martedì , 5 Novembre 2024

Siria, una riflessione. Amara

di MASSIMILIANO TRENTIN

Siria una riflessione amaraFin dall’inizio le rivolte in Siria si sono caratterizzate per un altissimo livello di violenza: in prima battuta da parte delle forze di sicurezza del regime, ben abituate da decenni a trattare con brutalità e disprezzo i propri cittadini, sicure della propria impunità. Allo stesso tempo, elementi provenienti da altri Paesi arabi si sono infiltrati nelle grandi manifestazioni di massa pacifiche per istigare azioni violente con lo scopo di radicalizzare lo scontro e allineare l’opposizione alla strategia del cambio di regime. Sia il regime sia queste forze erano convinti, e in parte lo sono tuttora, di essere i più forti e di poter giocare sullo scontro armato come dimensione più adatta a mantenere o sovvertire il regime. La militarizzazione delle opposizioni, soprattutto a partire dall’autunno del 2011, ha confermato la validità di questa tragica strategia.

La Siria e la sua popolazione sono sempre state ostaggio della propria posizione in Medio Oriente: centro nevralgico del pensiero nazionalista arabo, delle vie di comunicazione e scambio di idee, persone e risorse naturali nella regione. Solo una leadership tragicamente autoreferenziale e sicura del proprio monopolio della violenza poteva pensare di rimanere immune alle trasformazioni storiche in atto nella regione. Il famoso Asse della Resistenza antimperialista con Hizballah e Iran (ben presto Hamas è tornato nei ranghi della Fratellanza Musulmana) era certo apprezzato da larga parte della popolazione siriana, ma non dava soluzione ai problemi della povertà, del declassamento dei lavoratori salariati o dell’espropriazione delle terre a favore degli amici del regime e dei ricchi businessman del Golfo. Il progetto ambizioso della dottrina dei «cinque mari» aveva lo scopo di aprire il Paese agli scambi di merci e capitali in transito tra Mediterraneo e Golfo Persico, tra Mar Nero, Mar Caspio e Mar Rosso e captare le rendite che questi flussi in circolazione generavano. Eravamo sempre nella logica della rendita e della tradizione dell’economia di circolazione, che sono storicamente state accompagnate nella regione da altissimi livelli di concentrazione di ricchezza e privilegi. Con il Presidente Bashar al Assad, gli eredi del capitalismo di stato del padre Hafiz e del Partito Ba’th stavano costruendo il proprio futuro di nuova classe dirigente. In prospettiva storica e comparata, e senza rimpianti anacronistici, le nuove «leve» si sono rivelate decisamente più predatorie e in fin dei conti più autoreferenziali dei loro padri.

La questione sociale, la mancanza di lavoro, e le condizioni precarie di quel poco di occupazione creata nei servizi, nell’edilizia della speculazione e nelle telecomunicazioni sono i temi che hanno fatto convergere decine di migliaia di persone (anzitutto i giovani tra i 15 e i 35/40 anni) nelle strade dal febbraio 2011. Forti degli esempi tunisini, egiziani, yemeniti, bahreniti e [sic] anche libici, per loro era chiaro che la soluzione delle questioni sociali passasse anche per un cambio radicale delle istituzioni politiche di partecipazione. La società eccedeva il regime e la violenza di questo non era più in grado di disciplinarla. Del resto, qualunque forza politica avrebbe avuto qualche problema a governare una situazione in cui, senza cadere nel determinismo quantitativo, a fronte dell’entrata nel mercato del lavoro siriano di 300 mila persone nell’anno nel 2007, sono stati creati solo 65 mila nuovi posti di lavoro, di cui solo 8 mila con regolare contratto di assunzione. E il 2007 non è stato un anno di recessione. Il resto? Sottoccupazione, lavoro nero, migrazione in Libano, nel Golfo, in Turchia e chi ce la faceva in Europa.

Smantellamento decennale delle cooperative agricole, espropriazione delle terre e siccità del 2005 hanno accelerato l’esodo dalle zone rurali nel nord-est e del sud verso i centri urbani dell’ovest, che non a caso ha ingrossato le periferie nelle quali si è sviluppata la geografia degli scontri armati: dapprima nelle città di provincia, escluse dai flussi di investimenti e di rendita provenienti dall’estero e catalizzati da Damasco e Aleppo (gli equivalenti di Roma e Milano per il Paese arabo). Poi è venuto il momento anche delle capitali. Il regime porta la responsabilità di aver governato questi processi nell’illusione che i propri cittadini fossero in fin dei conti dei sudditi. E le forze anche sinceramente di sinistra e laiche interne al regime, o quantomeno consenzienti, non sono state in grado di opporsi alla concentrazione e all’ostentazione volgare di ricchezza e potere di cui si faceva mostra non tanto il Presidente Bashar al Assad, quanto i membri del suo clan. Dignità come «giustizia e libertà», in un legame inscindibile: nessun do ut des tra pane ed espressione, partecipazione e organizzazione.

