di FELICE MOMETTI
Gli hanno sparato undici colpi di pistola, colpendolo sette volte. Così è stato ucciso Kimani “Kiki” Grey, giovane sedicenne afroamericano di Brooklyn East. Sabato notte insieme a degli amici sostava all’incrocio tra Church Avenue e la 55° Strada, una delle zone più povere di New York dove non arriva nemmeno la metropolitana, quando improvvisamente da una macchina senza insegne sono scese di corsa due persone che, senza qualificarsi, hanno intimato al gruppetto di alzare le mani e mettersi contro il muro. Kimani fa un movimento giudicato «strano» dai due agenti in borghese: si gira di scatto, mette le mani alla cintura e tenta di fuggire. Viene freddato sul marciapiede con sette pallottole. Secondo la versione di Ray Kelly, capo della polizia di New York, stava per estrarre una pistola che poi viene mostrata per la prima volta al commissariato di polizia. Secondo tutti i testimoni che hanno visto la scena non c’era alcuna pistola. Kiki, come molti giovani della zona indossava pantaloni abbassati, una felpa nera con cappuccio, parlava lo slang niggaz e aveva piccoli precedenti per furto. Questo è bastato per farlo rientrare nella categoria dei soggetti socialmente pericolosi secondo il programma anticrimine Stop and Frisk, che concede la completa impunità alla polizia di New York nelle operazioni di controllo e repressione. Un «programma» che l’anno scorso ha fatto 26 vittime, tutte di origine latina e afroamericana, migliaia di arresti e circa un milione di perquisizioni. Lunedì sera gli amici di Kiki iniziano a portare fiori, candele, biglietti, fotografie sul luogo della tragedia. Vengono immediatamente fermati e perquisiti, la tensione sale e un piccolo corteo improvvisato si dirige verso il commissariato di polizia. Lungo il percorso si uniscono vari giovani afroamericani e jamaicani – un tratto di Church Avenue è soprannominato Bob Marley Boulevard – che gridano «no justice, no peace, fuck the police». All’ennesimo blocco dei manifestanti, da parte della polizia, si staccano piccoli gruppi che imboccano strade laterali per poi riapparire più avanti lanciando bottiglie, pietre, lattine contro gli agenti e svuotando alcuni negozi di grandi catene commerciali. I siti web dei media mainstream lanciano l’allarme parlando di «riot a Brookyn». La zona viene completamente militarizzata con un dispiegamento impressionante di uomini e mezzi, dagli elicotteri che sorvolano il quartiere a bassa quota alla polizia a cavallo che presidia gli incroci. Martedì e mercoledì sera ci sono altre due veglie e altrettanti cortei improvvisati verso il commissariato di polizia. Questa volta si vede anche la partecipazione di alcuni attivisti di Occupy Wall Street, di vecchi militanti delle Pantere nere e del gruppo Malcom X di Harlem, tanto basta per scatenare una campagna che li accusa di voler strumentalizzare, per citare sempre la dichiarazione del capo della polizia, uno «spiacevole incidente, in cui la polizia si è comportata secondo le procedure previste». Nelle due serate ci sono una decina di arresti per blocco stradale. La strategia è chiara: si vuole far passare in secondo piano l’omicidio di un ragazzo di sedici anni che per scappare si tira su i pantaloni e creare la psicosi della rivolta orchestrata dai «professionisti del disordine».
Brooklyn East è un’immensa periferia urbana in cui vivono circa un milione e mezzo di abitanti, a grandissima maggioranza afroamericani e caraibici, e si contende con il South Bronx il primato di zona più povera e degradata dello Stato. Non ci sono servizi sociali, uffici comunali, molte scuole sembrano in stato di abbandono e tutto ciò non è un caso. È un’altra città, un’altra dimensione, rispetto a Manhattan che si trova a una manciata di chilometri. New York ha dei confini interni non segnati sul territorio ma ben presenti nella mente e nei comportamenti delle persone, nelle mappe delle zone da tenere sotto controllo da parte polizia, nelle pratiche di razzismo istituzionale. Il caso di Kiki Grey è arrivato in consiglio comunale e, si dice, sul tavolo di Obama. Per ora l’unica risposta è stata il silenzio. Intanto continuano le «veglie» serali.
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