di FELICE MOMETTI
I miti sono duri a morire, sopravvivono anche a se stessi. Il recente rapporto del Bureau of Labor Statistics mostra che l’età media dei circa 4 milioni di lavoratori americani dei fast food e dei diners è di 28 anni per gli uomini e 32 per le donne. I due terzi dei dipendenti sono donne e il salario, per tutti, arriva a malapena a 8 dollari all’ora. Tra i 46 milioni di americani che hanno un reddito al di sotto della soglia di povertà una percentuale non insignificante è rappresentata da questi lavoratori e lavoratrici. Poveri con un posto fisso, per quel che significa avere un lavoro a tempo indeterminato negli Stati Uniti: non è previsto, contemplato dalle norme vigenti. Dietro i banconi e nelle cucine di McDonald’s, Pizza Hut, Burger King, KFC, Taco Bell, Wendy’s si parla soprattutto spagnolo e lo slang afroamericano. L’immagine patinata dei diners americani esiste solo nelle foto d’epoca e nei reality show. Più vicino alla realtà ci sembra chi ha parlato dell’inferno dei «laboratori segreti della produzione». Turni massacranti, massima flessibilità, nessun diritto, salari da fame, videosorveglianza ovunque e registratori di cassa con dei sofware incorporati che fanno statistiche, proiezioni in tempo reale degli incassi e dei tempi di attesa dei clienti. Un’organizzazione del lavoro che fa uso di dispositivi a tecnologia avanzata per controllare e disciplinare una forza lavoro sfruttata con metodi non molto diversi da un po’ di decenni a questa parte. A New York negli ultimi 10 anni c’è stato un incremento del 55% dei fast food e attualmente occupano, con diverse tipologie contrattuali, 50 mila lavoratori. Le nuove aperture sono avvenute quasi tutte in franchising con precise condizioni agli affiliati ai marchi più conosciuti (McDonald’s, Yum Brands ecc.) a non aumentare i salari ed a impedire ogni forma di organizzazione collettiva dei lavoratori, pena la rescissione del contratto. Il rapporto di lavoro deve essere esclusivamente individuale all’interno di una gerarchia precisa dei ruoli e delle mansioni.
Giovedi 29 novembre i lavoratori dei fast food di New York hanno scioperato per chiedere l’aumento a 15 dollari l’ora del salario minimo e rivendicare la possibilità di organizzarsi collettivamente sui luoghi di lavoro. Un evento che ha suscitato qualche preoccupazione, per una sua possibile e scongiurata estensione, anche sulle pagine del «democratico» New York Times. Infatti è stato uno sciopero nato anche sull’onda delle azioni di lotta messe in campo, da un paio di mesi, dai lavoratori della Walmart. I lavoratori in sciopero si sono concentrati, facendo picchetti, soprattutto davanti ai fast food del centro di Manhattan e di Brooklyn per avere maggiore visibilità e porre con decisione la questione del salario minimo. La costruzione dello sciopero, le sue modalità di attuazione e i soggetti che hanno supportato l’iniziativa non sono stati certo quelli tradizionali. Inizialmente, un mese e mezzo fa, il lavoro di collegamento, di messa in comune delle esperienze, di racconti sulle reali condizioni di lavoro è stato avviato dalla New York Communities for Change, un’associazione di base che si batte contro i danni causati dal neoliberismo. Dal cambiamento climatico, agli sfratti e i pignoramenti, ai diritti dei migranti, per un sistema educativo solidale rivolgendosi a quelle comunità, presenti sulla scena metropolitana, già parzialmente strutturate sulla base della nazionalità di provenienza. Successivamente si è aggiunta la Fast Food Forward, una campagna per l’aumento del salario minimo che sta raccogliendo firme su una petizione dal titolo: «Non possiamo sopravvivere con 7,25 dollari l’ora». E, nella settimana precedente lo sciopero, e il giorno stesso dei picchetti, ha dato un contributo importante la 99 Pickets Brigade di Occupy Wall Street. Un gruppo che sostiene concretamente le azioni di lotta dei lavoratori non sindacalizzati, cioè della grande maggioranza dei lavoratori di New York. Tre diversi soggetti, un’associazione di base, una campagna di sensibilizzazione, una struttura di movimento con obiettivi e pratiche differenti che si coalizzano per fornire aiuto, supporto e strumenti a dei lavoratori impegnati in una mobilitazione tipicamente sindacale. Un percorso che, a prima vista, può apparire piuttosto singolare. Perché i lavoratori dei fast food non si sono rivolti subito a un sindacato? E soprattutto perché non sono stati i sindacati a intervenire per imporre condizioni di lavoro minimamente dignitose? La risposta è semplice. I lavoratori e le lavoratrici dei fast food hanno un salario troppo basso per permettersi l’iscrizione e versare i contributi a un sindacato che fornisca un’assicurazione sanitaria e un fondo pensione. Ai sindacati, ormai gestiti con criteri puramente aziendali, non conviene iscrivere lavoratori che non possono pagare i «servizi» forniti. I bilanci finanziari dei sindacati sono un elemento importante che incide sull’andamento in Borsa dei loro fondi pensione, per non dire del mantenimento della struttura e dei funzionari. I lavoratori non possono e i sindacati non vogliono, così il cerchio si chiude. I fast food e i diners, come molti altri settori dei servizi, non possono essere delocalizzati all’estero e l’attività lavorativa, come oggi è organizzata, non può essere più di tanto sussunta dalle macchine o informatizzata. Questo tipo di produzione just in time richiede una quota massiccia di lavoro vivo con una flessibilità molto elevata.
Con lo sciopero si è posto in tutta la sua urgenza e complessità il problema dell’organizzazione. Il prossimo 6 dicembre i lavoratori dei fast food di New York, le associazioni che li hanno sostenuti, la 99 Pickets Brigade hanno organizzato un presidio, anche con lo scopo di trasformarlo in un’assemblea per discutere in che modo organizzarsi e continuare la mobilitazione.