domenica , 22 Dicembre 2024

Imparare da Oakland…e da New York 10. An unusual general strike: ombre di sciopero sulla May Day

di MICHELE CENTO, in connessione da New York

Ombre di scioperoAn unusual general strike. Sono le prime parole che ti vengono in mente quando ti svegli il primo maggio a New York e senti lo stesso rumore di sottofondo con cui ti alzi ogni mattina. È il segno che la città sta lavorando. As usual, appunto. La sensazione non cambia quando entri in metropolitana e ti accorgi che i treni sono come al solito più o meno in orario e i binari affollati come un martedì qualsiasi.

La presenza di Occupy Wall Street si avverte solo una volta arrivati a Bryant Park, il centralissimo parco cittadino che il movimento ha eletto a suo quartier generale per questa May Day. Ancora una volta è una questione di suoni. Da una parte, il martellante «shut the city down» delle decine di attivisti raggruppatisi fin dal primo mattino, dall’altro, le sirene delle decine di volanti e camionette della polizia che il sindaco Bloomberg ha dispiegato per l’occasione. Il capo della polizia di New York aveva d’altronde preannunciato che «le forze dell’ordine per il primo maggio sarebbero state sufficienti». Aveva però omesso di dire che sarebbero state sufficienti per vincere la guerra in Afghanistan. O quanto meno sufficienti per paralizzare la 42esima, l’arteria che taglia in due il centro di Manhattan. Il paradosso di questa grigia mattinata newyorchese è infatti dato dalla militarizzazione della città, che di fatto rallenta le normali operazioni di chi va al lavoro. Ma questo stato d’emergenza, con tanto di allarme diramato dall’antiterrorismo, deve essere stato reputato necessario affinché l’America continui a celebrare il lavoro, anziché chi lavora.

Se abbiamo localizzato #Occupy e polizia, rimane una domanda aperta: dov’è lo sciopero? Prima di gridare al miracolo di #Occupy, bisogna fare i conti con questa domanda, perché un general strike autoconvocato è un banco di prova importante per testare le possibilità di lotta dei soggetti politici centrali di questa May Day: precari e precarie, migranti, disoccupati, donne impegnate nel lavoro riproduttivo e studenti. Se lo sciopero non si manifesta, bisogna allora andare a cercarlo: anche questo fa parte del suo essere inusuale. Seguiamo allora i primi «picchetti del 99%», appena partiti da Bryan Park con un obiettivo preciso: colpire le banche che abitano Midtown. Il primo bersaglio è davanti agli occhi: la Bank of America Tower, che però è protetta da transenne e da un cordone di poliziotti lungo 30 metri. Istituzione all’avanguardia nei «servizi di sfratto», Bank of America teme che si replichi il brutto tiro giocato qualche settimana fa da #Occupy, quando gli attivisti entrarono nell’edificio muniti di divano, tavolino e pianta da interno. Per la serie: se voi ci prendete la casa, noi veniamo a casa vostra. È impossibile avvicinarsi alla sede della banca se non si ha un pass valido, per cui il picchetto si limita a denunciare le pratiche che hanno fatto guadagnare a Bank of America l’appellativo «Bad for America».

Se questi picchetti non sono in grado di bloccare i luoghi di lavoro, producono comunque dei piacevoli effetti collaterali. Come avviene per esempio davanti a una filiale della Chase Bank, dove una squadra di operai abbandona gli attrezzi e si ferma ad osservare il picchetto con un’aria tra il divertito e il solidale. Uno di loro tira fuori una fotocamera e inizia a girare un video. Prima di fermare le riprese dice a chiare lettere: «Fuck You, Chase Bank». Deve essere il titolo che ha dato al suo cortometraggio. E la scena si ripete quando il picchetto si rimette in movimento e incontriamo altri operai impegnati su delle impalcature. Sono gli ispanici i più solidali, così come ispaniche sono le commesse del Duane Reade che per un attimo abbandonano il cliente e si presentano alle vetrate con un sorriso e il pugno chiuso. Segnali, certo. Ma da non sottovalutare in una fase in cui studiosi titolati sostengono che la ricetta per uscire dalla crisi sia la produttività, che da che mondo è mondo niente altro significa se non velocizzare i tempi di lavoro.

