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L’inquieto cuore operaio della Millennium City

di GIORGIO GRAPPI

Linquieto-cuore-operaio-300x245da «Il Manifesto» del 27 ottobre 2012

La Maruti Suzuki si presenta come un enorme parcheggio, fiancheggiato da capannoni che si estendono per oltre due chilometri. Intorno allo stabilimento, in piena espansione, crescono altre fabbriche, capannoni, cantieri. Siamo nella Millennium City di Gurgaon-Manesar, uno degli snodi del mega-progetto del “corridoio industriale” di Delhi-Mumbai, che inizia a circa trenta chilometri dal centro di Nuova Delhi. Una veloce metropolitana sopraelevata, costruita in occasione dei Giochi del Commonwealth, organizzati nel 2010 per la prima volta dall’India, raggiunge il capolinea di Huda City Centre dopo aver costeggiato Haus Khas, quartiere alla moda ricco di atelier e ristoranti, e l’imponente Qutb Minar, straordinario esempio dell’architettura Indo-islamica del XIII secolo, attraversando popolosi sobborghi collegati da un reticolo di grandi strade a scorrimento veloce. Una volta arrivati, una selva di centri direzionali e alti fabbricati residenziali di lusso, tra i quali si possono ancora scorgere pezzi di vecchi villaggi e il loro spaesato bestiame, segnala che si è in uno dei centri pulsanti del frenetico sviluppo economico indiano. Manesar si trova circa venti chilometri più a sud lungo l’autostrada nazionale n. 8, ma non si può più contare sulla metropolitana e nemmeno su un taxi, perché la meta è lontana e sconveniente: nessuno coprirebbe il viaggio di ritorno.

Lungo la grande arteria per Manesar gruppi di operai e impiegati si contendono un posto in un auto risciò, o in uno degli scalcinati pullman che collegano le zone industriali alle direttrici del traffico urbano. I lavoratori, raggruppati in base alle diverse divise aziendali, formano surreali macchie di colore dalle tinte accese, tra le nuvole di polvere e smog dalle quali non si può sfuggire. Lasciando la superstrada per entrare nella città industriale modello di Manesar, scorrono i grandi nomi della componentistica per l’automobile, come Denso, Omax, Amtek, e di aziende multinazionali tra cui Honda Motorcycle e Lumax. Nonostante la visionaria definizione di Millennium City da parte del governo, questo agglomerato urbano è ormai un esempio di una pianificazione urbanistica fallimentare, tanto da meritarsi, secondo la BBC India, l’etichetta di «slum per i ricchi». Meno noto è che la Millennium City ha un cuore industriale in subbuglio.

Il 18 luglio di quest’anno, gli operai dell’impianto di Manesar della Maruti Suzuki, il maggior produttore di auto in India, sono stati protagonisti di una sommossa che ha provocato gravi danni agli impianti, la morte di un dirigente aziendale e decine di feriti. La direzione è stata costretta a chiudere la fabbrica per quasi due mesi e la produzione è lentamente ripresa solo a settembre. Entro ottobre la Maruti Suzuki spera di raggiungere il pieno regime, sebbene la situazione sia molto tesa. Dopo le proteste di luglio, la polizia ha aperto una caccia all’uomo imprigionando decine di operai, mentre altre centinaia di lavoratori, riconosciuti tra i partecipanti agli scontri, sono stati licenziati e non potranno tornare al lavoro. Le prove, come denuncia Rakhi Segal della New Trade Union Initiative, sindacato indipendente molto attivo negli ultimi anni, sono tutt’altro che schiaccianti: poche immagini registrate dalle telecamere a circuito chiuso, messe fuori uso nei primi momenti della rivolta, e le testimonianze dei quadri e dei capi. La Maruti Suzuki può però contare sull’appoggio delle autorità e della polizia dello Stato dell’Haryana, che ha condotto perquisizioni sommarie e minacciato le famiglie degli operai che vivevano nelle zone limitrofe. L’obiettivo della Maruti Suzuki è chiaro: lanciare un messaggio all’intero corpo operaio. La rivolta si colloca, infatti, in un ambiente di crescente insubordinazione operaia che coinvolge tutto il settore della meccanica, proprio mentre il governo centrale cerca di portare avanti una nuova politica manifatturiera che dovrebbe costituire il volano dell’economia indiana.

