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Lo tsunami dei giovani. I Paesi Arabi tra rivolta, migrazione e sfruttamento

Intervista a SAMIR AITA, 25 gennaio 2013, Venezia

di MASSIMILIANO TRENTIN

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Lo Tsunami dei giovaniPubblichiamo una lunga intervista a Samir Aita, fondatore nel 2005 di «Le Monde Diplomatique éditions arabes», del quale è tuttora redattore capo, e presidente del Cercle des Economistes Arabes. Siriano di origine, Samir Aita conosce direttamente la situazione dei paesi arabi e del sud del Mediterraneo. In questi ultimi anni ha studiato le trasformazioni epocali prodotte al loro interno dal lavoro migrante e da quello precario, così come dagli effetti globali della finanziarizzazione del capitale. Grazie a Massimiliano Trentin, che ha raccolto l’intervista, Samir Aita ci racconta la composizione soggettiva delle cosiddette primavere arabe: dal ruolo dei conflitti di lavoro a quello degli ultras delle squadre di calcio, dall’irruzione delle donne al carattere essenzialmente giovanile delle rivolte. Questo composito movimento di sovversione si è scontrato e si scontra con l’ordine neoliberale e conservatore che spesso assume il volto del cosiddetto Islam Politico. Le rivolte arabe hanno contribuito a mettere a nudo un progetto di sfruttamento del lavoro migrante precario e operaio che congiunge le due sponde del Mediterraneo. L’intervista ci restituisce un quadro mosso e tutt’altro che consolidato: non una furiosa tempesta che tende prima o poi ad acquietarsi e nemmeno una rinfrescante brezza primaverile, ma uno «tsunami dei giovani» che continua a squassare le sponde del Mediterraneo.

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La prima domanda riguarda il ruolo svolto nelle recenti rivolte e trasformazioni politiche dai cosiddetti «giovani»: categoria assai ampia e generale…

I giovani hanno fatto tutto. Quando ci si trova con gli amici con cui si sognava di fare la rivoluzione, siamo ben felici di vivere questi momenti, in cui i giovani hanno preso in mano le loro vite e vogliono cambiare il mondo. Noi non abbiamo potuto fare questo. Ma se loro hanno potuto farlo è forse per una ragione ben precisa: cioè, i giovani sono diventati la maggioranza della popolazione a causa del baby boom di vent’anni fa, che è diventato un vero e proprio tsunami oggi. Questo tsunami è potentissimo.

Sono tutte persone molto integrate nella società civile, libere nei loro comportamenti; molto più libere di quanto non siamo stati noi e le nostre generazioni. Liberi anche di pensare la politica e liberi dai blocchi politici che esistevano una volta. E sono abbastanza determinati. Solo gli uomini liberi possono pensare e fare la rivoluzione, anche se la stessa rivoluzione domanda maggiori libertà.

In Egitto questi giovani hanno dimostrato una magnifica determinazione a scendere in piazza e condurre le battaglie contro la polizia prima e contro l’esercito poi: «Se volete fare qualcosa, dovrete ucciderci». E l’esercito non li ha uccisi. In Siria, si sono mobilitati poco a poco nelle diverse città, e ogni volta in solidarietà con le altre città. I giovani hanno svolto un ruolo magnifico, ma anche contraddittorio, non ancora completamente politico. Un po’ come i movimenti Occupy Wall Street e i movimenti dell’Europa mediterranea, i quali vogliono costruire qualcosa di nuovo: si trovano nella condizione di distruggere l’ordine vecchio senza però prospettare un altro mondo, più o meno preciso; appunto, vogliono costruire un’utopia.

Qual è stato il ruolo svolto dal mondo del lavoro, soprattutto in riferimento alle forme di organizzazione dei manifestanti in rivolta? Per esempio, in Egitto dal 2006 al 2008 abbiamo assistito alla più lunga e grande stagione di scioperi e di auto-organizzazione dei lavoratori dagli anni Venti e Trenta del XX secolo. In Tunisia, il sindacato UGTT godeva di maggiori margini di manovra nei confronti del regime rispetto agli omologhi egiziani o di altri Paesi arabi, e ha giocato un ruolo chiave nelle prime fasi delle proteste.

