di VALENTINA LONGO, Madrid
Con 5 milioni di persone disoccupate, il 23% della popolazione attiva, la Spagna è il paese con il più alto tasso di disoccupazione nell’Unione Europea. In Spagna vi sono fermento e grandi aspettative, ma anche un clima di paura che attanaglia molti lavoratori, per lo sciopero generale convocato per il 29 di marzo contro la riforma del lavoro approvata recentemente. Molti dubitano che la riforma riesca a raggiungere l’obiettivo di creare posti di lavoro e diminuire così il tasso di disoccupazione. La popolazione spagnola l’aveva già imparato con le misure adottate dal precedente governo socialista di José Zapatero: queste non sono servite per uscire dal pantano della disoccupazione o di lavori estremamente precari, così come non serviranno le misure adottate dal governo di Mariano Rajoy (Partito Popolare, attuale primo ministro) per invertire la tendenza. L’ultimo capitolo delle modifiche rende il lavoro ancora più flessibile, assottigliando ulteriormente le tutele precedentemente garantite, e inasprisce la tendenza già nota all’individualizzazione della contrattazione così come sancisce l’indebolimento del ruolo dei sindacati come soggetti collettivi di contrattazione.
Sembra una corsa, suicida almeno per il 99%, verso la creazione di un mercato del lavoro completamente supino alle volontà delle imprese, dove lo spazio per la negoziazione da parte della classe lavoratrice di salari, orari, e in generale delle condizioni di lavoro, viene mutilato a colpi di accetta. La nuova riforma del mercato del lavoro concede alle imprese, che sono solo una delle parti in causa, il potere quasi esclusivo di decidere le condizioni di lavoro come fossero un giudice supremo al sopra delle parti. Le imprese avranno il potere di decidere in qualsiasi momento il salario, la durata della giornata lavorativa e le funzioni del proprio personale, togliendo significato ai contratti collettivi. D’altra parte la riforma tace sui benefici che avranno le imprese grazie alla diminuzione di salari. I licenziamenti saranno molto meno costosi e più semplici.
Lo sciopero di giovedì si articolerà su tre grandi nodi che coinvolgono varie sfere della vita sociale e che presi congiuntamente dovrebbero bloccare l’intero paese. In primo luogo lo sciopero del lavoro salariato in tutte le sue possibili declinazioni, in secondo lo sciopero dei consumi e infine lo sciopero del lavoro di cura (gratuito o salariato che sia). Con lo slogan: “Oggi non pulisco, oggi non cucino, oggi non mi prendo cura di nessuno. 29 Marzo, grembiuli in piazza!”, collettivi femministi e gruppi di donne invitano tutte le lavoratrici che svolgono mansioni di cura – la quasi totalità donne – a scendere in piazza per rendere visibile il lavoro non riconosciuto e spesso non pagato che si svolge tra le mura domestiche. Lavoro che è alla base della riproduzione umana e che si dà per scontato quando non è addirittura banalizzato.
Si tratta di vedere la crisi – e le riforme che stanno decurtando i diritti di lavoratrici e lavoratori, ma anche la sanità pubblica, l’educazione, le pensioni – nei suoi elementi meno visibili. La logica dell’accumulazione capitalistica permea oramai quell’insieme di attività che articolano il vivere sociale. La logica capitalista punta sulle attività più redditizie e lascia al margine quelle il cui rendimento è difficilmente calcolabile o considerato un costo. Come sottolinea Monserrat Galceran[1], i salari dei lavoratori costituiscono dei costi per le imprese e vanno ridotti; allo stesso tempo però il lavoro vivo è vitale per le stesse imprese, e occorre fare in modo che sia sempre disponibile e meno costoso possibile. Torniamo, come un disco incantato, al sogno capitalista delle fabbriche senza operai o con operai che consumano senza però ammalarsi, né invecchiare, né riprodursi. E magari senza disporre di un salario.
Questi i principali punti della riforma approvata:
# Quanti sono licenziati illegittimamente hanno diritto a un indennizzo pari a 33 giorni all’anno per un massimo di 24 mensilità. In precedenza, venivano concessi invece 45 giorni fino a un massimo di tre anni e mezzo. L’indennizzo si riduce così del 42% e il licenziamento è meno costoso per le imprese.
# Viene introdotto un “contratto Rajoy”: si tratta di un (finto) contratto a tempo indeterminato di “appoggio agli imprenditori” che permette il facile licenziamento e senza alcun costo per le imprese fino a 50 dipendenti (il 99,23%) durante il primo anno. Se il lavoratore cambia mansione all’interno della stessa azienda e quindi stipula un nuovo contratto, il computo riparte da zero.
