di GABRIELLA ALBERTI – Precarious Workers Brigade, London
Ovunque io vada sono trattato come un negro che è venuto qui 60 anni fa […] mi vedono come un immigrato e puoi sentire quel razzismo inconscio dappertutto. Puoi sentirlo e vedi il modo in cui ti guardano […] è quello che è. Non c’è niente da fare.
Nell’estate del 2011 centinaia di persone provenienti dalle aree più disagiate della Gran Bretagna furono coinvolte in scontri con la polizia e saccheggi. Molte di loro erano cittadini inglesi con un background migrante alle spalle. I riots sono cominciati nel nord di Londra il 5 Agosto e si sono diffusi in altre città dell’Inghilterra comprese Birmingham, Liverpool, Nottingham, Manchester e Salford. Erano espressioni di segregazione sociale e razziale sperimentata soprattutto dalla gioventù nei quartieri ghetto del paese.
La rabbia della comunità di Tottenham, dove si è acceso il primo focolare della rivolta, è stata provocata dal rifiuto della polizia di dare spiegazioni alla famiglia di Mark Duggan riguardo alla sua morte. Mark era un ragazzo inglese nero, ucciso dalla polizia nel corso di un’operazione contro la criminalità nelle comunità nere londinesi. Dopo una manifestazione non violenta della comunità davanti alla stazione di polizia di Tottenham, la tensione è salita insieme alla repressione della polizia, e si è estesa agli altri quartieri della capitale e ad altre città. Mark è solo uno degli esempi delle molte morti avvenute durante questo tipo di operazioni: 333 dal 1998, senza nessuna spiegazione da parte dei funzionari della polizia. Non c’è da stupirsi che la gente in queste comunità abbia sviluppato un senso di ingiustizia e una sfiducia nel lavoro di istituzioni come la «Commissione indipendente per i reclami contro polizia», responsabile di investigare sull’assassinio, perché viste più come protettrici della polizia che non della gente. Soprattutto tra le seconde e terze generazioni di migranti c’è una profonda sfiducia nella polizia e nelle sue tattiche repressive ereditata dalle generazioni precedenti di migranti che hanno sperimentato la brutalità poliziesca durante le lotte anti-razziste come i riots di Brixton negli anni ’80. Ma non è una questione limitata al passato. La realtà quotidiana del maltrattamento della polizia e del razzismo istituzionale in un contesto di crescita della povertà e del controllo poliziesco – una tipica combinazione in epoca di crisi economica – viene indicata dai rivoltosi stessi come la causa più importante dei disordini.
Molti di loro hanno avuto esperienze negative con la polizia, come essere pestati nei cellulari e l’arresto preventivo grazie al cosiddetto stop and search. Dal 1994, grazie all’art. 60 del Criminal Justice and Public Order Act, per contrastare la criminalità, i comportamenti anti-sociali e le «guerre tra bande», la polizia britannica ha il diritto di perquisire persone in una specifica area e in uno specifico momento qualora abbia buone ragioni di ritenere che vi siano seri rischi di violenza. Un fattore che ha sprigionato i tumulti, infatti, è stato l’umiliazione, il sospetto ingiusto e il profilo razziale caratteristici di questo tipo di operazioni di polizia. Esse sono collegate alla più ampia trasformazione delle relazioni tra la polizia e le comunità favorita dalla «guerra al terrore» del governo. La politica selettiva e razziale che sostiene lo stop and search è resa chiaramente evidente dal fatto che la polizia lo ha applicato 80 volte in più nel quartiere di Haringay, dove si concentrano molte delle minoranze e dei migranti di Londra. Haringay è anche il quartiere con il più alto livello di povertà minorile, un tasso di disoccupazione del 8,8% e un solo posto libero per ogni 54 persone che cercano lavoro.
Nel Regno Unito, mentre la popolazione nera costituisce meno del 3% della popolazione, il 15% delle persone fermate dalla polizia sono nere. In uno spettro che comprende tutte le fasce d’età, è quattro volte più probabile che venga incarcerato un giovane adulto nero. È 5 volte più probabile che un nero finisca in carcere che un bianco e, tra il 1998 e il 2008, i detenuti che appartengono a una minoranza etnica sono raddoppiati da 11.332 a 22.421. I riots estivi, perciò, si possono leggere sia come l’indicazione di una crescente difficoltà di organizzazione sociale da parte dello Stato in un periodo di crisi economica, sia come una risposta alle politiche della crisi, dove i giovani proletari bianchi e neri e i migranti senza documenti diventano il bersaglio principale.
Contrariamente all’opinione diffusa, i protagonisti dei riots non erano privi di istruzione. Molti erano iscritti alle scuole superiori o all’università. Le misure di austerità, e in particolare i tagli all’istruzione, hanno chiaramente favorito il malcontento tra i giovani provenienti dalla classe operaia migrante o bianca, che hanno visto improvvisamente sfumare le loro opportunità di accesso all’istruzione. Anche nel Regno Unito il sogno a buon mercato della mobilità sociale si è infranto per quelli che non possono permettersi di accedere all’università (9000 sterline all’anno per un corso di laurea di primo livello!). Che il consumo sia visto come un segno di ascesa nella scala sociale, può spiegare i vari attacchi a negozi e saccheggi durante i riots estivi (circa 2.500 negozi ed esercizi commerciali sono stati derubati in Inghilterra). Oltre a reclamare il «diritto a prendere la roba», i saccheggi non sono sorprendenti dopo decenni di campagne ideologiche dove «il consumismo fondato sul debito personale» è stato stimolato dai governi sia laburisti sia conservatori come la soluzione ai problemi dell’economia nazionale. Mentre la maggior parte dei commentatori dei riots di ogni partito politico era impegnata a giudicare se questi erano atti politici o mere espressioni di consumismo violento (che rispecchiavano semplicemente «lo spirito selvaggio del capitalismo»), la cosa rilevante è piuttosto comprendere il contesto specifico nel quale i migranti di seconda e terza generazione hanno partecipato alla lotta con la polizia e ai saccheggi.