Il ruolo dei movimenti dei lavoratori e dei sindacati varia molto da paese a paese. È vero che negli ultimi anni i movimenti di lavoratori sono scesi in campo in Egitto a Mahalla al Kubra [uno dei maggiori centri industriali e manifatturieri e sede di numerose lotte sindacali e politiche, ndt], e hanno ingaggiato una campagna di lotte molto dura e anche impressionante nel livello e nella qualità delle rivendicazioni. Non se ne parla molto, ma anche in Siria sono scoppiate lotte dei lavoratori quando il governo, ad esempio, ha privatizzato il porto di Tartous a favore di una società straniera, con la partecipazione di Rami Makhlouf [membro della cerchia ristretta della Presidenza al Asad e noto anche come Mr. 5 o 10% per le mazzette che pretende per ogni contratto statale di rilevanza nazionale, ndt]. Ci sono stati altri scioperi nel Paese ed era molto tempo che non se ne vedevano in Siria, dal momento che sono vietati per legge. Comunque sia, ripeto, l’influenza di questi movimenti sulle rivoluzioni arabe varia molto da caso a caso. In Tunisia, il sindacato è una potenza in tutto il Paese: la sua relazione ambigua con il potere gli ha permesso di contribuire in modo molto rilevante nell’organizzazione del movimento e a costruirne l’utopia. In Egitto molto meno, anche se Mahalla al Kubra ha offerto un’esperienza di rivolta abbastanza forte e tale da accrescere l’accumulazione di esperienze di resistenza che poi ha portato alla rivoluzione.

È vero che in Egitto l’esercito ha deciso di non sparare sui manifestanti anche perché i sindacati avevano appena deciso di partecipare alle manifestazioni?

Sì, anche. Ma non si parla molto di un altro movimento che ha svolto un ruolo altrettanto importante: gli ultras del calcio. Questi gruppi hanno accumulato esperienza negli scontri con la polizia per oltre dieci anni. In piazza Tahrir i veri combattenti sono stati loro. Quando le forze di sicurezza decisero di spaccare il movimento, in piazza c’erano circa 30mila manifestanti che hanno tenuto e resistito. È vero che c’erano i lavoratori, ma c’erano anche gli ultras, che hanno un’esperienza di lotta che è ben diversa da quella dei lavoratori, almeno in Egitto. Nel mondo arabo, la nozione di lavoro salariato è difficile da definire. Al di fuori del settore pubblico, l’80% delle persone svolge lavori temporanei e non sono dei veri lavoratori salariati. Possiamo dire che il mondo del lavoro salariato ha spinto il movimento su alcune campagne di lotta, come nel XIX secolo in Europa; ma c’è tutto un altro mondo che ha spinto su altri temi, come il calcio. I due movimenti hanno trovato una convergenza. Per questo motivo, la decisione dell’esercito è dipesa da molti fattori. Quando le forze di sicurezza sono collassate e l’esercito è intervenuto, c’era forse l’intenzione di spaccare il movimento, ma hanno visto che la gente era determinata e sarebbe stato un bagno di sangue. Non solo al Cairo. C’erano molte altre manifestazioni, tra cui quelle dei sindacati a Port Said. Inoltre, dato che i militari in Egitto dipendono in larga misura dagli aiuti statunitensi, il rischio per l’esercito egiziano era di perdere l’appoggio politico e finanziario dall’estero: dunque, hanno preferito non attaccare il movimento perché sarebbe stata la distruzione del Paese, e anche la loro fine. In Siria è diverso perché l’esercito non è condizionato da ciò che dicono gli USA. La questione è un’altra. Una parte delle forze di opposizione sostenute dall’estero ha deciso di cambiare la bandiera, per cui fin dall’inizio, ci sono state due bandiere nella rivoluzione [dalla bandiera ufficiale nera-bianca-verde e rossa alcune forze di opposizione hanno eliminato la banda rossa, ndt]: ma perché? È come se vi fosse un paese contro l’altro. In Egitto, invece, c’è un solo Paese e un solo movimento. In Libia, come in Siria, ce ne sono due, ed è proprio lo sviluppo della situazione in Libia che ha portato l’esercito siriano a contrapporsi ai manifestanti. In Siria, la rivoluzione ha mancato l’obiettivo di conquistare l’esercito alla sua causa. In tutte le rivoluzioni, questo è un aspetto molto importante come lo è stato anche in Europa, l’esercito ha sempre sparato sui manifestanti; ma allo stesso tempo, i rivoluzionari hanno cercato di spostare l’esercito verso le loro posizioni.

