domenica , 22 Dicembre 2024

L’11/9 del movimento operaio pakistano

11-settembre-del-movimento-operaio-pakistano-300x209Lo scorso 11/9 un incendio terrificante ha distrutto la fabbrica tessile «Ali Enterprises» di Karachi, nella regione pakistana del Sindh. La conta dei morti iniziava a poche ore dall’incendio che, nella città di Lahore, aveva distrutto una fabbrica illegale di scarpe, uccidendo almeno 25 persone. Ma è a Karachi che si è consumato il più grave disastro industriale del Pakistan moderno: i dati riportati dai media parlano di 289 morti, tra cui 23 donne. Secondo Zehra Akbar Khan, segretaria della Home Based Women Workers Federation, cui dobbiamo le informazioni che oggi pubblichiamo, i morti sono più di 300. «Molti mancano ancora all’appello, e sono più di 70 i corpi che saranno riconsegnati alle loro famiglie solo dopo che sarà stato effettuato un test del DNA. La maggior parte dei lavoratori non era registrata regolarmente in fabbrica, e molti erano assunti tramite agenzie esterne, attraverso il sistema dei subappalti. Siamo stati informati che c’erano più di 600 operai nella fabbrica al momento dell’incendio. Pensiamo anche che il numero delle donne sia superiore a quello riportato dai media. Sono soprattutto le donne, infatti, a essere impiegate nel settore tessile, e lo stesso avveniva nella fabbrica dove è scoppiato l’incendio. Al lavoro c’erano anche dei minori. Sono stati recuperati i cadaveri di due bambini, di 15 e 16 anni». L’incertezza delle stime non lascia dubbi sul fatto che si sia trattato di una strage di operai e operaie, ed è indicativa del fatto che – come le centinaia di lavoratrici e lavoratori undocumented rimasti sotto le macerie del World Trade Center di New York undici anni fa – nella fabbrica di Karachi lavoravano uomini, donne e bambini in condizioni informali, senza una lettera o un contratto di assunzione, reclutati prevalentemente attraverso il sistema del caporalato. Come abbiamo documentato nel caso della Maruti Suzuki in India, il precariato di fabbrica è ormai una forma globale di messa al lavoro e di sfruttamento. Il terrificante incendio di Karachy è stato l’11/9 del movimento operaio pakistano. E non solo il suo.

Karachi è una delle più grandi città del Pakistan, il cuore commerciale del paese, e secondo la Camera del Commercio e dell’Industria locale conta 10.ooo fabbriche e sette aree industriali, cui bisogna aggiungere 50.000 piccole imprese informali costruite nelle zone residenziali. La «Ali Enterprise» ha un fatturato stimato tra i 10 e i 50 milioni di dollari l’anno, a fronte di un salario tra i 50 e i 100 dollari pagato alla fine del mese ai suoi operai, provenienti per la maggior parte dalle aree rurali del Sindh e del Punjab. L’azienda realizza semilavorati e prodotti finiti per il brand «OKAY Jeas», con sede in Germania. È uno degli impianti che compongono l’imponente industria tessile pakistana, da cui nel 2011 ha avuto origine il 7,4% del prodotto interno lordo, nella quale ha trovato impiego il 38% dei lavoratori manifatturieri, e che ha fornito il 55,6% delle merci destinate all’esportazione.