Le contraddizioni non mancano, e in questi giorni la Maruti Suzuki ha concordato con il sindacato filo aziendale MUKU un aumento fino al 75% dei salari per gli operai dell’impianto di Gurgaon, che diventeranno così i più pagati dell’industria dell’auto in India. Ai ribelli del Manesar sono stati proposti accordi individuali, ma dopo quasi due anni di mobilitazione, ci dice Rakhi Segal, questi «accetteranno un accordo solo se siglato dal loro sindacato». Gli operai hanno già rigettato la proposta dell’azienda di formare comitati interni per raccogliere le richieste e le lamentele perché molti dei loro compagni sono ancora in arresto. È ancora presto per dire se questa lotta si allargherà, ma è certo che si tratta di un segnale importante di quanto sta accadendo nell’industria e nel movimento operaio indiano.

Lo scontro sfociato in sommossa nel luglio scorso dura ormai da quasi due anni. Quando la Maruti Suzuki, già presente a Gurgaon, ha iniziato ad assumere per avviare il nuovo impianto modello di Manesar – dove si costruiscono i motori diesel e alcuni dei modelli più venduti in India, come la Swift – gli operai dovevano obbligatoriamente iscriversi al MUKU, il sindacato imposto dall’azienda all’inizio degli anni duemila, dopo la sconfitta delle lotte operaie che avevano coinvolto diverse grandi aziende della meccanica presenti a Gurgaon. Dopo un anno di discussioni gli operai di Manesar, in gran parte assunti tramite intermediari, hanno costruito una propria organizzazione – il MSEU, sindacato dei dipendenti Maruti Suzuki – e iniziato una lotta per essere riconosciuti dal governo e dall’azienda, rifiutando il MUKU.

Nel 2011 gli scioperi si sono susseguiti per mesi e, alla fine dell’estate, la produzione era stata condotta alla paralisi; le azioni del primo produttore di automobili in India, un settore il cui mercato è in costante espansione, erano in caduta libera. In quei mesi lungo l’autostrada nazionale n. 8 erano visibili i segni della lotta in una produzione just-in-time: file di Tir e container carichi di pezzi, semilavorati e forniture, in attesa che la produzione ricominciasse. Nell’impianto lavorano meno di seimila operai, ma la fabbrica si colloca in una zona industriale estesa per quaranta chilometri, che impiega, dentro e fuori le grandi fabbriche, circa quattrocentomila operai, di cui un quarto a Manesar.

La lotta per un proprio sindacato, al quale la stampa soprattutto economica ha dato un discreto spazio, non è un semplice scontro sulla rappresentanza, ma si fonda sul bisogno di organizzazione per agire contro le condizioni di lavoro imposte dall’azienda, con l’aumento della produzione negli anni del boom indiano. «Nel 2006 producevamo 160 auto per turno – raccontano gli operai – oggi 430, la produzione è triplicata, la forza lavoro no, ma se un lavoro richiede tre operai, ce ne devono essere tre, e siamo noi che lo sappiamo; oggi lo dobbiamo fare in due e, se non si è in ottime condizioni fisiche, è impossibile resistere». Fino alla sommossa del luglio di quest’anno, dentro la fabbrica, il clima era di controllo continuo: osservati da telecamere a circuito chiuso, gli operai possono contare solo su due pause di sette minuti e mezzo per un the. Per ogni giorno di assenza dovuto a malattia, una parte del salario viene decurtato. È per migliorare queste condizioni di lavoro che gli operai, sia dipendenti diretti della Maruti Suzuki, sia interinali, assunti da intermediari, hanno iniziato a organizzarsi. L’azienda da parte sua subito dopo i primi scioperi ha iniziato a licenziare gli interinali, la maggioranza in alcuni reparti quali ad esempio l’assemblaggio, che sostenevano lo sciopero. È il caso di Maresh, premiato ironia della sorte poche settimane prima come miglior operaio del suo reparto. Operaio specializzato, Maresh era responsabile di un reparto con settanta robot: l’automazione, già alla base della trasformazione dell’industria tipografica e tessile indiana nella seconda metà del novecento, è uno dei pilastri della nuova industria automobilistica. L’esperienza della Maruti Suzuki racconta però come una nuova composizione tecnica non sia sufficiente nel governo della forza lavoro. Come spiega Maresh, al centro della lotta ci sono intensi ritmi di lavoro e bassi livelli salariali in particolare per gli interinali che producono, loro malgrado, un effetto di dumping salariale rispetto ai lavoratori diretti. Un interinale guadagna, infatti, anche un terzo di un operaio assunto dalla Maruti Suzuki, e non è rappresentato nella contrattazione.

