domenica , 22 Dicembre 2024

India: la capitale bloccata dalla protesta contro la violenza sulle donne

India-la-capitale-bloccata-300x248di ISHITA DEY – Delhi

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Alle nove di sera dello scorso 16 dicembre, a Delhi, una donna di 23 anni è stata violentata da sei uomini. La violenza ha avuto luogo nell’autobus sul quale viaggiava; anche l’autista vi ha preso parte. La condizione sociale di questa donna – istruita e della classe media urbana – spiega forse perché, diversamente da molti altri che accadono ogni giorno in ogni regione dell’India, questo episodio abbia raggiunto le pagine dei giornali. Non è comunque merito dei giornali e dello spazio che hanno dato alla notizia se da oltre una settimana migliaia di donne e di uomini manifestano la loro rabbia per le strade di Delhi, e domani 27 dicembre un’altra protesta è prevista nonostante i divieti imposti dalle forze dell’ordine e la repressione poliziesca. Il fatto è, semplicemente, che la misura è colma. C’è da chiedersi se lo sia solamente nella lontana India, oppure se dovrebbe esserlo anche nella vicina Italia, dove è un fatto la violenza perpetrata quotidianamente da uomini che odiano le donne. La maggiore visibilità pubblica sulle pagine dei giornali, tuttavia, qui si limita a sollevare poco più che un dibattito sinceramente o comodamente indignato, oppure la reazione degli ‘specialisti della violenza’ che, mentre pretendono di dare voce alle vittime rinchiuse in un’aula di tribunale o di un CIE, rischiano di incastrarle nella loro posizione di impotenza. E la vittima sembra essere tutto ciò che resta anche nelle invenzioni semantiche come quella di «femminicidio», dalla quale scompare colui che perpetra la violenza e dunque il rapporto quotidiano nel quale questa si genera.

Ishita Dey, attualmente Doctoral student presso il Dipartimento di sociologia della Delhi School of Economics, ci racconta in prima persona quello che sta accadendo in India: non solo come donna che, insieme a migliaia di persone, ha preso parte alle manifestazioni di questi giorni a Dehli, ma anche come donna che, insieme a milioni di altre donne, ha fatto esperienza della propria differenza sessuale e del suo significato nella società patriarcale anche attraverso le molestie di un uomo. Questa normale violenza dimostra la debolezza delle posizioni che si limitano a denunciare la farraginosità e la corruzione di un sistema giudiziario che lascia sistematicamente impunita la violenza sessuale. Questa ordinaria sopraffazione dimostra in che modo la violenza sulle donne venga strumentalizzata da quanti auspicano che siano finalmente affermati «la legge e l’ordine», pronti a portare avanti il discorso dello Stato. Questa quotidiana minaccia di prevaricazione è l’espressione di quella violenza politica che si chiama patriarcato: non il residuo di una società arretrata, ancora schiava delle tradizioni o della superstizione, ma un fatto sociale globale sul quale è possibile gettare luce a partire da quanto ogni giorno avviene nella «più grande democrazia del mondo».

L’India, allora, è contemporaneamente vicina e lontana. Vicina perché in ogni luogo del mondo crescono le lugubri statistiche che contano gli episodi di ordinaria violenza sessuale. Le cifre nascondono le biografie e mettono a tacere le voci ma dicono, molto più chiaramente della post-moderna denuncia di una violenza «di genere», quale sia il sesso di quelli che la violenza infliggono e quale il sesso di quante la subiscono. Non possiamo guardare la violenza sessuale attraverso il criterio della discriminazione o dell’ingiustizia. La violenza sessuale contro le donne segue il criterio di una guerra sistematica interna alla società, una guerra perpetrata quotidianamente per il mantenimento di un ordine sessuale e dunque politico contro le donne, percepite come una minaccia. L’India è vicina perché questa guerra non conosce confini. L’India, però, è anche molto lontana. Perché quello che accade oggi nelle strade di Delhi e in decine di altre città indiane va ben oltre la protesta – dovuta, ma spesso tristemente rituale – in occasione di una giornata mondiale contro la violenza sessuale. Non solo a Delhi, migliaia di donne gridano la loro pretesa di essere audaci, rispondono duramente ai colpi inflitti dalla polizia senza temere gli scontri, trascinano migliaia di uomini nell’urgenza di una presa di posizione chiara contro la «cultura dello stupro». Una cultura che non si cambia con le leggi e non si contrasta con le telecamere a circuito chiuso, ma si rovescia con una presa di potere. È questa l’indicazione che arriva dalle donne e dagli uomini che oggi manifestano nelle strade della «più grande democrazia del mondo». Un luogo vicino, che non dovrebbe essere così lontano.