Le cause materiali dell’incendio non sono chiare. Sui motivi politici invece non è lecito avere dubbi. C’è chi spera nel dolo, e ipotizza che si tratti di una ritorsione dovuta a una tangente che il padrone dell’impianto si è rifiutato di pagare a qualche organizzazione criminale. C’è chi sostiene che si sia trattato dell’esplosione di una caldaia, o di un cortocircuito nel generatore che alimentava l’impianto in assenza di una rete elettrica nazionale, e che avrebbe innescato un focolaio in seguito alimentato dai prodotti chimici stoccati al di fuori di ogni norma di sicurezza. Qualunque sia la causa, è certo che oltre 500 uomini e donne erano al lavoro nell’impianto di Karachi quando la fabbrica è esplosa, e molti di più sembra fossero presenti perché l’11 settembre era il loro giorno di paga. Accusato di omicidio, il padrone della «Ali Enterprises», che nei primi due giorni dopo l’incendio si era dato alla macchia, ha dichiarato che nell’impianto non c’erano prodotti chimici, perché l’impresa si occupa solo del lavaggio dei tessuti, e che le porte erano chiuse a causa di un tentativo di effrazione avvenuto qualche tempo prima. I sopravvissuti raccontano storie diverse. Per salvarsi, hanno dovuto scardinare le sbarre d’acciaio che bloccavano le finestre, prima di gettarsi nel vuoto. La fabbrica non aveva estintori, né sistemi antincendio. La fabbrica aveva una sola uscita di sicurezza. La fabbrica aveva le porte chiuse, per impedire ai lavoratori e alle lavoratrici di uscire prima della fine del turno. Lo sfruttamento intensivo del lavoro operaio è il motivo politico che a Karachi, come in molte altre fabbriche del mondo, fa considerare la morte degli operai come un rischio che si può correre. Non abbiamo dimenticato la Thyssen di Torino. Sappiamo cosa è successo lo scorso marzo sempre nel torinese, alla La.Fu.Met, dove quattro operai marocchini sono finiti all’ospedale con ustioni di secondo e terzo grado. Nelle fabbriche pakistane, cinesi, messicane o italiane l’espressione «società del rischio» non ha a che fare né con la contingenza né col frammento, ma assume un significato costante, letale e globale. Qui il neoliberismo non è un’eccezione del sistema democratico, non ha a che fare con la crisi della rappresentanza, non è una governance distante o incomprensibile. Qui c’è un sistema sociale di sfruttamento con garanzie istituzionali evidenti e identificate.

Come migliaia di altri stabilimenti nella regione, la «Ali Enterprises» non era mai stata registrata ufficialmente secondo quanto previsto dal Factories Act del 1934 che prevede, insieme alla Hazardous Occupation Rule del 1963, l’attuazione di specifiche misure per la sicurezza sui luoghi di lavoro e l’attuazione di regolari ispezioni. D’altra parte, la registrazione non avrebbe impedito che l’impianto di Karachi s’incendiasse «a norma di legge». Nel 2003 – su pressione dei principali industriali del Sindh e Punjab – il governo ha emesso un ordine esecutivo che ridimensiona il sistema dei controlli con l’intento di «sviluppare un ambiente amichevole per l’industria e gli affari, allo scopo di attrarre investimenti». Con buona pace per le rassicurazioni dell’associazione degli industriali tessili pakistana (Pakistan Ready-made Garments Manufacturers and Export Association – PRGMEA), che parla di una vicenda isolata, e insiste sul fatto che i controlli sulla sicurezza sono obbligati, dal momento che gli acquirenti stranieri non comprano se non viene certificata la regolarità della produzione. Come chiarisce Zehra Akbar Khan, «la “Ali Enterprises” non si trovava all’interno delle Export Processing Zone (EPZ), le aree industriali a statuto speciale nelle quali non è applicata nessuna legislazione sul lavoro, ma nella normale zona industriale chiamata SITE B, dove si suppone, invece, che quella legislazione sia applicata. Ma la situazione, in realtà, non è diversa da quella delle EPZ, perché in entrambi i posti di fatto ogni normativa in favore del lavoro è lettera morta». Anche la stampa mainstream sembra riconoscere che il confine è sottile, e che la «Ali Enterprises» non rappresenta affatto un’eccezione: Fahim Zaman Khan, un ex amministratore della città di Karachi, il 14 settembre ha dichiarato all’agenzia France Press che «non c’è nessuna fabbrica, a Karachi, che sia strutturalmente diversa da quella bruciata. Tutti, compresi i nostri governanti, possono vedere altre fabbriche nelle stesse condizioni, proprio vicino a quella che è bruciata, ma non fanno niente».

