di CAPRIMULGUS
La nomina della ministra Cécile Kyenge ha suscitato alcune reazioni prevedibili, altre meno. Alla volgarità leghista siamo ormai abituati, così come agli insulti razzisti che hanno come bersaglio non solo i migranti tutti, ma direttamente e indubbiamente i «negri». Usiamo questa parola fuori da ogni politically correct che ha coperto d’ipocrisia l’istituzionalizzazione di un razzismo di lungo corso che attraversa l’Italia e fa parte della sua gloriosa storia. L’Italia unita ha avuto le sue colonie e la sua teoria della razza, fatta propria dal regime fascista e mai veramente discussa e cancellata. «Non ci sono italiani negri», è stato detto dopo il primo gol di Balotelli, oggi chiamato in causa come testimonial. Ma mentre un gol fa godere tutti, lo stesso non si può dire quando arriva una ministra «negra». Tolto il dispregiativo, è stata lei stessa a togliere di mezzo anche le formule vaghe definendosi «nera» e non «di colore». Oltre al nero c’è però di più: c’è il fatto che Cécile Kyenge, con la sua stessa presenza, spezza il velo del silenzio calato sulla condizione di ormai oltre cinque milioni di persone che vivono e lavorano in Italia, delle centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi delle nuove generazioni in movimento, di bambini e bambine marchiati a fuoco dallo stigma dell’alterità e per i quali già si pensano esami di una presunta italianità.
Sarebbe perciò sbagliato e ingenuo pensare che solo di integrazione e convivenza si debba parlare. Lo ripetiamo oggi a Cécile Kyenge, mentre le esprimiamo solidarietà e appoggio. Lo diciamo sicuri di interpretare anche il sentimento di tanti e tante migranti con cui ha saputo lottare negli anni scorsi, anche uscendo dagli angusti spazi della retorica del suo stesso partito. Un partito che mentre parla a mezza voce di una società meticcia, proprio dove lei vive, ha costruito e mantenuto due dei tredici centri di reclusione per i migranti. I famigerati Centri di identificazione ed espulsione, un tempo Centri di permanenza temporanea, sono stati infatti istituiti dal suo partito, oggi PD, con una legge che porta il nome di una persona che ha speso la vita per l’integrazione, Livia Turco, e dell’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Siamo sicuri che, nella disattenzione generale, tra le cose di cui il suo nome è garanzia in Europa vi sia anche il mantenimento di quell’apartheid democratico che vede nei CIE delle strutture simbolicamente necessarie.
La «scimmia congolese», come è stata amabilmente etichettata la ministra, dovrebbe secondo alcuni andare a «lavare i cessi» in quanto «negra». Seppur ancora troppo timide, le reazioni di condanna non mancano, compresa quella della presidente della Camera Boldrini, prima che altre urgenze prendessero il sopravvento. Quelli che si scandalizzano, però, sanno che per una donna nera qualsiasi «lavare i cessi» è una possibilità molto più concreta di quanto questi insulti possano far pensare? Siamo sicuri che il ministro Giovannini, che conosce le statistiche del mercato del lavoro italiano, potrà confermare che in questi anni l’integrazione ha voluto proprio questo: riservare ai migranti e alle migranti i lavori peggiori, peggio pagati, più pesanti, secondo una rigida divisione del colore. In questa rigida divisione, le donne nere devono soprattutto lavare i cessi, magari degli ospedali, oppure prostituirsi mettendo d’accordo i maschi neri e quelli bianchi, il cui piacere continua a nutrirsi degli stereotipi coloniali alimentati dal mito della patria. Il lavoro domestico e di cura è invece sempre più riservato, in condizioni non sempre migliori, ad asiatiche o migranti dalla pelle bianca che provengono dall’Est Europa se si tratta di badare gli anziani. L’integrazione, ben oltre le feste in costume, la ‘cultura’ che tanto interessa certi giornalisti embedded di sinistra e le vuote parole sulle pari opportunità, è l’integrazione nella precarietà e nello sfruttamento garantiti dall’apartheid democratico e dall’arroganza della discrezionalità amministrativa.