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Dehli, la capitale nazionale dell’India, è scossa dalle proteste delle organizzazioni studentesche, di vari gruppi e di individui che si riversano nell’India Gate, una piazza in prossimità del Rashtrapati Bhavan e di altri centri di potere. La gente è scesa in strada per protestare contro lo stupro di gruppo di una studentessa ventitreenne su un autobus in movimento. Ci sono stati scontri tra i dimostranti e la polizia. Che la polizia reprima simili manifestazioni non è inusuale e le organizzazioni studentesche presenti a Dehli hanno organizzato una marcia di protesta per condannare la repressione poliziesca e per continuare la lotta contro la violenza contro le donne a Jantar Mandar. A New Dehli è stata imposta la sezione 144 del codice di procedura penale che vieta le assemblee di quattro o più persone in ogni luogo, eccetto Jantar Mantar.

La capitale della più grande democrazia al mondo è diventata una fortezza con un imponente dispiegamento di polizia nelle strade che portano all’India Gate e a Rasina Hill. Nove stazioni della metropolitana nelle vicinanze della sede delle proteste sono state chiuse dalla polizia di Dehli fino a nuovo ordine. Un’entrata della stazione della metropolitana di Rajiv Chowk (la stazione che collega con Connaught Place) era aperta la sera che tornavo dalla protesta, mentre la parte centrale della città continua a essere una fortezza in nome della sicurezza. La sicurezza di chi?, mi domando. Tra crescenti proteste, la città è stata testimone di un altro caso di aggressione sessuale a Dehli, il 21 dicembre 2012.

È necessario collocare la violenza contro le donne di Dehli all’interno delle strutture patriarcali che tagliano trasversalmente quelle socio-politiche. Pratiksha Baxi nel suo articolo Le culture dello stupro in India sostiene che «dopo l’attacco brutale alla ventitreenne che sta lottando per la sua vita, il discorso parlamentare sullo stupro usa la violenza sessuale come risorsa per fare politica e quindi ha nuovamente sancito la cultura dello stupro. Sostenere che lo stupro sia peggiore della morte e che esso meriti la pena di morte, significa relegare le donne che sopravvivono allo stupro tra i morti viventi. I meccanismi sociali, politici e giuridici della vergogna, dell’umiliazione e del boicottaggio delle sopravissute allo stupro non sono messi in discussione. Né tanto meno vengono spiazzati i meccanismi che convertono i racconti di stupro in una fonte di ulteriore stimolazione ed eccitazione».

Ogni volta che in India c’è stato un caso di violenza sulle donne, ci sono stati costanti riferimenti all’ora alla quale quella donna tornava a casa. Chi era con lei? Per esempio nel 2008, quando la giornalista Soumya Visvanathan è stata uccisa, il nostro Onorevole primo ministro Sheila Dixit commentò: «Tutta sola fino alle tre di notte in una città dove la gente crede … sapete … non dovete essere così audaci». Insomma, se siete donne e abitate a Dehli vi dicono di non essere audaci. Per favore tornate alle vostre case o ai dormitori entro orari determinati. Per esempio il dormitorio femminile dell’università di Dehli ha un coprifuoco. Quest’ultimo non è però adatto ai dormitori maschili. Il coprifuoco sulla mobilità delle donne e sull’accesso al trasporto pubblico nella città di Dehli ha una lunga tradizione. Prima che, durante i giochi del Commonwealth, fossero introdotte le linee degli autobus di colore verde, rosso e arancio, avevamo gli autobus della linea blu. Su questi ultimi (gli autobus che io stessa ho preso) gli uomini, tanto i passeggeri quanto gli autisti, pensano di potersi strusciare addosso a te, di poterti pizzicare e di poter fare commenti osceni. Se protesti, la gente ghigna e solo se sei veramente fortunata puoi trovare qualche uomo o donna che ti sostenga. La mia prima esperienza di molestia sessuale a Dehli risale a una corsa sull’autobus della linea blu. Tornata a casa, la mia compagna di stanza mi disse: «Che cos’è quella chiazza bianca? Sei proprio una scema. Hai fatto tutta la strada in quel modo». Quando gettai il mio kurta favorito nella pattumiera realizzai una volta di più che ero stato il bersaglio del piacere onanistico dell’eccitazione maschile, ma, senza fare lo sforzo di denunciarlo alla polizia, andai avanti piangendo per il disgusto e la rabbia. Parecchie altre donne che abitavano con me in affitto condivisero simili esperienze per consolarmi. Ho pensato: «Non sono stata prudente. Non sono stata attenta». Come segnala Sreemoyee Piu Kundu sul suo blog, nell’articolo Belle tette queste esperienze ti fanno comprendere che sei una donna, esperienze come queste ti fanno crescere.

