di VANESSA AZZERUOLI
Sobborghi di Jalandhar, Punjab. Il traffico è rallentato non dalle solite mucche, dai carri agricoli e dai rickshaw, ma da una piccola manifestazione. Studenti, un centinaio. Due lunghe file indiane, confermando per una volta il detto comune, dividono distintamente uomini e donne. Indossano un’uniforme all’inglese, marrone e bianca. Gli uomini indossano pantaloni, camicia e pullover, mentre la variante femminile prevede una gonna sotto il ginocchio. I cartelli e gli slogan urlati a gran voce riprendono quelli delle manifestazioni nella capitale. In inglese. Denunciano la violenza contro le donne, e per le donne rivendicano la libertà di scegliere come vestirsi e di camminare per strada senza essere importunate. La macchina su cui viaggio oltrepassa il rallentamento in una silente indifferenza. Non credo sia possibile un’istantanea più esaustiva delle ripercussioni dei fatti di Delhi nel Punjab di questi giorni. Le due lunghe file separate per sesso, il vestito differente, la distanza che li separa. Bambini e bambine crescono all’interno dei ruoli prestabiliti dalla tradizione e tramandati dalla famiglia.
La società indiana che si presenta ai miei occhi è solcata da una netta divisione: la produzione sta all’uomo come la riproduzione sta alla donna. Il ceto medio-alto assume domestiche al proprio servizio. Il lavoro in casa varia dalle poche ore alla presenza fissa. A svolgerlo sono donne delle caste più basse, vedove o migranti. Agli uomini spettano le spese per l’educazione dei figli e il sostentamento della famiglia, oltre che il mantenimento dei genitori durante la vecchiaia. Le donne lavorano al di fuori delle case solo in due casi: se altamente qualificate, con servitù al seguito, oppure se non hanno nient’altro che la loro pelle da vendere.
La verginità femminile fino al matrimonio mantiene alto il prestigio familiare. Una volta sposata, la figlia lascia la famiglia di sangue ed entra in quella dello sposo. Il punto centrale non è il matrimonio combinato, per quanto molto frequente nella regione. Agli uomini si richiede una buona posizione lavorativa, o che si siano stabiliti all’estero e, in misura sempre crescente, una formazione adeguata. Alle donne la bellezza e soprattutto la verginità. Questo schema, tipico di una realtà contadina tradizionale di cui il Punjab fa parte, entra in tensione con l’India del terzo millennio.
Anche nel Punjab rurale i sessi stanno raggiungendo la parità per quanto riguarda l’istruzione: il censimento del 2011 registra un’alfabetizzazione femminile pari al 71% su una media complessiva del 76%. Le donne più degli uomini si spostano in altre città per istruirsi e per lavorare. Dormono in Hostel o PG (Paying Guest), dove l’orario di rientro notturno è rigidamente controllato. Questo fino al matrimonio. Gli uomini sono invece liberi di scorrazzare con moto e auto già in giovane età e di andare all’estero per migliorare l’entità del salario e se possibile stabilizzarsi con l’intera famiglia. E, infine, di avere una vita sessuale prima del matrimonio. Con chi? Prostitute, qualche donna dalit dei villaggi, o mediante lo stupro: «è difficile convincere i nostri uomini che nel XXI secolo lo stupro non è un modo accettabile di chiedere la mano di una donna», osserva in merito un docente universitario. «Chi stupra una donna non ha rispetto per la sua famiglia», afferma un giovane 21enne, futuro ingegnere. La donna rimane sullo sfondo della conversazione.
La disciplina dei ruoli sessuali è affidata alle stesse donne: nonne, madri e zie rispondono con rigidi comandamenti sul comportamento da tenere nello spazio pubblico. Imparano e insegnano a sopportare il caldo e il freddo nei lunghi vestiti indiani di cotone e di lino, a indossare trucco e tacchi fin dai primi anni di vita. La donna viene socializzata all’interno di un frame le cui caratteristiche sono la dipendenza, la consapevolezza della forza e della violenza maschile e l’impossibilità di contrastarla.
Conformismo. Come richiamato dalle divise nella manifestazione e dall’ordine militaresco, il conformismo presente in questa regione è impressionante. L’auto si acquista di colore bianco, i capelli delle donne devono essere lunghi e raccolti, gli uomini mangiano carne, bevono e fumano, mentre alle donne tutto questo è proibito, almeno i pubblico. I matrimoni avvengono all’interno della casta, le cerimonie si riproducono sempre uguali, l’età oscilla tra i 20 e i 28 anni a seconda del livello di studio. La macchina è ancora così ben oliata che le sue regole si riproducono nonostante gli abissali cambiamenti in atto nel paese. Si mantiene intatta, perlomeno nelle campagne, perché attraverso la ferrea divisione dei ruoli si ottimizza l’accumulazione di denaro, mostrandoci una volta ancora come il capitalismo si regga su una specifica divisione sessuale del lavoro. Lo scopo è la scalata sociale della famiglia, attraverso la sovversione dell’ordine castale fomentato dagli inglesi e la ricostruzione delle classi sociali. Nella famiglia, sempre più nucleare, si annida l’accumulazione, bene comune, mentre la personalità individuale dovrebbe dissolversi al suo interno.