Ci sono poi altri silenzi e altri commenti che lasciano esterrefatti. Lo abbiamo già detto segnalando la novità di questo ministra, ma con il passare delle ore sono sempre più chiari la miopia e l’infantilismo politico di chi, dopo magari averne fatto per anni una bandiera, oggi banalizza questo attraversamento della linea del colore. Non stiamo celebrando una vittoria e neppure un’acritica apertura di credito a una neominstra, e questo tocca pure dirlo per non essere volutamente fraintesi dai più duri e puri. Mentre segnaliamo la novità, ci colpisce invece la non novità di certi commenti imbarazzati, infastiditi, quasi irritati. Ci ricordano gli stessi toni di chi nel 2010 ha storto il naso di fronte allo sciopero del lavoro migrante contro la Bossi-Fini. Nel 2010 lo sciopero è stato fatto lottando duramente contro chi non lo voleva: i grandi e piccoli sindacati e molti gruppi di movimento impauriti di perdere la centralità delle forme di militanza più rassicuranti. Una lotta che è stata più difficile con loro che con lei, che come noto era presente. I commenti imbarazzati di questi giorni ricordano anche chi il 23 marzo scorso si è ben guardato dal sostenere pubblicamente la manifestazione di Bologna, nella quale oltre tremila migranti chiedevano a ogni futuro governo di cancellare la legge Bossi-Fini e denunciavano il razzismo, la segregazione lavorativa, lo sfruttamento cui sono sottoposti. Se ne sono accorti migranti di mezza Italia, non altri.
Il fatto che la neoministra fosse presente in queste occasioni non significa certo che sono assicurati risultati eclatanti, ma non è del tutto indifferente per spiegare le reazioni scomposte che si stanno sentendo. Il contenuto politico che apre questa nomina pare sia ben chiaro soprattutto ai gruppi più razzisti di questo paese. Basta leggere i commenti per accorgersi che dietro al «ministro bonga bonga» c’è infatti la difesa strenua di quel razzismo istituzionale che si fonda sulle leggi tanto italiane quanto dell’Unione Europea, non su qualche gruppo nazistoide. Si tratta di un razzismo istituzionale ormai da tempo uscito dalle priorità del cosiddetto movimento, vale la pena ripeterlo in questa occasione. Capiamo perciò che dia molto fastidio essere superati da sinistra, anche solo sul piano dell’involontaria segnalazione del problema, dal governo che si è appena formato.
Difficilmente Cécile Kyenge potrà cambiare qualcosa da un ministero che non ha competenze in materia e senza portafoglio. Non sappiamo nemmeno se vorrà davvero farlo. Eppure non ci sembra questo il punto di fronte alla novità che rappresenta. Guardiamo piuttosto dentro le case dei milioni di migranti che vivono, lavorano e crescono in questo paese, ai loro sorrisi nel vedere una ‘come loro’ giurare in un governo. Loro sanno che questo non vorrà dire la fine delle sofferenze e dello sfruttamento, l’uguaglianza di opportunità, la cancellazione del razzismo istituzionalizzato. Loro sanno che questo andrà conquistato con il tempo e con la lotta. Sanno però con certezza che è una lotta da fare. Sarebbe il caso che anziché ignorare questa lotta quotidiana riducendola alle sterili tattiche di movimento, lo capissero anche tutti quelli che si professano antirazzisti e antirazziste. Sarebbe bene anche che le tante persone di buona volontà che credono che la parola integrazione sia il bene, capissero che l’integrazione è un campo di battaglia che, mentre ricopre di belle parole, miete ogni giorno le sue vittime imponendo un prezzo da pagare. Le prime reazioni alla proposta di una modifica della legge sulla cittadinanza nella direzione dello ius soli parlano da sole. Le esternazioni del presidente del Senato ed ex-magistrato Pietro Grasso, che già paventa, in perfetta linea con leghisti e fascisti, l’invasione di donne migranti pronte a scaricare il loro imbarazzante fardello in suolo italico, sono emblematiche e significative. Il concetto di «ius soli temperato dallo ius culturae», formulazione ripresa dall’ex ministro per la cooperazione e per l’integrazione Riccardi, la dice lunga sul grado di violenza di questa battaglia, e ribadisce che l’unica integrazione ammessa senza condizioni è quella nello sfruttamento.
Di fronte al silenzio quasi tombale che aleggia su queste questioni decisive del nostro tempo, intervallato dalla sterile esaltazione della diversità, da piccoli momenti d’irritazione e dalle offese razziste, la nomina di Cécile Kyenge segnala anche ai distratti che qualcosa nel mondo e in Italia è cambiato. E, probabilmente inseguendo lo scopo contrario, ricorda una dura lotta da fare.