Torniamo al 2012. Noi eravamo felici quando è stata introdotta la metropolitana. Pensavamo: «Sono finiti i tempi delle molestie sugli autobus della linea blu». Nei vagoni della metro abbiamo scompartimenti per sole donne, dove gli uomini entrano ripetutamente con prepotenza fino a quando non sono multati. Sì, abbiamo bisogno di multe per trattenere gli uomini dall’entrare in scompartimenti riservati. Questa è l’esperienza quotidiana di una donna che ha accesso al trasporto pubblico a Dehli e può talvolta permettersi di noleggiare un taxi privato. Non voglio parlare qui per le donne che lavorano come lavoratrici domestiche, lavoratrici salariate e operaie di fabbrica. Ogni donna ha una storia differente e voglio chiarire che non sto parlando per donne che vivono diverse situazioni. Non sarebbe giusto.

Ogni volta che la sera torno «tardi» e non c’è nessuna «auto» che mi porti a casa, potrei capitare in una fermata non illuminata del bus, potrei prendere un risciò a pedali che potrebbe farmi pagare il doppio della tariffa, potrei essere molestata da un motociclista e un SUV potrebbe fermarsi per fare commenti osceni. Così nonostante tutti quelli che pensano (in particolare lo Stato) che i «migranti» siano una minaccia, i dati indicano che spesso le donne conoscono i loro violentatori (che vanno dai familiari ai vicini di casa). Ogni volta che un veicolo si è fermato, io l’ho ignorato, mi sono arrabbiata e sono andata avanti. Il problema è che ogni volta che è successo a qualche donna in città, c’è chi ha avuto il coraggio di sporgere denuncia, di affrontare la sua lotta solitaria, alcune battaglie sono state vinte e «noi» siamo andate avanti. Ogni volta ho partecipato alle manifestazioni di protesta pensando: «quando è troppo è troppo».

Con i molti altri che hanno fatto sentire la loro voce in solidarietà con la gente di Dehli contro la violenza sulle donne qui e altrove, anche questa volta voglio ripetere: «quando è troppo è troppo». La violenza contro le donne è stata usata sistematicamente in varie parti di questo paese. Quando ci uniamo chiedendo giustizia contro gli esecutori accusati dello stupro di gruppo a Dehli, dobbiamo pensare anche ai modi in cui i meccanismi statali hanno fallito nel rispondere alle denuncie di violenza sessuale contro le donne in Kashmir, Manipur e Chhattisgarh. Il fallimento dello Stato e la cultura patriarcale che sostiene le aggressioni sessuali contro le donne devono essere condannati, e ogni volta che qualcuno mi ricorda che sono una donna e che devo essere prudente nella mia stessa città, nel mio villaggio, a casa mia, vorrei fare risuonare ciò che Kavita Krishnan, segretaria della  All India Progressive Women’s Association ha detto in un’intervista:

Le donne hanno tutto il diritto di essere audaci. Saremo spericolate, saremo avventate, non saremo preoccupate dalla nostra sicurezza, tu non ci detterai quale vestito dobbiamo indossare … a che ora dobbiamo andare in qualche posto … a che ora dobbiamo tornare.

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