Le divise indossate, così come i cartelli in inglese, continuano a richiamare il retaggio coloniale. E se a Delhi questo permette alle manifestazioni di avere un impatto internazionale, in un Punjab rurale dove solo le persone istruite conoscono quella lingua rende chiaro il fatto che l’interlocutore continua a essere il ceto medio. Così, il messaggio delle manifestazioni non è rivolto al passante comune o alla società locale, ma rimane una bolla che transita in cerca di un interlocutore. Che è altrove.
Migrazione. Il Punjab vive delle rimesse degli emigrati all’estero. Le grandi case da poco costruite nella campagna simboleggiano il successo migratorio, la crescita economica della famiglia, spesso culminata nella stabilizzazione all’estero (Canada, Usa, Inghilterra con un boom di Australia e Nuova Zelanda). Il gioco del matrimonio combinato e il diritto per i migranti all’unità famigliare presente in diversi paesi non fanno che alimentare e fossilizzare un sistema nel quale le donne acquisiscono valore proprio attraverso il matrimonio. Nel Punjab rurale la dote spetta alla famiglia della sposa. Il matrimonio con un indiano residente all’estero (NRI) diviene quindi per la famiglia dello sposo un modo per elevare il proprio status sociale attraverso una famiglia di classe sociale superiore. La famiglia della sposa accetta ben volentieri un matrimonio con un emigrato per aumentare il proprio prestigio attraverso la migrazione della figlia all’estero: la figlia costituisce un cavallo di troia per l’intera famiglia perché può sponsorizzare dei «ricongiungimenti familiari» sulla base delle diverse legislazioni statali, o in ogni caso supportare l’arrivo per quei parenti che fanno ingresso forzando le norme, con permesso di soggiorno temporaneo e dietro pagamento di agent internazionali. La migrazione, quindi, da un lato costituisce l’accumulazione di denaro pesante e, dall’altro lato, la possibilità di tessere relazioni parentali con una famiglia di uno status superiore.
È chiaro allora che il sistema patriarcale vigente in India e le restrizioni alla mobilità personale cristallizzano i ruoli all’interno della famiglia transnazionale. La capacità di aggirare le normative nazionali che limitano la mobilità delle persone pone in questo caso il problema del posizionamento dell’individuo. In Punjab i ruoli famigliari si continuano a riaffermare proprio attraverso la dislocazione transnazionale della stessa famiglia, irreggimentata da legislazioni statali in materia d’immigrazione, in particolare al diritto all’unità famigliare che spinge verso una cristallizzazione del sistema patriarcale. L’accumulazione capitalistica è comunitaria, non individuale. L’agency dell’individuo sfuma mentre a preservarsi è il bene della famiglia.
La verginità costituisce una parte fondamentale della componente simbolica e non solo della dote. Lo stupro diviene quindi prima di tutto un problema per la famiglia, che non può far sposare una figlia che lo abbia subito. La donna rimane sullo sfondo. I posti riservati su treni, bus e metro, come la claustrofobica protezione dei genitori, continuano ad andare in direzione contraria rispetto alle parole dei cortei che urlavano «Non insegnate alle ragazze a coprirsi, piuttosto insegnate ai vostri figli a non violentare». La donna continua a essere rappresentata come vergine debole e dipendente, presa con la forza. Ogni atto non conforme giustifica la violenza maschile: «Hanno stuprato una ragazza a Bombay. Era ubriaca a una festa. Gli uomini hanno detto che lei era d’accordo». Questione ben presente anche alle nostre latitudini, dove ancora alle donne che subiscono violenza sono imputati comportamenti tali da giustificarla o incoraggiarla. La capitalizzazione del corpo delle ragazze e della loro verginità da parte delle famiglie fino al matrimonio impedisce alle donne di riappropriarsi di sé e spinge istituzioni e famiglie ad aumentare le protezioni, i posti riservati, le file indiane, ostacolando in questo modo il cambiamento che pretendono di incoraggiare.
In un’India dove le relazioni di potere sono in continua agitazione, dove religioni, caste e appartenenze regionali sono in continuo fermento, la riproduzione sociale all’interno della famiglia rimane l’ultimo baluardo di stabilità. Ne sono ben consapevoli i governanti dell’India attuale, che si sono affrettati a portare il corpo di Amanat a Singapore, non per farle ricevere cure migliori ma per impedirle di morire a Delhi, nel cuore delle proteste. Portandola altrove, come altrove si rivolge la piccola manifestazione che mi scorre alle spalle, mentre le auto continuano a sgomitare tra il traffico.