di MICHELE CENTO e GABE CARROL in connessione da New York*
“Noi non abbiamo mai visto uno sciopero generale”. Così a metà degli anni Settanta Mariarosa Dalla Costa attaccava la pretesa universalità di uno sciopero che non riusciva a sfondare la linea del genere, impedendo alla lotta di classe di irrompere nella cucina di casa. Quarant’anni dopo, il lavoro riproduttivo continua a rimanere al di fuori dell’orizzonte tradizionale del conflitto sindacale, mentre i processi di precarizzazione e frammentazione del lavoro hanno ulteriormente depotenziato lo sciopero generale al punto tale che i lavoratori precari non hanno il potere di scioperare, anche se ne hanno il diritto.
Lo sciopero generale non sembra cioè più in grado di spostare i rapporti di forza che strutturano il luogo di lavoro, ma, come il caso italiano dimostra, appare semmai come uno spettro minaccioso da evocare per ottenere piccole limature a un testo di legge. In questa sua forma spettrale, lo sciopero generale come l’abbiamo conosciuto è destinato a diventare un mito. Non nel senso che Sorel si augurava, bensì come l’appello al cielo di un sindacato che tenta disperatamente di difendere istituti giuridici che il capitale ha già provveduto a liquidare sul piano materiale.
Eppure, “the general strike is back” è l’appello con cui i movimenti Occupy hanno lanciato la giornata che darà il tono alla primavera statunitense: lo sciopero generale del primo maggio, quando, ironia della sorte, negli Stati Uniti si osserva il Loyalty Day. È il giorno in cui si riafferma la lealtà alla nazione. Lavorando, certo. E come, altrimenti?
Il richiamo alla tradizione dello sciopero generale non deve allora essere interpretato come un attacco di nostalgia. È piuttosto il tentativo di mettere a valore il cortocircuito tra potere e diritto, che appare tanto più visibile in un paese dove è il diritto stesso che vieta allo sciopero di assumere un carattere politico e, in senso lato, di tradursi in sciopero generale. D’altronde, la dottrina giuslavorista statunitense, costituitasi attorno al Taft-Hartley Act, ignora sistematicamente la politicità delle relazioni di lavoro, riconoscendo alle parti diritti formalmente uguali, mentre oscura l’asimmetria dei rapporti di forza che si danno nello shop floor. Tanto più che oggi la crisi della contrattazione collettiva, unitamente all’indebolimento di un sindacato attaccato da governatori che vogliono ristabilire per legge l’open shop nei luoghi di lavoro sindacalizzati, hanno reincanalato il rapporto di lavoro all’interno di uno schema individualistico-contrattuale dove si riafferma la massima marxiana “tra due diritti uguali, vince la forza”.
È in questo contesto che il movimento Occupy punta a riappropriarsi dello sciopero generale. Ma se ne riappropria con il preciso obiettivo di innovarne radicalmente le forme. Anzitutto, perché nuovi sono i soggetti dello sciopero. Basta scorrere la convocazione dello sciopero da parte di Occupy Oakland per veder emergere soggetti che solitamente non figurano tra gli iscritti delle unioni sindacali, le quali coprono a malapena il 12% della popolazione occupata: precari e disoccupati, migranti senza permesso di soggiorno, lavoratrici domestiche, donne impegnate nel lavoro riproduttivo e studenti, indebitatisi ormai per una cifra intorno ai 1.000 miliardi di dollari e costretti a fare più lavori per pagare rette universitarie stellari. Da qui le quattro parole d’ordine dello sciopero: “no work, no school, no workhouse, no shopping”.
