sessi. Quello che l’inclusione ha alimentato è stata in altri termini una divisione sessuale del lavoro che si è riconfigurata proprio attraverso il linguaggio dei diritti. In questo senso, sono le donne migranti che oggi permettono di portare alla luce con maggior forza le contraddizioni della cittadinanza, che si edifica sulle strutture patriarcali che rappresentano l’elemento di continuità tra il paese di origine e quelli di arrivo o di transito. Riconoscere la centralità delle donne migranti significa fare i conti con il fatto che l’idea di cittadinanza non può semplicemente essere risignificata e che, anzi, forgiando una nuova definizione non si crea un’arma contro la sua «vocazione» patriarcale ma ristabilisce la mutata continuità di questo istituto di inclusione subordinata.

Evelyn-CouchLe donne migranti ricompaiono nella coppia Serva & Padrona, che Sabrina Marchetti discute guardando le dinamiche di potere nel rapporto tra le colf/badanti e le loro datrici di lavoro. Marchetti sostiene che l’inclusione delle migranti nell’economia della cura abbia implicato la «conservazione inalterata dei ruoli di genere». In questo senso, coglie molto bene che l’emancipazione di alcune donne dal lavoro riproduttivo tramite il lavoro salariato domestico e di cura di altre donne non mette in discussione la divisione sessuale del lavoro. In questa voce «dialettica», tuttavia, le figure della serva e della padrona rischiano di essere cristallizzate in una «frammentazione dei modelli di genere» che vedrebbe da una parte «le donne bianche, educate, cittadine» e dall’altra le «non bianche, povere e straniere». Alla luce di questa spaccatura diventa allora complesso considerare che, per quanto contraddittoriamente, le donne migranti possano conseguire proprio attraverso il lavoro domestico salariato un’autonomia almeno parziale dai rapporti familiari e dalle strutture patriarcali del paese di provenienza, oppure il fatto che molto spesso le «padrone» non sono affatto borghesi, ma usano una quota del loro salario per pagare quello delle loro «serve» oppure ancora, infine, che, con la crisi economica, molte donne – bianche, educate, cittadine – ritornino a lavorare dentro le proprie o altrui case perché rigettate dalla crisi fuori dal mercato del lavoro produttivo e nella povertà. Cade la frammentazione, ma rimane la divisione sessuale del lavoro, di cui le donne – migranti e non – continuano a fare esperienza per quanto in modi molto diversi. Quella tra serva e padrona rischia dunque di ridursi a una coppia semplicemente oppositiva, che impedisce di articolare l’insieme di differenze che si installano su una condizione che è pure comune.

Questo intreccio di problemi viene affrontato nella voce Intersezionalità, trattato da Vincenza Perilli e Liliana Ellena a partire da una ricostruzione delle radici del termine e da una discussione dell’uso che ne viene fatto nel dibattito femminista, dei suoi pregi ma anche dei suoi punti critici. Nato come strumento giuridico per supplire a «quei dispositivi legislativi di lotta alle discriminazioni incapaci di riconoscere la simultaneità dei diversi sistemi di dominio», l’intersezionalità ha il merito di riconoscere l’imbricazione delle differenze e delle forme di oppressione. Il concetto di intersezionalità sconta però tutti i limiti della prospettiva giuridica da cui trae origine che guarda ai rapporti sociali come a settori d’intervento codificabili mentre, nella realtà, il loro carattere è mobile. Questa mobilità dovrebbe ritrovarsi nella voce Migranti, che Francesca Brizzi elabora pensando alla figura di Antigone, donna che incarnerebbe il destino delle migranti. Per Brizzi, le migranti sarebbero nella posizione di parlare in nome di tutti gli offesi della terra, così che la loro identità è fissata nell’oppressione e il portato etico della loro posizione rischia di oscurare in questo modo le pratiche di lotta, individuali e collettive, che quotidianamente le donne migranti mettono in campo per sottrarsi a quell’oppressione. Le parole viaggio, confini o frontiere sono i punti fermi, seppur in movimento, della riflessione, che non va oltre la proposta del meticciato come categoria di analisi che dovrebbe combinarsi senza tensioni con il portato universalistico che nella posizione dei migranti e delle migranti si esprimerebbe. La rappresentazione del migrante – uomo o donna – è poi appiattita sul riconoscimento delle differenze culturali e religiose. Queste, così, sono in un certo senso cristallizzate: non sono messe alla prova della natura «mobile» delle differenze che la critica dell’uso giuridico della categoria Intersezionalità porta alla luce, e si traducono in altrettante «identità» che dovrebbero trovare posto in una «identità europea plurivoca», fondata su «principi morali universali» e sulla «dignità del singolo». In questo modo, diventa impossibile interrogarsi sui rapporti di (in)subordinazione che le stesse culture veicolano.

