Dell’affermazione del Movimento Cinque stelle alcuni avevano come sempre già detto tutto. Altri stanno dicendo ora il contrario di tutto. Capita che siano persino d’accordo. A urne appena aperte noi abbiamo scritto che la vittoria di Grillo avrebbe avuto l’effetto di rigenerare il sistema politico. D’altra parte non ci voleva molto. Guardando agli slogan: Adesso puoi di nuovo votare! e: Devono andare tutti a casa! il risultato era talmente evidente da non lasciare dubbi. È stato chiesto un voto di fiducia sulla capacità di rigenerarsi del sistema politico. Il risultato è stato un miracoloso astensionismo parlamentare di massa, grazie al quale chi ha votato Grillo sembra davvero convinto di essersi anche astenuto, e molti di quelli che si sono astenuti si scoprono ora grillini. Peccato che i nuovi rappresentanti si comportino già come vecchi parlamentari e, secondo una nota e tenebrosa tradizione politica, sembrino saldamente determinati a sostenere la centralità del parlamento solo fino a quando non potranno eleggere un esecutivo tutto per sé. Siccome è in contrasto con alcune espressioni del sistema politico, il grillismo viene così considerato come il sintomo dell’esplosione delle mille contraddizioni che costituiscono la società. Chi sia a farle esplodere e a quale scopo è del tutto secondario. È vero, si riconosce, che molti di coloro che si affollano nell’anticamera della rappresentanza vorrebbero uscire dalla crisi in direzioni diverse e inconciliabili. Le elezioni mostrerebbero però i segni ineluttabili del tanto atteso esodo costituente: la società abbandona il sistema politico che ha legittimato e gestito l’austerità. Tuttavia, ci assicurano, noi saremo certamente in grado di selezionare, indirizzare e organizzare ciò che si muove. All’ordine del giorno ci sarebbe l’ingovernabilità. Dopo anni passati a scoprire che il governo dei processi non è solo quello politico e che anzi esso si dispiega seguendo linee più complesse all’interno della società globale, la difficoltà del sistema politico nazionale a trovare una mediazione di potere diventa improvvisamente il dato da cui partire.
In questi giorni qualcuno, più portato alla prosa che alla poesia, ha detto ragionevolmente che siamo di fronte a una sconfitta dei movimenti. Siamo d’accordo e ribadiamo che molti dei commenti che stanno girando finiscono inesorabilmente per riconoscere al sistema politico una centralità che esso non sperava di avere. Al centro non ci sono gli scomposti movimenti della società, ma la crisi così come viene rappresentata all’interno dello stesso sistema politico. C’è lo scontro risolto con slancio patriottico tra il sistema politico italiano e quello tedesco. C’è un rifiuto dell’austerità che entusiasma Goldman Sachs. Il tutto nella convinzione che le trasformazioni in atto risolveranno per noi il problema di come intervenire al loro interno. Pare fuori luogo anche la semplice considerazione che il punto di partenza da cui si rifiuta l’austerità è già un’ipoteca sull’esito della contestazione. Rimane così irrisolto il compito della complicata costruzione politica all’interno di un sistema globale di sfruttamento che trova un eco ormai molto parziale, anche se non irrilevante, nei sistemi politici locali. L’impressione è che ci troviamo impreparati nei confronti di un’apparente novità e che ciò sia dovuto al modo in cui negli ultimi anni è stato pensato il rapporto di potere nel quale si è inscritto il comando sul lavoro precario, operaio e migrante.
Nel senso comune di movimento la precarietà non si oppone al padrone individuale o collettivo, ma è sinonimo di instabilità, dell’erosione di possibili relazioni sociali, della cancellazione di diritti e servizi, della diminuzione del reddito disponibile. Tutte cose verissime che tuttavia rischiano di cancellare che essa si colloca dentro a un rapporto sociale, nel quale il (poco) denaro pagato svolge una specifica funzione di comando e controllo e non può essere perciò considerato allo stesso tempo come il risarcimento per la vita mancata. Questa attitudine che ci ha attraversato negli ultimi anni rende oggi possibile l’entusiasmo per le urla di Grillo che parlano di poveri senza mai nominare i ricchi; strillano di precarietà senza dire nulla dei precarizzatori o al massimo prendendosela con il servizio pubblico; strepitano che il lavoro non può essere tutto nella vita e che bisogna lavorare meno, ma non dicono mai che quando qualcuno lavora (e, nonostante i desideri, i più sono tuttora obbligati a lavorare) c’è ancora qualcun altro che guadagna. Proprio perché Grillo promette di risarcire la solitudine dello sfruttato si può proporre come il rappresentante di quegli ambiti che negli ultimi anni hanno funzionato come rifugio delle individualità prodotte e calpestate dal neoliberismo. I territori e la comunità 2.0, quella della rete, trovano finalmente la voce unitaria che può affermare la condizione di tutti coloro che si sentono dominati dal potere sociale e globale del denaro.