Sembra comunque che i picchetti del 99% non abbiano intenzione di bloccare le attività, come è successo a Oakland il 2 novembre. I picchetti hanno più una finalità dimostrativa o, come recita un cartello, vogliono «esorcizzare il potere dell’1%». Tempo fa, un uomo assai saggio ci aveva già informato che la merce è piena di capricci metafisici, ed ecco allora il senso dell’esorcismo sotto forma di picchetto: estrarre lo spirito dello sfruttamento contenuto nel corpo del lavoro e del denaro ed esibirlo al pubblico ludibrio. In realtà, il movimento è consapevole del fatto che la polizia non tollererà alcun blocco. E #Occupy non vuole incidenti con le forze dell’ordine, soprattutto in una fase in cui anche la buona (e falsa) coscienza dei liberal newyorchesi non sembra più indignarsi di fronte alla repressione sistematica da parte della polizia. Anche quando i numeri sono più consistenti e sufficienti per bloccare l’ingresso di una Wells Fargo, l’azione dura pochi secondi. Giusto il tempo di dare ai poliziotti la possibilità di estrarre i manganelli e di presentarsi minacciosi all’ingresso della banca. Scattano un paio di arresti. Gli attivisti gridano di continuare a marciare e di evitare altri incidenti. E si continua a marciare, con i poliziotti accanto a giocherellare con il manganello in mano (perché in fondo ognuno ha le sue piccole perversioni) e piccole filiali di banche che chiudono le porte, terrorizzate dal grido di rivolta. La città ha un aspetto surreale: le sedi amministrative delle banche sono transennate e protette dalla polizia, così come lo è la sede di News Co., il gigante dei media di proprietà di Rupert Murdoch. Anche la piazza del Rockfeller Center è inaccessibile se non si ha un pass. Fortunatamente è il primo maggio e non il 25 dicembre: non avremmo potuto tollerare la faccia delusa dei curiosi che durante le feste natalizie si affollano nella piazza per vedere il celebre albero.

In tarda mattinata, si torna a Bryant Park dove gli altri picchetti stanno convergendo. Ma la domanda è sempre la stessa: dov’è lo sciopero? Lo andiamo a cercare nel Lower East Side, un quartiere un tempo poverissimo, ma ormai da anni soggetto a un esteso processo di gentrification. Qui, a pochi isolati da una seminascosta statua di Lenin, Strike Everywhere, un gruppo che gravita attorno a OWS ma in maggioranza anarchico (ma non troppo!), ha organizzato la wildcat march. Una marcia senza regole che ha intimorito non poco le forze dell’ordine, presentatesi in massa all’appuntamento, ma che ha suscitato anche qualche malumore all’interno di #Occupy e soprattutto la netta presa di distanza da parte dei sindacati. L’intento della wildcat march è quello di tenere insieme lavoratori sindacalizzati e non, dando visibilità a chi voleva scioperare ma non poteva. C’è così una lavoratrice metalmeccanica non sindacalizzata che oggi ha scioperato, «in solidarietà – così dice – con tutti quelli che avevano paura di essere qui o non potevano permetterselo». C’è anche un instructor precario della State University, che, nonostante non possa scioperare in quanto dipendente pubblico, ha deciso di scendere in piazza. Qui c’è almeno l’ombra dello sciopero, ma fallisce l’obiettivo della wildcat march di paralizzare la città. Solo per pochi tratti il corteo riesce a marciare per strada, mentre il cordone di polizia esegue la solita sequela di arresti e riporta la wildcat march sul marciapiede, con modi che tradiscono scarsa dimestichezza con il Bill of Rights.

Eppure, altre ombre di sciopero si allungano su New York. E sono ombre di sciopero precario, come nel caso dei lavoratori di Strand, storica libreria newyorchese gestita secondo i vecchi schemi della proprietà familiare. La loro storia mostra come la logica perversa della precarietà non risparmi nessuno. Anni fa Strand era infatti un luogo di lavoro ambito per i commessi. Stipendi al di sopra del living wage, ferie e malattie pagate, assicurazione sanitaria che non incideva troppo sul salario. Un angolo di paradiso nell’America post-reaganiana. La crisi del settore e l’avvento di Amazon, il grande precarizzatore, hanno «costretto» – così sostiene il management – a rinegoziare il contratto: congelamento del salario, incremento dei contributi per l’assicurazione sanitaria e ulteriori tagli per i neo assunti. Un contratto che i lavoratori di Strand hanno rispedito al mittente. Sul totale dei 150 dipendenti della libreria, sono circa una trentina gli impiegati che formano un picchetto nel primo pomeriggio. Sono gli impiegati sindacalizzati all’interno degli United Auto Workers (UAW), che «sfruttano» la loro condizione più tutelata per guidare una lotta che potrebbe a breve portare allo sciopero, a beneficio (ed è bene esplicitarlo) anche di chi è non è nelle condizioni di protestare. Essi riconoscono la crisi del sindacato, il suo essere costantemente sotto attacco e al tempo stesso costretto a convivere con le logiche della produzione, e ammettono anche che l’UAW dovrebbe fornire un’assistenza migliore. Ma sono consapevoli anche della necessità di appoggiarsi al sindacato, o meglio, a quei quadri local più combattivi, per attivare il conflitto sul luogo di lavoro, limitando, per quanto possibile, le possibilità di sanzioni e licenziamenti. Al picchetto dei lavoratori di Strand ha partecipato un gruppetto di attivisti di Occupy Wall Street. E scene analoghe si sono viste davanti alla sede di altri precarizzatori della Grande Mela: il New York Times, il ristorante Capital and Grille, McGraw Hill, la casa d’aste Sotheby’s (che, ironia della sorte, qualche giorno fa ha battuto L’urlo di Munch, mentre fuori si alzava il grido di protesta di militanti sindacali e attivisti #Occupy). Eppure, quello che a prima vista emerge da queste lotte è la marginalità della posizione di #Occupy, che per certi versi sembra limitarsi a prestare forze a un conflitto che è organizzato dai lavoratori e dai sindacati.

