di ENRICA RIGO e MAURIZIO RICCIARDI
dal “Manifesto” dell’11 febbraio 2012
Non molto tempo fa, qualcuno ha affermato che Marchionne stava facendo la “lotta di classe”. Parafrasando Clausewitz si potrebbe osservare che “la politica non è altro che la continuazione della lotta di classe con altri mezzi”. Non si può certo aver paura di sbagliare sostenendo che Monti, Fornero, Cancellieri e addirittura lo sbiadito ministro Profumo siano il “braccio politico” di questa lotta. Il problema è che in questo rovesciamento delle parti, per cui è il capitale (finanziario e non) a fare a lotta di classe, manca il nemico. Non certo perché non si diano più le condizioni di subalternità e sfruttamento del lavoro, ma perché l’orizzonte culturale attraverso il quale il “nemico di classe” veniva identificato è svanito. Fiaccato dai falsi miti che ci sono stati propinati per anni. Quello dell’“essersi fatti da soli” ne è un esempio, così come quello della meritocrazia.
Quale mobilità sociale – implicita, pur se rimossa, nell’idea di “essersi fatti da soli” – è rappresentata in Italia dalla confederazione degli industriali, nella cui organizzazione dei “giovani” imprenditori si entra a far parte per aver ereditato l’industria di famiglia? O ancora, di quale meritocrazia sarebbero espressione Michel Martone,o lo stesso Marchionne?
In Italia, vi sono stati anni (non molti purtroppo) in cui nelle università vi erano, insieme agli altri, i figli degli operai. Vi è stata una generazione (o forse più d’una) per la quale “mobilità sociale” ha significato poter rivendicare con orgoglio di essere la prima o il primo laureato o diplomato in famiglia. Ma questo non ha nulla a che fare con “l’essersi fatti da soli”. È stato fatto dalla scuola pubblica, dall’università pubblica.
Sulla funzione che altrimenti l’istruzione ha anche nei sistemi democratici varrebbe la pena rileggersi le pagine di Pierre Bourdieu che mostrano come la monopolizzazione del capitale culturale è funzionale alla costruzione di gerarchie invalicabili, alla istituzionalizzazione di modi di dominazione che pretendono che i dominati riconoscano come giusta la propria subordinazione.
Certo, sembra difficile immaginare di trovare i volumi di Bourdieu nella biblioteca privata di chi accusa gli studenti fuori corso (lavoratori?) di essere degli “sfigati” o i precari che non riescono a pagarsi l’affitto dei “cocchi di mamma”. Sono probabilmente spariti anche dalle biblioteche di molti “progressisti” di sinistra. Non è raro, infatti, trovare in giornali del centro-sinistra le storie di successo di “giovani ricercatori meritevoli” che sono riusciti ad affermarsi “nonostante tutto”, magari all’estero, sia pure utilizzate per denunciare l’inadeguatezza del sistema italiano nel comprenderne il talento. Merito e talento vengono trattati come qualità “naturali”, legittimando esplicitamente la meritocrazia come capacità del sistema di saper riconoscere e premiare nella giusta misura chi è stato baciato dalla sorte con tali doti.
Ma se bisogna riconoscere una ricchezza all’istruzione pubblica italiana, questa è proprio la sua inclusività. Merito e eccellenza non sono doti “naturali”, ma il prodotto di un sistema che consente a Franti e Garrone di avere Derossi come compagno di banco (e si spera che almeno il libro Cuore sia stato letto da Monti a Martone). Nell’alimentare i falsi miti, il governo dei professori sembravoler realizzarela terrificante utopia negativa descritta da Michael Dunlop Young nel suo The Rise of Meritocracy, dove sono i secchioni a governare il mondo, in quanto ultima e più perfetta espressione di un mondo diviso prima in caste e poi in classi. È questo l’unico significato che bisogna tornare ad attribuire al termine meritocrazia. Ed era anche quello che gli attribuiva il vecchio laburista Young, tranne dover poi registrare con rammarico che il New Labour di Tony Blair la considerava un valore positivo.
Le esternazioni di Martone non sono gravi perché urtano la sensibilità di qualcuno. I passaggi politicamente eloquenti, quasi ignorati dalla stampa, sono quelli dove il sottosegretario loda i giovani figli di immigrati che scelgono gli istituti tecnici invece dei licei. Ovvero, che scelgono di “stare al proprio posto”. Monti e Cancellieri sono ben consapevoli che il desiderio di un “posto fisso” può, in realtà, celare l’insidiosa aspirazione a uscire dalla subalternità a cui il precariato costringe in quanto condizione di vita. Il “posto fisso” contempla l’insidia del rifiuto e dell’indisponibilità al lavoro a ogni costo.
Per risponderealla lotta di classe altrui, se proprio non vogliamo agire come comunisti (per molti ormai fuori moda), sarebbe almeno il caso di far appello alle coscienze dei democratici e dei liberali. L’uguaglianza e la libertà non sono fruibili come privilegi né come storie di un successo individuale.
Ma forse rimane un ultimo consiglio di lettura da dare ai professori e ai loro portaborse. Vi è un passaggio, nell’autobiografia di Malcom X, nel quale è descritta una conversazione tra il giovane Malcom e un suo professore di liceo. Interrogato su che lavoro vorrà fare, Malcom risponde senza rifletterci che vuole diventare avvocato. Il prof. Ostrowski, sorpreso, paterno e senza cattive intenzioni, lo esorta a essere realista. Gli spiega che “per il fatto di essere un negro” è meglio che pensi di fare il falegname. Certamente è in quel momento che il giovane Malcom diviene consapevole di cosa avrebbe fatto da grande!