Fin qui tutto semplice, a prima vista. Ma questa è solo una parte della storia, perché appunto la Siria è troppo centrale e troppo complessa nella sua composizione per lasciare indifferenti gli appetiti politici delle potenze regionali, o aspiranti tali, e delle metropoli occidentali. E le posizioni sono chiare. Per le Monarchie arabe del Golfo dallo scontro in Siria dipende la sorte della propria lotta per la leadership del mondo arabo. Per gli islamisti dell’AKP in Turchia l’ambizione vola più alta: affermarsi come la «Tigre del Medio Oriente», l’unico BRICS della regione, che necessita dell’accesso ai mercati arabi anche attraverso la «via di Damasco». La folgorazione, però, tarda a venire. Dalla tanto acclamata politica del «zero problemi coi vicini», dai tratti neo-ottomani siamo passati alla crisi generale dei rapporti con i vicini siriani, iracheni e iraniani. L’incapacità di risolvere la questione curda rende il tutto ovviamente più complicato.

Potremmo dunque ricostruire il famoso refrain di Henry Kissinger per cui «…you can’t make peace without Syria», nel senso che non si può normalizzare la politica medio-orientale attorno a un progetto regionale senza conquistare Damasco: conquistare nel senso di acquisirne il consenso o, se questo non arriva, conquistarla a suon di bombe e kalashnikov. La pervicacia con cui le monarchie del Golfo, assieme a Parigi, Londra, Washington e Roma proseguono nella strategia del rovesciamento militare indica sia il disprezzo per i costi umani e sociali subiti dalla popolazione civile sia la rigidità di un approccio tanto ideologico quanto dal gusto della politica delle cannoniere di imperialistica memoria. Appunto: l’attacco anglo-francese a Suez nel 1956, la falsa mediazione in Libano nel 1982-1984, il disastro in Iraq nel 2003 e il fallimento israeliano in Libano nel 2006 non sembrano aver insegnato niente agli «statisti» dell’Eliseo o ai «giovani» dirigenti di Downing Street.

Del resto, il disimpegno relativo di Washington dalla regione ha dato fiato ai campioni della libertà europei e alle petro-monarchie saudite e qatariote, che hanno accumulato ricchezze enormi grazie al terzo boom petrolifero degli ultimi dieci anni. Dopo aver investito abbondantemente in tutta la regione, ora vogliono trarne i frutti politici: dal conservatorismo sociale al settarismo religioso l’agenda sociale dei Paesi arabi del Golfo si coniuga perfettamente con la predilezione per le politiche neoliberiste. È proprio su questo binomio di conservatorismo sociale e neoliberismo economico, che i governi europei e le monarchie arabe del Golfo stanno cercando di «stabilizzare» (leggi governare) le trasformazioni in atto nelle società arabe. Un tentativo, del resto, equivalente a quanto si cerca di imporre in Europa dall’inizio della crisi globale. Il Mediterraneo, a nord come a sud, rappresenta veramente un’area di crisi. Per sfortuna loro, il resto del mondo arabo non ha la composizione sociale e politica del Golfo e l’applicazione delle loro politiche ha bisogno di dosi massicce di violenza che i soggetti scesi in strada hanno dimostrato di non accettare. Per fortuna, anche nostra.

Tornando in Siria, alle armi si affiancano anche tentativi di mediazione politica e istituzionale. Con tutti i limiti della diplomazia, oggi sembra questa la strada intrapresa da parti del regime di Damasco, dell’opposizione (e National Coalition for Syrian Revolutionary and Opposition Forces), da Russia e Stati Uniti. Come sempre, man mano che si aprono i canali diplomatici, le operazioni militari sul campo si intensificano per guadagnare terreno in vista della possibile apertura di negoziati. L’assenso de facto del nuovo Segretario di Stato USA, John Kerry e dunque del Presidente Nobel per la Pace, Barack Obama, ad armare in modo pesante i ribelli, islamisti e non, è l’ultimo passaggio di questa strategia. Non possiamo farci illusioni sulla fragilità dei possibili compromessi, né sulla possibilità che questi aprano spazi di partecipazione democratica. Le forze all’opera non hanno le credenziali minime per rivendicare niente di simile.