Si parlava del mondo del lavoro e della distinzione tra lavoratori «formali» e «informali», secondo il linguaggio ufficiale delle organizzazioni internazionali. In questo mondo, ci sono stati esempi di lotta e auto-organizzazione dei precari che possono aver influenzato le rivolte? Per esempio, le donne dovrebbero esserne una parte rilevante…

Quando abbiamo studiato la composizione del mondo del lavoro femminile, si è visto come il lavoro femminile è più «formale» rispetto a quello degli uomini: vogliono partecipare maggiormente al mondo del lavoro e hanno paura dell’ambiente informale perché lì tutto è permesso. Nelle statistiche nazionali, si vede come vi è più lavoro femminile nel settore formale. Sono gli uomini che sono maggiormente impiegati nel settore informale, ed è anche per questo motivo che la coscienza salariale e di cittadinanza è più forte nelle donne che non negli uomini. In media, dunque, ci sono più donne che lavorano nel settore formale, sia pubblico sia privato. Le donne hanno svolto un ruolo fondamentale nelle rivoluzioni arabe e ci sono molti esempi di leader e pasionarie. Questo è un elemento sociale decisivo per costruire una nuova coscienza sociale, un nuovo contratto sociale.

La crisi globale ha colpito l’area del Nord Africa e Medio Oriente tra la metà del 2008 e il 2009, almeno secondo dati statistici macroeconomici. Qual è stato l’impatto della crisi globale sul mondo del lavoro salariato, formale e informale? Quali sono stati i settori più colpiti?

La crisi ha influenzato molto le trasformazioni in corso, ma non è stata l’elemento decisivo. L’elemento determinante è stato lo «tsunami dei giovani». La crisi ha influenzato due fattori importanti. Il primo, più rilevante, riguarda le rimesse dei lavoratori migranti all’estero. La percentuale della forza lavoro nazionale all’estero in questi Paesi è enorme [50% dei migranti arabi si dirigono in Europa, il 25% nei Paesi del Golfo, il restante tra Nord America, Australia e Sud America, ndt]. La vita di molte famiglie di questi lavoratori dipende dalle rimesse dall’estero. Quando è giunta la crisi, i redditi di queste famiglie si sono abbassati notevolmente. La gente non poteva più inviare soldi come prima. Le rimesse sono il vero sistema di sicurezza sociale perché, e questo è il secondo elemento importante, tutti i governi, anche quelli che si dicono socialisti come in Siria, hanno adottato le politiche di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale: ridurre il budget dello Stato, abolire le sovvenzioni, diminuire l’intervento statale nella produzione e distribuzione, ecc. Tutte queste economie sono diventate «neoliberiste» nel preciso momento storico in cui la dinamica demografica sviluppava una nuova ondata di migrazioni dalla campagna verso la città. Dunque, i governi e le loro politiche non hanno fatto nulla per contenere questa ondata migratoria, anzi le loro politiche economiche l’hanno incentivata, riversando milioni di persone nelle piccole città e nei sobborghi delle grandi città. Qualche mese prima delle rivolte in Siria, il governo ha abolito le sovvenzioni al mazut [cherosene per riscaldamento e altre piccole attività di consumo, ndt] e ha distribuito soldi perché la gente potesse comprarlo. Tuttavia, in questo sistema di distribuzione del mazut ci sono tantissime figure corrotte, mafiosi, ecc., e la gente ha subito uno shock enorme. Crisi globale e politiche neoliberiste sono due fattori molto importanti, ma non sono stati questi a far scoppiare la rivoluzione: possiamo dire sicuramente, però, che hanno contribuito a costruire le condizioni affinché la rivoluzione potesse scoppiare e continuare. Sono state condizioni necessarie ma non sufficienti.