L’unità mostrata nei mesi della mobilitazione ha spinto l’azienda ad azioni di forza, ma ha anche permesso che la lotta continuasse quasi senza sosta. «Questi lavoratori – spiega Rakhi Sehgal – sono istruiti e con abbastanza esperienza da vedere che l’aumento della produttività ha fatto crescere del 2000% i profitti e del 450% i ricavi dell’amministratore delegato, mentre i loro salari crescevano solo del 5%». La registrazione del nuovo sindacato, essenziale per raggiungere il tavolo delle trattative, è vista come uno strumento per incidere nelle trattative, mentre la separazione tra dipendenti diretti della Maruti Suzuki e interinali è percepita come l’ostacolo principale: «vogliamo cancellare il ruolo degli intermediari. La Maruti – spiega Maresh – paga queste società, che poi pagano i lavoratori. Questo deve finire. Vogliamo l’uguaglianza di tutti». Nonostante l’irremovibilità del management aziendale, l’ondata degli scioperi dell’anno scorso era termina con una vittoria politica per gli operai: alla fine, gli interinali erano rientrati, così come quasi tutti i dipendenti che avevano ruoli di rilievo nel MSEU. La situazione non è però cambiata di molto, sebbene fosse diventato più semplice farsi dare un cambio, ottenere una licenza o recarsi in bagno. Nel frattempo l’azienda ha continuato a lavorare ai fianchi questo gruppo di militanti finendo per convincere alcuni dei leader più in vista del MSEU, come il segretario Sonu Gujjar, ad abbandonare il lavoro dietro una lauta ricompensa. Gli operai non hanno però smesso di organizzarsi e svolgere azioni di disturbo della produzione. Fino alla rivolta del 18 luglio di quest’anno

«Certamente – ci dice ancora Rakhi Seghal – l’incidente della Maruti ha fatto irrompere il tema degli interinali nel dibattito, la questione delle condizioni d’impiego, dei rapporti di lavoro, è ora in prima linea. Quanto è successo alla Maruti e in altri casi simili sono segnali di una crescita nella militanza della classe operaia e indicano una direzione per i sindacati». Le notizie che continuano ad arrivare dalle fabbriche indiane, con l’effetto domino di richieste di aumenti salariali e di quotidiani conflitti intorno alla questione degli interinali, confermano questo giudizio. Lo stesso ministro del lavoro nazionale, Mallikarjun Kharge, ha recentemente riconosciuto necessario emendare il Contract Labour Act al fine di limitare gli abusi.

La doppia faccia di Gurgaon-Manesar, non è altro che lo specchio di questa fase di espansione industriale che coinvolge tutta l’India, come rivelano i casi più noti della Tata in West Bengala, e lo strepitoso successo del Gujarat guidato da Narendra Modi, membro di ultradestra del partito nazionalista Indù BJP. Ma suggerisce anche altro. Queste vicende, infatti, mettono in discussione la centralità politica ed economica dell’accumulazione per spossessamento nello sviluppo globale del capitalismo contemporaneo, che ha avuto un ruolo importante nelle analisi di autori come David Harvey e Kalyan Sanyal. Al tempo stesso, esse indicano che la diffusione del lavoro cosiddetto precario è, in India come in situazioni a noi più vicine, la leva sulla quale le imprese hanno condotto la loro strategia di disciplinamento e governo della forza lavoro, spesso insieme al ricorso selettivo a lavoratori migranti, svuotando così la forza e la funzione delle organizzazioni sindacali esistenti, ora strette tra il ruolo istituzionale loro riservato dalla legislazione sul lavoro e questo nuovo protagonismo di classe. Ma è anche il terreno di nuove lotte operaie.

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