Ciononostante, data la situazione tragica sul terreno, la priorità oggi è fermare il bagno di sangue in corso. Anche perché è proprio lo sviluppo armato del conflitto ad aver marginalizzato, e in molti casi eliminato fisicamente, le forze democratiche in Siria. E la discriminante principale oggi è tra coloro che lavorano per una soluzione politica, necessariamente di compromesso, e coloro che si ostinano per la vittoria incondizionata e dunque per la soluzione militare: in Siria, oggi, ciò non significa altro che l’eliminazione fisica del nemico, la vendetta, il tagliagole, tout court. L’argomento per cui «armare i ribelli» porterà alla fine della guerra tramite il collasso del regime è tanto pretestuoso quanto falso: ma figlio coerente delle «guerre umanitarie».

Da febbraio di quest’anno siamo entrati nel secondo anno di guerra in Siria. Le notizie che ci giungono dai giornali, dagli esperti ma soprattutto dai nostri amici in loco e in esilio raccontano del deterioramento drammatico delle condizioni di vita materiali e delle relazioni sociali. Le appartenenze comunitarie, confessionali e tribali sono tornate a essere il criterio primario di sopravvivenza o di morte per il fuoco incrociato delle politiche settarie del regime, ma sempre più delle formazioni jihadiste in armi. E molti dei programmi per il post-Assad avanzati dalle forze armate sul campo non lasciano ben sperare a questo proposito. Le istituzioni statali, già precarie, sono venute meno in molte parti del Paese o comunque sottomesse alle priorità di guerra. Il territorio nazionale è esploso in diverse zone separate tra di loro e sottomesse al controllo delle milizie di turno soprattutto nelle zone in mano ai ribelli. Stiamo assistendo al de profundis nel sangue dello stato nazionale postcoloniale.

Pur con tutti i limiti del caso, lo Stato postcoloniale e il suo autoritarismo avevano comunque costruito attraverso le istituzioni nazionali dei canali e dei percorsi di ascesa sociale per larghe frange della società rurale e di provincia della Siria. Percorsi che s’intersecavano, senza peraltro mai coincidere perfettamente, con le intercessioni a opera delle autorità confessionali e tribali. La non collimazione tra il percorso statale e quello comunitario sembra cosa di poco conto. Qui, per noi, oltre il maledetto Mediterraneo, oltre la «linea del colore». Ma non è così per migliaia e migliaia di storie umane che si sono formate, istruite e politicizzate grazie a questi canali statali. L’espropriazione, la guerra, e il settarismo armato che questa si porta con sé, stanno divorando quei pochi margini che ancora (r)esistevano.

La devastazione delle logiche di espropriazione e di esclusione si era inceppata con le manifestazioni e le rivolte popolari. L’ostinazione con cui parte del regime e parte delle opposizioni hanno perseguito la via armata al conflitto ha però annichilito quegli spazi di libertà e di costruzione di una nuova cittadinanza che la gente aveva aperto con forza. Certo, la cittadinanza ha sempre implicato il tracciare nuove frontiere, nuove linee di esclusione. Ma le pratiche messe in opera nelle piazze, nelle strade e anche nei luoghi di lavoro di questi ultimi due anni in Egitto, Tunisia, Marocco e altri luoghi del mondo arabo hanno dato prova di inedite capacità di espansione. Queste non possono e non devono essere sottovalutate perché sviluppate appunto in un contesto di coercizione fisica e di ricostruzione sociale su basi confessionali. In Siria, i tempi e gli spazi per queste sperimentazioni sono stati limitati dalla scelta armata: le pratiche di solidarietà che permettono la costruzione di nuovi legami politici sopravvivono solo a livello locale mentre il livello nazionale è loro precluso dalle condizioni di guerra.

Oggi, il rifiuto e la denuncia di chi persegue la logica di dominio della guerra e la logica di discriminazione del settarismo è un elemento inscindibile dal sostegno a chi vuole riaprire quegli spazi di libertà e di giustizia che sono tanto umani quanto universali. E che, dunque, valgono anche per chi vive nelle sponde settentrionali del Mediterraneo.

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