Possiamo forse dire che la crisi ha colpito nel 2009 e le politiche economiche di austerità adottate dai governi in Tunisia, Egitto e Siria nel 2010 hanno accelerato la crisi?

Solo il governo dell’Algeria ha preso misure anticicliche, riversando grandi quantità di denaro nel Paese; anche l’Arabia Saudita, ma solo dopo le rivoluzioni in Tunisia ed Egitto. Tutti gli altri governi no, Siria compresa, anche perché erano sostenuti dalle organizzazioni economiche internazionali per aver preso delle misure pro-cicliche, che hanno accelerato il ciclo economico recessivo. È vero che era molto difficile essere responsabili di governo in una situazione del genere. Anche tra le persone che provengono da esperienze di sinistra è molto diffusa l’idea che bisogna ridurre il debito statale, bisogna fare dell’equilibro del budget l’assoluta priorità, bisogna mantenere un tasso di cambio fisso con il dollaro…ma perché tutto questo? Durante i periodi di crisi lo Stato ha un ruolo molto importante: deve prendere misure anticicliche per creare progetti e infrastrutture che facciano riprendere le attività economiche, un po’ come il Piano Marshall in Europa. Ora, nessuno di questi governi ha avuto il coraggio di dire che avrebbe investito. E tanto peggio per il debito e l’inflazione! E l’inflazione sarebbe stata governata attraverso misure di sostegno alla popolazione: la popolazione avrebbe capito. Oggi si parla della Turchia come modello di crescita economica. Per dieci anni la Turchia è cresciuta in un ciclo inflazionistico impressionante. Ma era un ciclo inflazionistico «sano» che ha potuto alimentare la crescita economica e che ha permesso, poi, di continuare il ciclo di crescita adottando alcune misure di rigore finanziario: ma se non ci fosse stato quel periodo di shock inflazionistico, probabilmente non ci sarebbe stato alcuno sviluppo economico. La situazione è simile oggi in Cina. Uno Stato non può andare in fallimento, contrariamente a ciò che pensano molti. Per esempio, i collaboratori di Bashar al Assad in Siria, come al Dardari e altri [principale artefice governativo delle misure di liberalizzazione e privatizzazione in Siria negli ultimi dieci anni, ndt], non hanno capito assolutamente nulla dell’esperienza di Hafiz al Assad. La Siria ha conosciuto un crollo finanziario nel 1986; era molto indebitata, ma non ha pagato i propri debiti e questi debiti, poi, sono stati cancellati. Uno Stato non può andare in fallimento. Altro esempio: a Dubai, il principe è uscito una sera dicendo: «ho intenzione di rinegoziare il debito pubblico» e tutte le banche, nazionali ed estere, sono corse da lui dicendo che avrebbero fatto tutto quello che lui avrebbe voluto pur di veder garantita almeno una parte dei propri crediti. Al contrario, il Primo Ministro della Grecia ha seguito le indicazioni dell’Unione Europea, imponendo maggiori condizioni di austerità. Sarebbe stato sufficiente che il Primo Ministro della Grecia, a maggior ragione se non era lui il responsabile del debito pubblico, avesse detto il venerdì sera alla chiusura dei mercati: «ristruttureremo il debito della Grecia» per vedere la Merkel, Sarkozy e altri pregarlo di non farlo e scendere a patti con Atene.