Alcuni membri della SITE Ltd. (La Sindh Industrial Trading Estates Limited), organismo che di fatto governa la SITE Industrial Area, la più grande area industriale del Pakistan, hanno espresso la loro preoccupazione che, in seguito all’incidente, gli importatori stranieri possano ora richiedere più garanzie rispetto alle condizioni di sicurezza, anche a costo di pagare qualche cent in più per i prodotti. Per questo, si teme, la strage di Karachi può danneggiare l’export Pakistano, dove il tessile garantisce un giro di affari di oltre 11 miliardi di dollari. Invocando l’interesse nazionale, la PRGMEA invita «tutti i dipartimenti governativi coinvolti, ai media e al pubblico in generale a evitare congetture e accuse che non siano necessarie, perché sarebbero estremamente dannose per le esportazioni del paese, e per l’immagine internazionale del governo». Nel frattempo, però, il ministro del Commercio e dell’Industria del Sindh, Rauf Siddiqui, si è dimesso il 14 settembre sulla scia delle polemiche, non senza far notare che la terra era stata lottizzata sotto il suo ministero, ma le attività di controllo erano responsabilità della SITE e del dipartimento del lavoro. Pur non incluso nella North Karachi Industrial Area (NKIA), che sotto la guida della North Karachi Association of  Trade  & Industry, insegue dal 1991 gli standard infrastrutturali fissati dal WTO (alla quale il Pakistan ha aderito nel 2005), è questo l’«ambiente amichevole» per uno sfruttamento ormai dispiegato su scala globale.

All’indomani dell’incendio, sottolinea Zehra Akbar Khan, «la National Trade Union Organization ha indetto una giornata di lutto nazionale per coloro che sono morti nell’incendio. In termini reali, purtroppo, nel paese non c’è stata una grandissima mobilitazione, ma ci sono state proteste, manifestazioni e iniziative in diverse città, e un presidio davvero imponente a Karachi. Però, non possiamo ancora dire che la risposta sia stata all’altezza della gravità dell’incidente, a causa della debolezza del movimento operaio».

L’11/9 del movimento operaio pakistano non è un incidente locale o confinabile, né un episodio tragico in un sistema di sviluppo tardivo. Non è nemmeno un incidente sul lavoro in una fabbrica lontana. A Karachi, come a Taranto o a Torino, la morte è trattata come l’inevitabile effetto collaterale del processo di valorizzazione del capitale. L’assenza di controlli e norme di sicurezza perseguita dagli industriali con il beneplacito dei governi non è un’eccezione resa possibile dalla corruzione diffusa, ma la condizione di possibilità di un sistema di sfruttamento che fa leva sulla creazione di differenziali – nei salari, negli standard di sicurezza, nell’organizzazione politica e sindacale del lavoro – per accrescere il profitto. Proprio per questo, la debolezza del movimento operaio pakistano che Zehra Akbar Khan riconosce con tanto realismo non è un problema locale. Proprio per questo il loro 11/9 è anche il nostro. Quando riusciremo a produrre una singola rivendicazione riconoscibile come propria in una ognuna delle fabbriche del precariato globale, saremo oltre questa debolezza che ci contagia tutti.

Publichiamo di seguito la dichiarazione di Nasir Mansoor, della segreteria della National Trade Union Federation del Pakistan (NTUF) diffuso all’indomani dell’incendio di Karachi.

È stato il giorno più buio e triste della storia del movimento operaio in Pakistan, quello in cui oltre 300 lavoratori sono bruciati vivi nel terribile incendio in una fabbrica tessile di Karachi, l’11 settembre. Non si è trattato del primo incidente di questo tipo, in quella fabbrica come in molte altre. È un fenomeno quasi quotidiano ma che passa sempre sotto silenzio, finché non si trasforma in un crimine atroce illuminato sui media da una luce sinistra. Più di 300 lavoratori hanno perso le loro vite preziose, immolate sull’altare della sfrenata passione capitalistica per il profitto.