L’insistenza sulle differenze è nondimeno essenziale per smontare la pretesa di parlare della Donna in termini di identità. In questa direzione va la trattazione della coppia Sesso/Genere, messa a tema ancora da Liliana Ellena e Vincenza Perilli. La tensione tra i due termini è tenuta produttivamente aperta, perché viene esplicitamente criticata la «formulazione monolitica e il presupposto universalizzante e transculturale» che accomuna alcuni dei discorsi che pongono l’accento sulla differenza sessuale. Il riconoscimento del fatto che proprio il sesso è e, continua a essere, il parametro dei rapporti sociali e delle elaborazioni simboliche, non porta però a interrogare fino in fondo e a scompaginare quegli approcci teorici e politici che dalla prospettiva di genere traggono impeto. Si riportano infatti le idee di alcune studiose che, nell’intento di rinvenire l’origine della «scansione binaria della produzione della sessualità», sostengono che essa sia stata imposta dall’obbligo dell’eterosessualità. In questo modo, il problema del «sesso» è spostato dal corpo alla sessualità, senza che sia possibile interrogarsi su quale spazio lascino alla concreta esperienza di avere un corpo di donna teorie come quelle che muovono dall’intersessualismo o descrivono un immaginario post-gender per rifiutare la violenza del binarismo sessuale. Se porre la questione della differenza sessuale non può ricadere nella definizione di un’«essenza femminile», di una «natura» o di un «destino» immediatamente determinati dal proprio corpo, un discorso sul genere che ponga l’accento sulla sessualità rischia continuamente di precludere la possibilità di dare voce al fatto che il corpo delle donne continua a essere il luogo di iscrizione di un potere patriarcale che si dispiega su scala globale.

Il differente portato critico e dunque politico dei termini sesso e genere emerge ad esempio se si considera il termine Famiglia, che si confronta con una delle principali istituzioni messe in stato d’accusa da donne e femministe come sede di rapporti di potere e luogo di conflitto. Se la si osserva dal punto di vista della differenza sessuale, dalla posizione in cui essa obbliga le donne all’interno dei regimi di produzione e riproduzione sociale,la famiglia difficilmente può essere considerata come un contenitore neutro, o addirittura come un veicolo di emancipazione. È proprio questa, invece, la prospettiva offerta da Gaia Giuliani, che nel lemma Famiglia ambisce a proporre una lettura alternativa e in quanto tale positiva delle «nuove» famiglie, che vengono pensate in relazione al contesto attuale di precarietà e alle «trasformazioni dell’affettività». Usando come background analitico la critica transgender e queer alla teoria femminista, Giuliani definisce le nuove affettività e le famiglie non-tradizionali come quelle che si formano «tra coinquilini/e, amiche/i, colleghi/e, compagni/e di lotta o di migrazione». La ripetizione costante del sostantivo, al di là dell’aggettivo che lo accompagna, fa sì che le nuove famiglie siano strettamente interrelate a quelle vecchie e alle comunità. Significativamente le famiglie allargate dei migranti sono considerate come fonte di sostegno e rassicurazione di fronte alle difficoltà legate alla migrazione, ma questa innegabile funzione sussiste accanto al fatto che, ad esempio, molte di queste famiglie si ricreano per mezzo dell’istituto del ricongiungimento familiare, che rende la posizione delle donne giuridicamente dipendente da quella del marito e con ciò riafferma quell’ordine patriarcale che le migrazioni femminili tendono a scardinare. Se è vero che proprio le donne hanno affermato che la famiglia non è l’unica modalità di espressione dell’affettività, è altrettanto vero che essa difficilmente può diventare uno spazio scevro da dinamiche di potere se solo si cambiano i soggetti che ne fanno parte, ad esempio sostituendo alla coppia padre-madre una coppia madre-madre oppure padre-madre migranti. La discontinuità segnalata dall’aggettivo, quindi, non si può determinare solo a parole, senza porre in questione i regimi prima di tutto simbolici e poi giuridici che istituiscono i rapporti di potere sessuale, primo fra tutti la divisione sessuale del lavoro riproduttivo, in cui la famiglia si iscrive, e che inevitabilmente si oppongono alla creazione di un «immaginario comune» capace di destrutturare la famiglia tradizionale.

Femministe a parole ha il merito di restituire la varietà e la complessità dei dibattiti attuali e passati che le donne hanno messo in campo per prendere nominare se stesse, e dimostra l’urgenza di una rimessa in discussione del femminismo a partire dalle tensioni che lo attraversano. Questa operazione non può certamente trovare soluzione nell’omogeneità, che è il principale imputato di questa ricca raccolta di voci, ma non può forse ridursi neppure a un insieme pluralistico di posizioni. Per restituire un quadro plurale e a più voci, non si dà peso alla contraddittorietà tra le diverse prospettive, così che il carattere frammentario e parziale è in fondo la reale linea comune tra i lemmi. Se nel tentativo di definire nuove forme di famiglia, di cittadinanza, di genere, non si considerano il conflitto e la crisi in cui esse si generano, ciò che rimane è in fondo un esercizio linguistico, che riconosce il linguaggio come un oggetto completamente disponibile che fa presa sull’equivalenza dei significati, così che le parole sembrano poter essere usate indifferentemente e non essere, invece, un terreno di scontro solcato da linee di potere. Più che porre la sfida di districare i suoi grovigli, il pluralismo restituisce un’immagine del femminismo che rischia di essere compiuta in sé, e di recuperare un orizzonte universalistico che, come ogni universale, può tenere dentro tutto solo al prezzo di escludere o subordinare ciò che lo pone radicalmente in questione. Un femminismo che, proprio perché è per tutte, è sempre esposto alla possibilità di non essere per nessuna.

 

 

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