Una domanda sul ruolo delle migrazioni. Abbiamo notizie di numerosi rientri in patria di lavoratori migranti dall’Europa. Secondo lei, quale potrà essere l’impatto di questi movimenti di ritorno nei Paesi arabi?

Assieme ad altri specialisti del sud del Mediterraneo abbiamo svolto ricerche sul mondo del lavoro dal Marocco alla Siria: delle persone che entrano ogni anno a far parte della forza-lavoro di questi Paesi, dal 10 al 30% emigra. Le forme delle migrazioni sono cambiate, ma non la dimensione quantitativa. A nulla sono valse le politiche di contenimento delle migrazioni adottate dall’Europa e dai Paesi del Golfo. Questi ultimi sostituiscono la mano d’opera araba con quella asiatica. In questo caso, non vi è nulla di male, se non il fatto che spesso questi lavoratori non parlano la lingua araba e non possono difendere efficacemente i propri diritti. I dirigenti del Golfo hanno avuto paura dei lavoratori arabi perché avevano una coscienza sociale e potevano sostenere a buon diritto che «il petrolio è anche nostro; questo Paese è anche nostro», dato che sono arabi. Ma la gente del Bangladesh non può dire questo. Le forme delle migrazioni sono mutate. Abbiamo delle migrazioni permanenti e delle migrazioni cicliche. La maggior parte delle migrazioni sembra siano diventate cicliche: le persone trascorrono quattro o cinque anni nel Golfo o in Europa, anche perché le possibilità di ottenere i permessi di soggiorno sono sempre più difficili. Solo quelli che partono per l’Australia o nelle Americhe si fermano. Ci sono anche casi di ritorno in patria. C’è stato anche un generale impoverimento, anche per le persone con livelli elevati di istruzione. La riduzione della spesa per l’istruzione, soprattutto superiore, nei Paesi di origine ha spinto le persone a studiare qualche anno e poi a lavorare in Europa o USA per qualche altro anno. I governi hanno cercato di riportare in patria queste persone, mentre le organizzazioni internazionali li spingevano a emigrare. In Egitto e in Tunisia si sono registrati dei casi molto interessanti, sebbene particolari: la metà dei quadri dirigenti dei ministeri è costituita da cittadini espatriati, pagati direttamente dall’UNDP, dalla Commissione Europea, ecc., con salari che non hanno nulla a che fare con quelli nazionali. Vi sono casi in cui un consigliere del Ministro ha un salario dieci volte superiore a quello del Ministro. È un po’ come il caso delle multinazionali che si sono installate in questi paesi: assumono persone originarie del Paese che, però, vivono all’estero e le pagano con salari europei o statunitensi. Questa è una categoria particolare delle migrazioni, ma è importante perché può essere molto pericolosa: questi espatriati arrivano direttamente al vertice delle istituzioni e vogliono imporre modelli di sviluppo e di gestione europei o statunitensi che non rispondono alle attese e alle richieste della popolazione locale. La lotta tra élite locali e élite espatriate è molto dura e si vede in tutte le rivoluzioni arabe.

Le politiche di restrizione delle migrazioni in Europa, soprattutto nei confronti dei migranti provenienti dal Sud, hanno avuto successo nel modificare i percorsi attraverso i quali i migranti giungono in Europa? E hanno forse influenzato anche il modo in cui le popolazioni del Mediterraneo meridionale vedono e considerano l’Europa?

