di ROBERTA FERRARI
Pubblichiamo la versione integrale della recensione a Sabrina Marchetti, Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale, Roma, Ediesse, 2011, pp.191, pubblicata su «Il Manifesto» del 29 marzo 2012.
Sabrina Marchetti affronta il tema del lavoro domestico e delle migrazioni postcoloniali a partire dall’esperienza delle donne eritree in Italia. Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale, pubblicato nella collana “Sessismo e razzismo”, è innanzitutto una sintesi teorica e metodologica degli studi culturali e postcoloniali e dei diversi approcci allo studio delle migrazioni femminili e, in secondo luogo, un’indagine sul rapporto tra esperienza coloniale ed esperienza migratoria. Attraverso un approccio interdisciplinare, l’autrice tiene insieme la questione della soggettività migrante postcoloniale, del lavoro domestico e di cura e infine la storia del colonialismo e della decolonizzazione.
Le migrazioni femminili dall’Eritrea vengono quindi interrogate a partire dal legame pregresso con il paese coloniale: le eritree in Italia oggi, come le eritree in un’Italia parallela e coloniale ieri. Al centro di questa ricostruzione teorico-metodologica si colloca infatti la questione dell’esistenza di un passato legame coloniale fra il paese di provenienza delle migranti e l’Italia. Dalle 15 interviste raccolte attraverso una ricerca sul campo intorno al lavoro domestico delle migranti eritree in Italia, condotta a Roma tra il 2007 e il 2008, la dimensione postcoloniale emerge sia come un’ambivalenza intrinseca alla rappresentazione coloniale, sia come uno spazio di subalternità all’egemonia del colonizzatore sia, infine, come luogo di resistenza e di risignificazione.
La tesi di fondo sostenuta dall’autrice è che le eredità del colonialismo “hanno giocato un ruolo fondamentale nel controllo, nella etnicizzazione e nella discriminazione delle donne migranti nell’Italia contemporanea” (p. 26).
L’analisi di Marchetti costituisce un tentativo sempre più necessario di far dialogare diversi approcci teorici con le esperienze migratorie concrete e con le contraddizioni che le attraversano, prima tra tutte quella del passato coloniale. L’aspetto più interessante che ne emerge è però il rapporto paradossale tra esperienza coloniale ed esperienza migratoria, dove la prima non riesce a spiegare interamente la seconda senza tenerla in trappola.
L’esperienza coloniale, e la dimensione postcoloniale che l’accompagna, sembrano infatti oscurare quell’elemento fondamentale dell’esperienza delle migranti che è il loro essere prima di tutto donne, coinvolte dentro a una divisione sessuale del lavoro, inserite in un mercato del lavoro segregante che investe tutte le donne e crea gerarchie e asimmetrie di potere tra di loro, vale a dire nuove relazioni e nuove esperienze.
Dare senso a queste esperienze significa pensare alla dimensione paradossale della cittadinanza che le migranti hanno di nuovo “infiammato” e che, oltre l’ambiguità della postcolonialità, può rappresentare un orizzonte di ripensamento dei femminismi e delle lotte. E questo è tanto più vero in un momento in cui, a dispetto della tanto invocata femminilizzazione del lavoro, la divisione sessuale del lavoro, seppure attraversata da nuove linee di frattura e dispiegata in una dimensione transnazionale, è ancora estremamente presente. La contraddizione feconda, lo “stretto spiraglio” dentro cui guardare potrebbe essere allora l’esperienza delle migranti come esperienza da un lato imbrigliata e dall’altro potente, in grado di indagare un nuovo orizzonte simbolico per le donne mettendo continuamente in crisi l’ordine che lo precede. Questo orizzonte di cambiamento non è dato qui e ora, ma va continuamente creato.
Il pregevole tentativo di Marchetti di far interagire la dimensione postcoloniale con la questione del lavoro migrante rimane un terreno in larga parte da esplorare. Se le pratiche coloniali si propagano sui “soggetti postcoloniali”, la categoria di lavoro domestico dovrebbe applicarsi loro in modo differente rispetto a coloro che non provengono da esperienze coloniali. Tuttavia, nel volume non emerge sempre in modo chiaro l’unicità della esperienza coloniale e le sue ripercussioni dirette nel rapporto con il mercato del lavoro, con lo sfruttamento e con la precarietà a cui tutti i migranti, e le donne in modo specifico, sono esposti. Forse non a caso nessuna delle eritree intervistate menziona il rapporto di madamato che, come l’autrice ricorda, è “di importanza cruciale nella rappresentazione attuale delle donne eritree” (p. 60).
A fronte di una ricca analisi sociologica e di un apparato teorico raffinato, resta così da indagare come il capitale culturale postcoloniale determini in una certa misura identità migratorie più o meno definite. Questa ambiguità conduce i “soggetti postcoloniali” che migrano nella condizione di non poter “cambiare radicalmente la propria posizione all’interno dell’ordine patriarcale e postcoloniale” (p. 53). Questo capitale culturale femminile sembra diventare un’identità vischiosa e permanente, un’ipoteca assoluta, dalla quale non sembra esserci via di fuga, impermeabile a esperienze di rottura, di soggettivazione e di conflitto. La “personalità accudente”, a un tempo risorsa culturale per la migrazione e spazio di subalternità, avrebbe come unico orizzonte di esperienza tattiche o strategie di resistenza individuale di tipo peraltro non socialmente trasformativo, perché interne alle contraddizioni proprie dell’incorporazione dell’habitus, quell’«Io incarnato» che, nella teoria di Bourdieu, indica un processo storico e culturale specifico che informa e sottende i comportamenti individuali e collettivi.
“La formazione della figurazione della ‘lavoratrice domestica postcoloniale’ è determinata da vari elementi, tutti caratterizzati dalla continuità del tempo prima e dopo la colonizzazione con il tempo prima e dopo la migrazione” (p. 157). La continuità tra colonizzazione e migrazione fa della postcolonialità “una relazione a due facce tra colonizzati e colonizzatori, in bilico tra riconoscimento positivo e legame soffocante” (p. 156). La dicotomia, declinata al femminile nel lavoro domestico e di cura, tra colonizzatrice e colonizzata sembra così riprodursi all’infinito, instabile perché permeabile a negoziazioni ma anche insuperabile proprio perché continua.
Le migrazioni delle donne, d’altro canto, contengono anche un percorso soggettivo legato al presente e a una prospettiva di rovesciamento del futuro, un tentativo di sconfinamento da un orizzonte dato. L’esperienza delle donne migranti costituisce anche una rottura col passato, che permette di rimettere in gioco trasformazioni continue. Le migranti stanno al centro di una contraddizione per cui, mentre sono protagoniste di una doppia precarietà, destabilizzano le identità e i ruoli assegnati, attraversano i confini della cittadinanza. L’orizzonte di questa contraddizione investe la cittadinanza come categoria e complica le dicotomie e i rapporti di potere. Il rapporto con il passato coloniale, ma anche con il presente della migrazione, si complica e lascia aperte molte questioni. Una tra queste è proprio il dilemma di un orizzonte trasformativo in bilico tra spazi di libertà individuali e spazi politici collettivi. Le migrazioni delle donne non sembrano riducibili alla postcolonialità, poiché continuano a costituire un laboratorio, seppur controverso, di esperienze e di trasformazioni che non lascia intatta alcuna identità definita, rovesciando le eredità culturali e scompaginando i ruoli patriarcali, ma soprattutto apre nuove questioni non solo per le migranti, ma per le donne e per la politica delle donne in generale.