Ma nuove saranno anche le forme di lotta che questi soggetti metteranno in campo per rovesciare il rapporto di dominio che il capitale dispiega nei luoghi di lavoro. “Se noi non possiamo vivere non lavoreremo” è lo slogan con cui Oakland ha aderito allo sciopero generale del May Day. Ma si potrebbe aggiungere “Se noi non possiamo scioperare, scioperemo lo stesso”. Come? Prendendo un giorno di ferie o di malattia, disertando i luoghi del lavoro domestico, formando picchetti laddove i lavoratori non possono formarli, protestando in strada insegnanti, studenti e genitori. Il compito del movimento Occupy sarà allora quello di costruire le condizioni affinchè un programma così ambizioso si traduca in realtà. Da qui l’idea di Occupy Wall Street di dare vita ai “99% Pickets”, formati da attivisti del movimento e militanti dei sindacati. Saranno picchetti mobili che andranno a colpire non solo i grandi centri del capitale finanziario, ma anche ristoranti, grandi magazzini, catene del lusso e del discount, caffè e altre attività commerciali della luccicante Midtown di New York: il cuore della Manhattan che non dorme mai, perché la tiene sveglia il 99% che è sempre al lavoro. Per il primo maggio Occupy Oakland e Occupy San Francisco hanno invece pianificato l’occupazione del Golden Gate insieme alle persone che quotidianamente ci lavorano. Mentre, a Los Angeles, May Day vuol dire soprattutto “a day without immigrants” e il movimento Occupy intende valorizzare la forza accumulata a partire dal 2006 per sprigionarla in “un giorno senza il 99%”. In questo senso, il May Day sarà la sintesi di un percorso che fin qui ha cercato di costruire un piano di connessione tra diverse figure del lavoro. Un processo che nello sciopero di Oakland del 2 novembre ha già dato i suoi frutti – per giunta, piuttosto amari per l’1%.
Perché, aldilà di come andrà il primo maggio, le mobilitazioni del movimento Occupy hanno già alterato la geografia politica dei rapporti di lavoro negli Stati Uniti, rimettendo all’ordine del giorno il conflitto. Non semplicemente tra cittadini “tax payer” e i “fat cat” della grande finanza, ma tra lavoratori e padroni, tra sfruttati e sfruttatori, precari e precarizzatori. In altre parole, la lotta di classe al tempo di Wall Street. Le lotte e le azioni di quest’autunno hanno indicato infatti un campo d’azione del conflitto sociale che non è il Congresso e il Senato, da mettere sotto pressione attraverso le pratiche del lobbying e dell’entrismo nelle sezioni del partito democratico, ma i luoghi di lavoro da trasformare con l’organizzazione e la pratica dello sciopero.
Nel caso di Zuccotti Park l’esperienza dei Working Group è stata decisiva per portare a termine questo passaggio, scongiurando il rischio che il fenomeno Occupy diventasse una piazza della sinistra del partito democratico, un fenomeno populista alla Tea Party ma di segno opposto. Un rischio che nelle prime settimane era presente. I diversi WG, come il Labor Outreach, Jobless Workers e Immigrant Workers Justice hanno permesso, non senza contraddizioni e limiti evidenti, di dare una fisionomia reale al 99%: un proletariato transnazionale attraversato da tutte le contraddizioni del capitalismo contemporaneo, afflitto da una precarizzazione dilaniante e carenza di organizzazione e prospettiva politica, ma allo stesso tempo combattivo e consapevole della posta in gioco.
In questo contesto sono anche emerse le contraddizioni più profonde dei sindacati statunitensi, che si trovano con le spalle al muro, e che hanno visto nella piazza Occupy un’opportunità di rinnovamento e legittimazione. Molti attivisti, pur scettici sulle intenzioni della dirigenza sindacale, hanno accolto questa apertura, sia per la copertura politica ed economica che i sindacati offrivano, ma anche e forse sopratutto nella speranza di raggiungere e costruire connessioni con nuove lavoratrici e lavoratori e assicurare maggiore incisività e trasversalità al movimento.