Le politiche migratorie europee hanno modificato molte cose. Prendiamo le politiche di paesi come la Francia o la Spagna che permettono ai lavoratori bulgari o rumeni di venire a lavorare. Bene, non vi è una grande comunanza di tradizioni tra questi Paesi e questi lavoratori, mentre la Francia e la Spagna sono storicamente molto legate all’Algeria, al Marocco, alla Tunisia. Le persone arabe allora si domandano come mai i dirigenti europei permettono alle persone dell’Europa orientale di circolare e lavorare, mentre lo proibiscono agli arabi: parliamo francese e spagnolo, abbiamo molti parenti in Francia e Spagna…Queste politiche hanno avuto un doppio impatto sui migranti di lunga data e sulle seconde generazioni. Ad esempio, si è detto che bisogna essere dei «bravi francesi» per ottenere la cittadinanza. Bene, cosa significa essere bravi francesi, dal momento che dal 5 al 10% della popolazione viene da questi paesi e ha lavorato tutta la vita per ottenere la cittadinanza? Nel sud del Mediterraneo, le società multiculturali sono la regola: cosa significa essere un bravo siriano? Un circasso e un armeno sono dei bravi siriani, anche se parlano arabo sbagliando la coniugazione del femminile e del maschile! Sono completamente integrati nel tessuto nazionale e hanno i loro lavori, i loro mercanti e le loro mafie! E non ci sono fenomeni rilevanti di rigetto. Ora, gli immigrati in Europa si sono radicalizzati. Ed è ben nota la differenza con i migranti di prima generazione, che facevano parte dei movimenti sindacali e operai degli anni Sessanta, anche se non parlavano bene il francese, ed erano comunque parte integrante della coscienza sociale. La seconda e la terza generazione di immigrati sono velate, sono islamizzate, hanno relazioni molto conflittuali con la società in cui vivono e dove studiano. Vivono in quartieri difficili e non ci sono vere e proprie politiche sociali che permettano loro di partecipare alla vita sociale delle città. In realtà, non conoscono neanche i Paesi di origine dei loro padri e hanno una coscienza sociale un po’ strana e anche radicale per molti versi. Questo è un aspetto molto importante. Nei movimenti tipo al Qaeda, vediamo ad esempio il caso del sequestro in Algeria [dell’impianto energetico di Ayn Amènas nel gennaio 2013, ndt], c’è sempre almeno una persona di nazionalità francese, di seconda o terza generazione. Ciò significa che il terreno di crescita di questi movimenti non risiede solo in Medio Oriente, ma anche in Europa: un paese come la Francia che vuole ridurre il budget per le politiche sociali chiama il Qatar per finanziare la politica sociale nella banlieue… Io considero tutto questo la fine del mondo! Stanno incoraggiando i loro futuri nemici! Al posto delle lotte sociali, troviamo la lotta al terrorismo: si creano i terroristi per poi reprimerli. La società intera in Europa sta diventando una società securitaria se non si tengono in conto questi fenomeni.

Due ultime domande. In questo periodo di trasformazione, quale ruolo gioca l’Islam Politico nei riguardi del mondo del lavoro e dei suoi movimenti e nei confronti della questione dello sviluppo in generale? Ci sono delle esperienze di amministrazione locale, prima delle rivolte, che possono dare conto delle politiche delle forze islamiste una volta al governo?

Marx diceva che gli uomini e le istituzioni di beneficenza sono l’altra faccia del capitalismo: ne sono lo specchio. Quando non si fanno politiche sociali, si fa beneficenza per alleviare le difficoltà del mondo, si distribuiscono un po’ di soldi. Dato che il benessere non è un diritto, e non è una libertà per tutti, allora i ricchi donano un po’ della loro ricchezza.

La zakat è qualcosa di simile? [La zakat è uno dei «pilatri» dell’Islam, è un’imposta simile alla decima che ogni musulmano deve versare a beneficio della comunità dei credenti, ndt].