Nelle comunità nere molti hanno detto che, nonostante la realtà (e il mito) di una parziale mobilità sociale, l’isolamento continuo e le lotte per l’accettazione sono ancora all’ordine del giorno per i migranti caraibici, africani e asiatici. Affrontando il razzismo istituzionale dello Stato e delle sue articolazioni locali, le rivolte sociali del passato potrebbero apparire meglio organizzate per il fatto che i migranti di prima e di seconda generazione usavano il contesto dei riots per costruire e dare avvio alle loro strutture e attività, quali i centri giovanili e di comunità, il monitoraggio della polizia, il servizio di ricerca lavoro e altri servizi, cercando cioè di organizzare autonomamente la propria vita e il tempo libero nella comunità. Se in quel momento queste attività erano parte tanto di una battaglia contro l’esclusione razzista quanto per l’autorganizzazione, i riots di oggi possono apparire privi di proposte e più individualizzati. Tuttavia, proprio nel contesto delle rivolte della scorsa estate e della criminalizzazione dei giovani delle periferie che sono state il teatro della sollevazione (così come le proteste studentesche che hanno significativamente preceduto le rivolte a partire dall’autunno 2010), le persone sono sembrate capaci di creare nuovi legami e nuove strutture di solidarietà.
Esempi possono essere lo Stop Criminalizing Hackney Youth e il Tottenham Defense Campaign, che si sono costituiti subito dopo le rivolte e la repressione poliziesca. Queste campagne aumentano la consapevolezza delle cause sociali dei riots nelle comunità coinvolte, promuovono l’auto-organizzazione e creano strutture di supporto legale per le famiglie di coloro che sono detenuti. Esse lavorano anche contro l’esclusione sociale, l’isolamento e la stigmatizzazione di coloro che sono coinvolti nei riots e contro l’uso indiscriminato e razzista dello stop and search da parte della polizia. Ulteriori esempi di solidarietà stanno emergendo a Londra grazie a iniziative che coinvolgono gruppi che operano nei campi dell’istruzione e dei movimenti contro i tagli del 2011, così come quelli che si battono contro le politiche razziste e per la libertà di movimento e di migrazione. Come risposta ai raid effettuati dalla UK Border Agency nei confronti dei migranti a partire dai mesi delle rivolte, una nuova campagna anti-raid è stata lanciata dalle comunità dei Latinos come la Latin American Workers Association (LAWAS) e dagli attivisti precari trans(locali) della capitale (ad esempio la Precarious Workers Brigade).
Effettivamente, dopo la spettacolarizzazione della violenza da parte dei media in agosto, l’ombra strisciante e silenziosa dei riots ha legittimato azioni meno visibili contro le comunità migranti a Londra, vittime delle stesse tattiche che hanno provocato la rabbia giovanile contro la polizia nell’estate scorsa. La pratica dello stop and search riappare ora nelle «operazioni di strada» e nello stop and search «speciale» contro coloro che potrebbero sembrare «immigrati illegali». La UK Border Agency e la polizia portano avanti un’azione coordinata con l’obiettivo di prendere le persone senza documenti, portarle in carcere e deportarle. Lo scorso febbraio la comunità dei Latinos nel sud di Londra è stata un obiettivo particolare dall’Agenzia, portando gruppi come LAWAS a mobilitarsi insieme alle Precarious Workers Brigade. Circa 440 incursioni sono state registrare in un solo giorno in vari luoghi di lavoro di Londra. Oltre alle incursioni nei luoghi di lavoro, una nuova tecnica usata dalla polizia è quella di prendere come obiettivi i momenti di ritrovo quotidiani come le fermate degli autobus e gli eventi culturali frequentati da certe comunità. Purtroppo, le operazioni raggiungono spesso buoni risultati, come il recente raid a un concerto portoricano in Elephant and Castle dove molti migranti latinoamericani sono stati arrestati (e molti di conseguenza deportati) mentre facevano la fila per entrare. Questo, insieme agli attacchi contro le prostitute migranti in altre zone della città, è sembrato un tentativo chiaro da parte della polizia di «ripulire» la città da migranti non-autorizzati e altri lavoratori «immeritevoli» prima che i turisti invadano la capitale per le Olimpiadi. Non importa se quei migranti che sono molestati, perquisiti e deportati sono gli stessi che lavoravano e lavorano alla costruzione delle strutture in cui hanno luogo i giochi.
La collaborazione tra LAWAS e le Precarious Workers Brigade ha portato alla produzione di una migrant bust card per diffondere le informazioni ai migranti e alle loro famiglie sui loro diritti e su come difendersi dalle molestie della polizia durante lo stop and search e una volta che sono stati messi in prigione. Le nuove alleanze emerse in questo momento di crisi, austerità e repressione razzista da parte dello Stato, mostrano come le forme di ribellione dei lavoratori migranti, così come quelle dei precari, non rispecchiano semplicemente la fase selvaggia del capitalismo e la sua risposta brutale alla crisi, ma risvegliano anche inaspettate forme di solidarietà e di autorganizzazione.