La società, in questo modo, è criminalmente brutalizzata, e nessuno ascolta le voci e le invocazioni dei reietti della terra finché un danno incalcolabile e una miseria inimmaginabile non li colpiscono. È quanto accaduto agli operai della «Ali Enterprises», una fabbrica tessile nell’area industriale SITE di Karachi, dove già un paio di incendi erano scoppiati senza che nessuna agenzia governativa intervenisse con azioni severe.

Si è venuti a sapere che la fabbrica era stata impiantata illegalmente, senza essere registrata secondo quanto previsto dal Factories Act. È una fabbrica che produce per l’esportazione. Qui, in Pakistan, la maggioranza delle fabbriche non è registrata sotto il Factories Act, così da evitare regole e regolamenti, e negare ai lavoratori qualsiasi diritto. L’edificio della fabbrica non era stato approvato come avrebbe dovuto, secondo la Karachi Building Authority (KBA). Le misure di sicurezza sono osservate molto raramente, e questa era la situazione anche alla «Ali Enterprises», dove c’era una sola uscita di sicurezza per più di 500 lavoratori, dove tutte le finestre erano chiuse con sbarre di ferro, e dove le porte e le scale erano ingombrate dalle merci finite o semilavorate.

Come fonte di energia era utilizzato un generatore, privo di qualsiasi sicurezza. In generale, questa è la causa principale degli incendi assieme all’esplosione delle caldaie. In questo caso 300 giovani donne e uomini sono stati uccisi in un paio d’ore, e molti corpi sono ancora sepolti tra le macerie. Non c’erano sistemi antincendio, né estintori nella fabbrica. La maggioranza dei lavoratori era assunta tramite agenzie in subappalto, e praticamente nessuno aveva una lettera di assunzione, così che l’identità di molte delle vittime può essere accertata solo attraverso il test del DNA. Nessun lavoratore era registrato presso il Social Security and Employees Old Age Benefit Institute (EOBI) o il Worker Welfare Board/Fund. Ai lavoratori della fabbrica era stato negato il diritto di formare un loro sindacato, e di godere dei loro diritti alla contrattazione collettiva. I lavoratori che sono sopravvissuti all’incidente dicono che la fabbrica era assicurata, ma non gli operai, e accusano il proprietario di aver pianificato egli stesso l’incendio per ottenere il risarcimento dall’assicurazione.

La NTUF è stata la prima a reagire di fronte all’incidente, e ha organizzato una manifestazione a Karachi chiedendo l’arresto del proprietario, l’imputazione dei funzionari responsabili e le dimissioni dei ministri del lavoro, dell’industria, e del Governatore del Sindh a causa della loro grave negligenza. La NTUF ha anche chiesto una compensazione di un milione di Rupie per le famiglie dei lavoratori morti, e di 400.ooo Rupie per quelli feriti, oltre che cure mediche gratuite. Ha chiesto, ancora, che si dia avvio a una rigida ispezione, con la collaborazione dei corpi rappresentativi dei lavoratori, che tutte le fabbriche siano registrate sotto il Factories Act, e che siano applicate nel loro spirito le leggi sulla sicurezza, abolendo l’orrendo sistema dei subappalti e garantendo a tutti i lavoratori una lettera di assunzione, la registrazione presso le istituzioni di previdenza sociale e il godimento degli schemi di welfare. La NTUF, infine, ha fatto appello alle organizzazioni internazionali dei lavoratori affinché facciano pressione sui marchi e le etichette internazionali per costringere le industrie locali alla stretta osservanza delle leggi sul lavoro e degli standard di sicurezza previsti dall’Organizzazione mondiale del lavoro e dalle leggi di ciascun paese.

Come informazioni importanti, è necessario aggiungere che si stima che più di 650 operai fossero nella fabbrica al momento dell’incendio; che sembra che la cantina fosse allagata, così che più di 250 persone erano state chiamate a intervenire per risolvere il problema e altrettanti corpi sono ancora intrappolati sotto terra; che più di 100 donne siano morte nell’incendio, e con loro alcuni bambini. 

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