Fin dall’inizio di ottobre il percorso del movimento Occupy si è d’altronde spesso incrociato con quello del sindacato. A New York, dove in autunno un centinaio di attivisti di OWS hanno sostenuto le lotte dei lavoratori della casa d’aste Sotheby’s, come a Oakland, dove a guidare i picchetti per bloccare il porto sono stati i membri del movimento. Ma è proprio a Oakland che il rapporto tra Occupy e sindacato appare fortemente incrinato. Da un lato, infatti, dopo aver solidarizzato, sia pure a livello locale e sia pure non ufficialmente, con lo sciopero del 2 novembre, il sindacato dei portuali (ILWU) teme che Occupy possa mettere in discussione il suo monopolio dello sciopero, come di fatto è avvenuto durante il blocco dei porti della West Coast lo scorso 12 dicembre. Dall’altro, per usare le parole di Boots Riley, esponente di spicco del movimento, Occupy Oakland contesta al sindacato di non avere «il copyright della lotta di classe». A New York, invece, la formula che «The Nation» ha ribattezzato “Labor + Occupy” sembra ancora viva, sebbene quell’unità di superficie presenti più di una increspatura. I sindacati, SEIU in testa, cercano infatti di depotenziare e istituzionalizzare la portata radicale dello sciopero, organizzando una manifestazione nel pomeriggio del primo maggio che punta a incanalare la protesta sui binari del “business as usual”. Da una parte e dall’altra sta così trapelando una certa irritazione. Il sindacato dei trasporti (TWU – Transit Workers Unions) sembra non aver gradito l’azione del gruppo Rank and File Initiative, che a fine marzo ha aperto gli ingressi di alcune stazioni della metropolitana, regalando ad alcune migliaia di newyorchesi una corsa gratis nei cunicoli della città. Allo stesso tempo, alcuni attivisti di OWS accusano il sindacato di usare il Taft-Hartley Act come pretesto per non aderire allo sciopero. Secondo la legislazione federale del lavoro è infatti possibile scioperare qualora sia in corso la negoziazione di un contratto collettivo. Il caso vuole che da qualche settimana i lavoratori del trasporto si trovino esattamente in questa condizione. Ed è chiaro a tutti che uno sciopero del trasporto pubblico significherebbe la paralisi per una città come New York, dove ogni giorno cinque milioni di persone viaggiano sulla metropolitana.
In realtà, i lavoratori del trasporto sono soggetti alla Taylor Law del 1967, legge dello Stato di New York che vieta ai dipendenti pubblici di scioperare. Tuttavia, fu proprio il TWU a forzare i confini legali dello sciopero, quando nel 2005 bloccò New York sotto Natale, tanto che, suo malgrado, il leader del sindacato, Roger Toussaint, passò le feste con i secondini del carcere cittadino. Forse una lezione così dura deve aver tenuto a freno gli spiriti più radicali del sindacato dei trasporti. Di certo, però, è lecito avanzare qualche dubbio sulla volontà politica del TWU di sostenere il May Day. D’altronde, il primo maggio i sindacati si terranno a debita distanza da Bryant Park, dove convergeranno i “picchetti del 99%”. I militanti del sindacato che vi parteciperanno lo faranno a titolo personale e senza il sostegno delle sigle sindacali, che appariranno infatti solo nel pomeriggio per guidare – nel senso letterale del termine – una marcia che da Union Square si concluderà a Wall Street.
In tal senso, forse lo spazio più interessante del contesto nordamericano è quello aperto da quei militanti sindacali che, da posizioni anticapitaliste, agiscono dentro il sindacato, cercando però di organizzare autonomamente i lavoratori rank and file (la base sindacale) in campagne politiche che superano le gabbie delle leggi americane e l’immobilismo della dirigenza, facendo un uso conflittuale delle strutture locali del sindacato e non, come spesso usa dalle nostre parti, per rafforzare la loro posizione dentro di esso. Per loro la piazza Occupy è stata un’opportunità unica per creare connessioni tra lavoratori militanti di diversi sindacati e costruire nuove reti, con l’obiettivo di ridare potere al rank and file e riscrivere le “rules of engagement” del posto di lavoro.
Questa scommessa è forse l’aspetto più rilevante che emerge dagli Occupy, perché di fatto è la stessa scommessa che si pone sul piano globale delle lotte: organizzare laddove non c’è organizzazione, creare reti che attraversano movimenti e sindacati, ridare forza e incisività allo sciopero come pratica conflittuale di un movimento di lavoratrici e lavoratori.
Se il May Day sarà un successo o un fallimento lo scopriremo soltanto il primo maggio. Non tanto perché non abbiamo la sfera di cristallo, ma soprattutto perché è la forma radicale e innovativa della lotta che implica un alto grado di incertezza. Qui non ci sono i pullman della CGIL, ma solo la forza accumulata in questi mesi da Occupy per riscoprire e riattivare le “lotte di classe in America”. L’esito dello sciopero non si misurerà d’altronde solo sui numeri e nemmeno nello sterile esercizio di rappresentare un generico 99%. Come già avvenuto nel May Day dei migranti del 2006, o in Italia con il primo marzo del 2010, l’esperimento politico del General Strike si misurerà a partire dalla capacità di organizzare l’inorganizzabile.
* Un ringraziamento per questo articolo va anche a Felice Mometti, compagno di lotte e di inchieste newyorchesi.