No, la zakat all’epoca era un’imposta moderna: era un’istituzione moderna rispetto ai sistemi precedenti. L’Islam delle origini era un modello di governo moderno, nel senso che pretendeva che fosse lo Stato a raccogliere la zakat come un’imposta. Se poi i credenti volevano fare dell’elemosina individuale, allora erano liberi di farlo. Beit al Mal, cioè la casa della finanza, ai tempi degli imperi musulmani dal VII secolo, raccoglieva le imposte come la zakat e ognuno era costretto a pagare. L’Islam Politico dell’inizio del XXI secolo è molto diverso dall’Islam Politico della fine del XIX secolo e inizi XX secolo. Quest’ultimo era progressista, avanguardista, voleva sbarazzarsi dell’eredità dell’Impero Ottomano, chiuso nella mentalità e nelle espressioni pubbliche. Al Azhar [uno dei principali centri di studio e formazione giuridica e politica islamica nel mondo, con sede al Cairo, ndt] era un centro molto aperto alle idee nuove; un centro di incontro per la costruzione di nuove istituzioni. Oggi l’Islam Politico è un Islam saudita o del Qatar: si accumulano grandi ricchezze e se ne distribuisce una minima parte tramite la beneficenza. Ma non è un diritto, non hanno la nozione di imposta fiscale, di redistribuzione sociale. Ai tempi di Nasser, si erano condotte numerose analisi sui caratteri sociali dell’Islam e sul socialismo dell’Islam: si mescolava il socialismo con l’Islam. Oggi, siamo ben lontani da tutto questo. Oggi si dice ancora che «l’Islam è la soluzione». Ma quale Islam? Si impone solo la zakat? In fin dei conti, le forze dell’Islam Politico non vogliono entrare nella legalità costituzionale. L’esempio più chiaro lo troviamo in Egitto, dove c’è un presidente appartenente ai Fratelli Musulmani, ma l’organizzazione dei Fratelli Musulmani non è legale. Hanno fondato un partito, certo, ma la Fratellanza Musulmana è qualcosa di diverso e non legalizzato: non è un partito, non è un’organizzazione sociale, ha i suoi ospedali, ecc., ma rimane ancora al di fuori del quadro legale. Dunque, c’è un problema di legalità, di trasparenza, di doppio linguaggio nell’Islam Politico di oggi che riceve i soldi dal Golfo. In quanto tali, i Fratelli Musulmani rimangono al di fuori del quadro legale. A livello teorico e a livello di prassi, l’Islam Politico rimane al di fuori della nozione di cittadinanza e legalità, dunque dello Stato di diritto. Se si accetta lo Stato di diritto è necessario che tutte le organizzazioni rientrino nel quadro legale: rendere trasparente la struttura, la provenienza dei finanziamenti, come si spendono questi solidi, ecc. Perché le organizzazioni liberali e di sinistra devono mostrare i loro libri contabili e gli islamisti no?

Possiamo forse dire che l’Islam Politico di oggi converga attorno ad un progetto di conservatorismo sociale e di politiche neoliberiste? Ed è un progetto che, a grandi linee, ha attecchito anche in Europa. Pensi che questo approccio comune possa far convergere le élite al potere oggi in Europa e nel mondo arabo-musulmano? Faccio riferimento al libro L’Islam de marché di Patrick Haenni (P. Haenni, L’islam de marché: l’autre révolution conservatrice, París, Seuil, 2005).