# Vengono ampliati a vantaggio delle imprese i criteri per il licenziamento per giusta causa: nel caso in cui l’impresa dichiari che ha subito una flessione nelle entrate o nelle vendite durante tre trimestri consecutivi o che si prevedano perdite, potrà licenziare per cause oggettive di carattere economico.
# Il settore pubblico viene minato alla radice: nel caso di deficit di bilancio le imprese pubbliche possono ricorrere agli Ere (Expedientes de Regulación de Empleo[2]) e a licenziamenti di massa giustificati.
# Gli Ere, e i conseguenti licenziamenti collettivi, potranno essere adottati senza autorizzazione amministrativa: le imprese potranno così estinguere contratti con indennizzi di 20 giorni per ogni anno lavorato; prima della riforma era necessario ottenere un’autorizzazione che, in caso di disaccordo tra le parti, veniva rifiutata nel 95% dei casi. L’imprenditore doveva così negoziare con i rappresentanti dei lavoratori e quindi le indennità offerte aumentavano notevolmente.
# Gli accordi aziendali hanno la prevalenza su quelli di ambito superiore, come i contratti collettivi nazionali. Gli accordi aziendali potrebbero quindi adottare condizioni inferiori rispetto a quelli di settore per quanto riguarda sia il salario sia l’orario. Inoltre, per ragioni di competitività e senza bisogno di alcun accordo, l’imprenditore può unilateralmente abbassare il salario, l’orario e il sistema per calcolare la produttività.
# Gli accordi avranno una durata di due anni terminati i quali, in mancanza di rinnovo, perderanno validità e quindi decadranno gli accordi raggiunti durante la contrattazione collettiva in termini di salario e altri diritti.
# Si potrà licenziare il lavoratore che accumula il 20% di assenze – anche giustificate per esempio per malattia – per un periodo di due mesi, o il 25% delle giornate lavorative per 4 mesi all’interno di un periodo di 12 mesi; nei fatti con 20 giorni di malattia in un anno si può essere licenziati per giustificato motivo.
# Le lavoratrici e i lavoratori che stanno ricevendo la prestazione di disoccupazione potranno essere chiamati a svolgere lavori di interesse generale a beneficio della comunità. Questo risponde alla logica che il lavoratore deve vivere con senso di colpa il suo stato di disoccupazione.
# Le agenzie di lavoro temporaneo sono autorizzate a operare come agenzie di collocamento; fino a ora queste potevano mettere a disposizione di una terza impresa, e solo con carattere temporaneo, lavoratrici e lavoratori precedentemente contrattate dalla stessa agenzia. Ora il servizio pubblico di impiego (SEPE) può sub-contrattare la ricerca di lavoro alle agenzie private. Si tratta chiaramente dello svuotamento e della privatizzazione del servizio pubblico.
# Eliminazione delle agevolazioni di cui godevano gli imprenditori in termini di previdenza sociale per le donne con contratto a tempo indeterminato che tornano al lavoro dopo aver usufruito del congedo di maternità. In questo modo la maternità torna – ma sarebbe meglio dire che continua – a essere una giustificazione per non assumere donne.
# Viene modificato il contratto di formazione lavoro (Cfl) con formazione interna all’impresa senza limitazioni fino ai 30-33 anni in caso di attività lavorative differenti. La retribuzione per quanti hanno Cfl è di 481,05 € mensili. Prima della riforma questo contratto aveva un limite temporale di 3 anni, mentre ora non ci saranno limiti. Si apre uno scenario in cui una lavoratrice può passare da un contratto a un altro dai 16 ai 33 anni, con un salario che equivale al 75% del Salario Minimo Interprofessionale.
Numerosi commentatori sostengono che la riforma costituisca il maggior taglio ai diritti dei lavoratori che si sia visto in Spagna dal 1980, anno in cui è stato sottoscritto lo Statuto dei Lavoratori. Sicuramente i principali sindacati (CCOO, Comisiones Obreras e UGT, Unión General de trabajadores) hanno dato vita a un modello di concertazione che ha facilitato il deterioramento delle condizioni di molte lavoratrici e lavoratori, così come non sembrano in grado di rappresentare molte delle eterogenee figure lavorative emergenti. Ciononostante, la speranza è che lo sciopero convocato per domani sia una marea che blocchi il paese e sia solo una tappa delle numerosi mobilitazioni che scalderanno la primavera spagnola.
[1] Galceran M. (2012), “La reforma laboral apunta al blanco equivocado”, articolo pubblicato nel sito: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=145564 , consultato il 22/03/2012.
[2] L'”Expediente de Regulación de Empleo” (ERE) è il nome di un procedimento previsto dalla legge spagnola che regola il rapporto di lavoro e la sua cessazione. Fra le altre cose, permette alle ditte in difficoltà di effettuare licenziamenti collettivi, permettendo alle imprese di ricevere sussidi. Si tratta di procedimenti a cui le imprese spagnole stanno facendo largo ricorso.