Siccome non basterà una riforma del sistema bancario a risolvere questa questione, osiamo dire che, senza esagerarne la rilevanza, mentre rivela l’assenza di ogni politica di parte, il grillismo presuppone uno specifico ordine tra coloro che vuole rappresentare. Quello di Grillo non sarà il governo provvisorio e la discussione a suon di post e di tweet ci sembra molto lontana dal rappresentare uno Smolny dei giorni nostri. Notava Brecht che i bolscevichi nel ’17 capirono che qualcosa stava cambiando perché nel palazzo tutti li schifavano, eccetto chi serviva loro il rancio con un lieve sorriso, unico rappresentante del personale di fatica rinchiuso nelle cucine. Questa storia non ha ovviamente nulla a che vedere con l’oggi, ma è a suo modo interessante, perché impone la domanda: chi si guadagna i mezzi sorrisi di precarie migranti e operai per quello che sta facendo? Negli scorsi anni si è preferito voltare loro le spalle: mentre continuavano a inseguire un salario covando rabbia e frustrazione, si è inseguito il sogno di trovare nel Parlamento il nemico. Mentre la crisi affondava i suoi colpi, avanguardie solitarie si aggiravano per le città fino a tarda sera invocando la fine di tutti i mali. Atto simbolico dopo atto simbolico, scontro epico dopo scontro epico, l’autorappresentazione del movimento è diventata l’unico segno della sua esistenza. Oggi i padroni salutano con divertito piacere quanto sta accadendo. Anche quelli che non producono occhiali ci vedono bene, e notano che l’ingovernabilità del palazzo pare essere direttamente speculare alla governabilità dei rapporti sociali. Vi sono eccezioni, certo, come quei fastidiosi migranti, gli unici che paiono avere dei nemici chiari, ma anche gli unici che non possono essere nemmeno nominati e la cui condizione deve essere ogni giorno taciuta per consentire la riproduzione di un ceto politico di movimento che appare il vero sconfitto di questa fase. Tutti si precipitano a dichiarare morto ciò che già era morto da anni. A noi invece pare il punto vero da cui ripartire. Non diversamente dai partiti presenti dentro e fuori dal parlamento, nei movimenti hanno sempre tutti ragione. Perciò i più cantano vittoria. Noi non cantiamo vittoria. E ci chiediamo, quanto sta accadendo non mostra forse l’incapacità delle strutture, dei discorsi e dei percorsi di movimento esistenti di cogliere e attraversare la condizione prodotta dalla crisi? Non mostra, forse, l’incapacità di porre temi, parole e percorsi organizzativi capaci di spostare l’obiettivo dal sistema politico al sistema complessivo di sfruttamento? Non mostra l’incapacità di misurarsi con le trasformazioni del sistema produttivo e della produzione della ricchezza? Non dimostra, ancora, l’allinearsi all’essenza del neoliberalismo dei discorsi anche più radicali, grazie al rifiuto di voler aggredire le novità del tempo presente e le forme attuali del problema politico del rapporto sociale di capitale? Non c’è forse una strana eco tra la riproduzione di forme note del fare politica e la riproduzione indisturbata di questo rapporto sociale?
Si dirà, ma nel programma Cinque Stelle c’è il reddito di cittadinanza. Questo è vero: il problema però non è solamente legato a quel macigno chiamato cittadinanza, e alla separazione che porta con sé tra chi la possiede e chi non ce l’ha, ma nel referente polemico. Pensare che sia lo Stato a liberare i precari dal ricatto offrendo loro una via di fuga dalla costrizione del lavoro è pura illusione. È certo ovvio che una qualsiasi forma di sostegno al reddito in linea con altri paesi europei sarebbe una boccata d’ossigeno per molti lavoratori e lavoratrici, ma a quale prezzo? La sparata di Grillo su dove si dovrebbero trovare i soldi per sostenerlo è rivelatrice delle insidie che si nascondono nel fare di una misura ragionevole per l’equilibrio del sistema uno slogan rivoluzionario. Puntando alle pensioni e agli stipendi dei dipendenti pubblici, infatti, Grillo non fa che mostrare come il reddito di cittadinanza sia perfettamente in continuità con una definitiva rimodulazione del mercato del lavoro e dei servizi che faccia scomparire la precarietà rendendola costitutiva del sistema. È forse per questo che, come abbiamo sottolineato in tempi non sospetti, il reddito di cittadinanza in diverse forme era presente in tutti i programmi elettorali, Monti compreso, e il riferimento costante non può che essere alle esperienze in vigore in altri paesi dell’odiata Europa. Quella stessa Europa che per noi rappresenta il problema della prospettiva transnazionale che devono sempre avere le lotte, è diventata per molti l’alibi per individuare nelle piccole comunità i segni di un futuro a venire dove il mondo è scomparso. È invece altro ciò che serve. Qualcosa magari meno esteticamente performante, i cui segni non si colgono nel palcoscenico della spettacolarizzazione della politica, ma nelle contraddizioni dei comportamenti, nelle necessarie connessioni da costruire e nelle parole ancora da trovare.
Per tutti questi motivi il prossimo 23 marzo noi saremo a Bologna a manifestare con i migranti. Sappiamo bene che cos’è il movimento No Tav e certamente non lo confondiamo con gli eletti grillini che saranno presenti alla manifestazione in Val di Susa. Conosciamo le ragioni del movimento No Tav e le sosteniamo, mentre pensiamo che le lotte, anche quelle fatte nei territori, debbano uscire dai territori. Tuttavia ci siamo scelti una parte, magari poco appariscente, ma che già il prossimo 22 marzo mostrerà la sua centralità politica nello sciopero di migliaia di lavoratori migranti nel settore della logistica. Noi sosterremo questo sciopero, così come il 23 marzo saremo a Bologna a manifestare con i migranti contro la legge Bossi-Fini. Saremo con chi, anche senza una teoria, ha praticato l’esodo e proprio per questo non sarà mai rappresentato in quanto parte di un territorio. Saremo con chi non avrà mai un reddito di cittadinanza. Saremo con chi sopporta il razzismo non solo dei padroni, ma anche delle istituzioni e dei comici carismatici, perché il razzismo non è un incidente culturale, ma un modo molto concreto per stabilire gerarchie all’interno della forza lavoro. Il 23 marzo saremo a Bologna con i migranti perché non sono solamente facchini sfruttati, dei quali si deve scoprire l’uguaglianza nello sfruttamento, ma uomini e donne che stanno materialmente modificando i comportamenti di classe non solo in questo paese.
Metti mai che ci scappi un mezzo sorriso.