Sì, è un amico che stimo molto.  Sono d’accordo che le politiche neoliberiste si accompagnano a quelle conservatrici. Ma l’obiettivo vero è il domino del capitale sul lavoro. Torniamo alla base: iper-sfruttamento del lavoro attraverso la sua precarizzazione, la  diminuzione dei salari, ecc. Tutto ciò combinato con il dominio del capitale finanziario sulle classi dirigenti politiche. Questo è il dato essenziale della situazione in Europa, negli Stati Uniti e anche nel mondo arabo. Questo processo si esercita nei singoli Paesi, ma anche attraverso l’influenza di un Paese su altri Paesi, quello che in essenza è l’imperialismo. Oggi, abbiamo un surplus di capitale finanziario nei Paesi del Golfo, che sono l’essenza del conservatorismo sociale islamico e che convergono sulle politiche neoliberiste, sempre in nome dell’Islam. Questi sono Paesi con poca popolazione autoctona e con molti lavoratori migranti: c’è un progetto di alleanza tra le élite di questi Paesi conservatori del Golfo e le élite europee, come Berlusconi, Sarkozy, ecc. Un progetto che, in ultima istanza, mira a dominare i Paesi con popolazioni numerose e che domandano libertà, politiche sociali e benessere. È lo spirito dei tempi odierni: tra capitale e lavoro esiste un rapporto di tipo securitario. Ciò vale anche a livello dell’Islam oltre che di senso comune: quando si parla di lotte sociali, si risponde che prima c’è al Qaeda, le mafie, ecc. Ma tutto questo è già esistito! Nel XIX secolo in Europa, all’epoca delle crisi sociali, quando non c’era una struttura coesa e forte di contrattazione tra capitale e lavoro per il salario, il mondo del lavoro, il proletariato, agiva anche in modo violento. Esiste, nei fatti, un progetto di dominio e di sfruttamento nei Paesi musulmani e in Europa, che si dice cristiana. Le concezioni più conservatrici dell’Islam, che provengono dal Golfo e dall’Arabia Saudita, si sono diffuse negli altri Paesi: Yemen, Oman, Egitto, Tunisia. Quest’ultima, invece, ha una tradizione laica dai tempi di Bourghiba. In definitiva, anche questi Paesi hanno un progetto imperialista.

Per concludere, a livello dei popoli, nel senso più largo del termine, vedi la possibilità di un’opposizione comune che si frapponga a questa convergenza tra élite? Vedi dei segni in questo senso? Oppure le due sponde del Mediterraneo prenderanno delle strade diverse e indipendenti l’una dall’altra?

I processi sono simili tra le due sponde del Mediterraneo, cioè il dominio securitario sulle lotte per i diritti sociali e contro la precarizzazione del lavoro. È vero che si parte da situazioni diverse: nel sud del Mediterraneo si parte da una situazione in cui il mondo del lavoro è già precario; mentre in Europa si parte da una situazione in cui il mondo del lavoro si sta precarizzando, dopo decenni di lotte e conquiste sociali. Il capitale cerca di trovare un accordo con il lavoro, come ha fatto già nel XIX secolo e nel XX secolo. Tuttavia, io non credo sia fattibile. La società inventerà forme di lotta diverse, indipendentemente dai punti di partenza. Bisogna trovare altre modalità di espressione oltre al sindacato. Il sindacato funziona per il lavoro non precario. Come si fa, invece, a organizzare il lavoro precario? In Spagna, con la crisi e le politiche di austerità, è nato il movimento degli indignados ma che non ha un progetto politico compiuto, proprio come i movimenti nel sud del Mediterraneo. E se non si giunge a elaborare un progetto politico comune per il mondo dei precari in Europa e nel mondo arabo, non si cambierà nulla. Sono comunque convinto che ci sarà una convergenza dei movimenti di lotta.

Per esempio, dal 26 al 30 marzo 2013, si svolgerà a Tunisi il Forum Sociale Mondiale. Quali attese hai a tal proposito?

Per uno scambio di idee, direi che è una buona occasione. Ma io ho sempre un po’ paura di questi grandi eventi, in cui ci sono grandi personalità, finanziamenti dell’UE, ecc… Vi è sempre il rischio di trasformare le lotte politiche in show mediatici. Le vere idee e le vere lotte nascono sul terreno; nel momento in cui queste lotte dal basso otterranno dei risultati, anche in un solo Paese, bene, vedremo un effetto di diffusione e di propagazione immediato. Non credo che eventi del genere servano ad altro se non allo scambio di idee e a prendere contatti. Il gioco, però, non si svolge lì. Oggi, le possibilità di viaggio e d’incontro sono molte. Tutti i movimenti sindacali e politici europei dovrebbero comunque inviare dei propri rappresentanti a questi eventi, quantomeno per proteggere i movimenti locali.

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