In altri termini, se il movimento ha in questi mesi sviluppato una capacità di azione e mobilitazione notevole, non ha tuttavia maturato un’adeguata capacità di organizzazione del conflitto sul luogo di lavoro, che viene invece lasciato a chi ogni giorno deve confrontarsi con il proprio precarizzatore con l’appoggio, per giunta estremamente variabile e incerto, del sindacato. A New York non si replica cioè quello che è successo a Oakland il 2 novembre, dove è stato #Occupy a organizzare lo sciopero e a metterlo in atto. Non contro il sindacato e senza neanche esserne il gregario, ma attraverso di esso. Certo, anche Oakland oggi deve fare i conti con il logoramento dei rapporti con il sindacato dei portuali, ma ha comunque cercato di bloccare alcune attività in città e ha sostenuto insieme a San Francisco lo sciopero (questo sì, vero!) dei lavoratori del Golden Gate Ferry. A Los Angeles, se i migranti non si sono visti in massa come nelle passate May Day, #Occupy ha contribuito a bloccare parte dell’aeroporto insieme a chi quotidianamente ci lavora. Si deve segnalare invece l’emergere di Occupy Chicago, che il primo maggio ha bloccato diverse banche e che si appresta a prendere le redini della protesta contro il summit Nato del 20 maggio, dove la tradizione no-global sarà declinata all’interno della nuova cornice #Occupy.

Quando dall’evento si passa all’organizzazione del conflitto, Occupy Wall Street rischia dunque di essere risucchiato dalla struttura organizzativa del sindacato, non riuscendo a dettare l’agenda della lotta. Una situazione che si avverte proprio osservando il grande corteo del pomeriggio, in cui circa 30mila persone hanno sfilato lungo Broadway alla volta di Wall Street. Un corteo organizzato con molta cura dai sindacati, quasi a controllarne eventuali eccessi di radicalità, in cui lo spezzone di #Occupy ha preso posto in mezzo alla marcia, tra i Transit Workers Union e SEIU. A #Occupy va così il merito di aver risvegliato la coscienza sindacale attorno alla May Day, una tradizione di cui a New York si ignora talvolta il significato. Ma è il sindacato a guidare il corteo e Wall Street, militarizzata ancor più del resto della città, viene solo sfiorata. Qualche attivista prova ad accennare un sit down davanti all’imbocco della via, ma viene prontamente arrestato. Non sembra che la cosa preoccupi i sindacati, che non vogliono grane con le forze dell’ordine e puntano invece a ribadire le parole d’ordine del corteo: «organize, legalize, unionize». Il corteo così si conclude davanti alla sede dell’azienda dei trasporti newyorchesi, dove i sindacalisti del Transit Workers Union riconoscono il ruolo di #Occupy in questa May Day. Parole di circostanza, certo. Ma non si può negare che #Occupy abbia rianimato le speranze di quegli attivisti sindacali che cercano di riattivare l’energia conflittuale del rank and file, fornendo loro un linguaggio e una piattaforma unitaria in cui le diverse figure che compongono il lavoro possono riconoscersi. Il linguaggio di #Occupy ha d’altronde pervaso la stessa retorica della dirigenza sindacale, che tuttavia declina il tema del 99% all’interno della rivendicazione di politiche pubbliche per la creazione di posti di lavoro. Laddove la presenza di migranti è più rilevante, come nel caso di LIUNA, il linguaggio si fa invece più conflittuale e, insieme alle invocazioni alla lotta, si chiede anche la «regolarizzazione» immediata di chi è costretto al permesso di soggiorno.

Alla fine di una lunga giornata abbiamo così trovato lo sciopero sotto forma di ombre. Un qualcosa di non ancora chiaramente definito, ma che proprio per questo apre spazi imprevedibili di conflittualità e al tempo stesso pone degli interrogativi. Interrogativi che riguardano anzitutto la validità delle lenti con cui leggiamo quanto accade tra OWS, precarie, operai e migranti, sindacalizzati e non. E con le quali guardiamo dentro uno sciopero di tipo nuovo, che va appunto cercato nelle trame complesse dell’organizzazione del lavoro che punta a rovesciare. Ma anche interrogativi attorno alla forma di un general strike che appare tanto più efficace non quando contesta le banche, ma quando incanala la lotta in un singolo luogo di lavoro, dove il processo di precarizzazione è in atto.

Così gli interrogativi si trasformano nelle contraddizioni e nei paradossi di un general strike che per attivare la sua logica radicale deve appoggiarsi a singole e particolari situazioni di lotta. Situazioni che tuttavia diventano segni di una possibile trasformazione nei rapporti di forza e, in un certo senso, cercano di rispondere alla domanda che quotidianamente precari e precarie si pongono: «che fare?». Ma sono tentativi di risposta che suscitano non pochi dubbi sulle reali capacità di #Occupy di attivare un percorso organizzativo in grado di produrre connessione e conflitto. Altre ombre, ancora. Su cui però sarà bene riflettere.

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