Torniamo a discutere di reddito, provando a dare alcune risposte e facendoci contemporaneamente altre domande. Come abbiamo chiaramente detto, troviamo interessante e intelligente la proposta di un reddito incondizionato e individuale. La troviamo politicamente rilevante per almeno due motivi. In primo luogo è una proposta che ha il coraggio e il realismo di assumere come data la precarizzazione del lavoro. Di conseguenza invece di difendere solamente i meccanismi della contrattazione collettiva, di pretendere il ritorno alle garanzie passate, fa della frammentazione, dell’individualizzazione del lavoro un potenziale punto di forza. Il reddito come campo di lotta collettiva fa sì che le precarie e i precari si presentino in massa e non come frammenti di un lavoro che deve essere costantemente e faticosamente ricomposto in una figura unitaria. A noi però interessano anche le contraddizioni che questo modo di impostare la questione può aprire. Ne segnaliamo due particolarmente indicative. Sappiamo che l’esito di un reddito individualizzato può anche essere che molte donne rimangono a casa con il loro reddito, mentre il compagno o marito lavora con il salario più vantaggioso. Il lavoro non è certamente un mezzo di emancipazione, ma stare a casa lo è anche meno. Allo stesso tempo però sappiamo che quello stesso reddito può rappresentare una possibilità potenzialmente assai forte di individualizzazione, capace di creare enormi tensioni all’interno della divisione sessuale del lavoro e del patriarcalismo contemporaneo. È poi legittimo avere fondati dubbi che, nonostante le migliori intenzioni, all’interno di questa Italia e di questa Europa un simile reddito venga riconosciuto ai migranti, se non all’interno di una gerarchia del tempo di soggiorno, della provenienza, degli accordi internazionali e di altri parametri vessatori. Allo stesso tempo, tuttavia, esso porrebbe la questione dei migranti come individui paradossalmente uguali, cioè in un modo in cui la questione non viene mai posta, se non sulla soglia minima e spesso deprimente dei diritti umani. Poiché ci interessa ragionare dentro a questo tipo di contraddizioni, pensiamo che il reddito incondizionato e individuale ne possa aprire molte, se non viene inteso solamente come una sorta di proposta sindacale universale. Sappiamo che c’è una distanza enorme tra questa impostazione e il mantra che sale sempre più forte e indistinto. Ciò nonostante, proprio perché questa battaglia è politica, non si deciderà dimostrando di avere l’impianto teorico più coerente e nemmeno facendo i calcoli più affidabili. Si tratta invece di far valere contro tutte le resistenze che il reddito di cui parliamo è più conveniente rispetto ai diversi ammortizzatori sociali con i nomi più differenti. Più conveniente significa che è in grado di incidere più rapidamente sulla precarietà, che offre maggiori margini di libertà dal lavoro, che trasforma i rapporti di potere nel lavoro.
Come abbiamo detto non intendiamo contrapporre salario e reddito, ancor meno se si tratta dei loro minimi. Né per i diritti, né per il salario, né per il reddito ci interessa andare al minimo. Proprio per questo la definizione di reddito incondizionato e individuale ci pare più che sufficiente. Parlare di salario non è stabilire un’alternativa, ma partire da un fatto. E da un rapporto di potere. È la condizione dei precari a essere determinata quotidianamente dalla miseria del salario. E ciò vale nelle vicende italiane, in quelle europee e su scala globale. O il reddito punta a modificare queste condizioni, diventando una richiesta pressante dei precari che dipendono da un salario, oppure il suo significato politico sfugge in continuazione, rischiando appunto di confondersi con quello di un ammortizzatore sociale più o meno buono. Il progetto pilota che dal 2008 al 2009 in Namibia ha riconosciuto un reddito di base in un’area limitata era sovvenzionato in maniera talmente eterogenea da non essere confrontabile con quanto stiamo discutendo. Si trattava di un sussidio, ben al di sotto della soglia di povertà, che, anche per le condizioni materiali in cui si inseriva, non aveva niente a che fare con una diversa distribuzione tra salari, rendite e profitti. Non si tratta dei limiti di programmi meritevoli come questo o la Bolsa Familia in Brasile, che è un finanziamento allo studio legato al numero di figli o alla povertà estrema. Non c’è nessuna obiezione possibile se in Namibia, in Brasile o in Europa poveri e precari ricevono finanziamenti: avere soldi è ovunque meglio che non averne. Si tratta però per noi del piano politico che la lotta per il reddito vuole imporre.
Il punto di vista precario, non solo quello sul reddito, deve articolarsi costantemente a partire dal punto di vista delle precarie e dei precari nelle loro lotte quotidiane. La distinzione tra salario e reddito permane, perché, se non è realistico pensare a una retribuzione gestita solo amministrativamente, non si capisce nemmeno cosa ci si guadagni a fare del reddito il nome contemporaneo del salario. Non si tratta quindi solo di una distinzione analitica, ma soprattutto di una distinzione da agire politicamente. Nello spazio che rimane aperto tra salario e reddito si apre la possibilità concreta di forzare entrambi contro la costituzione attuale dei rapporti di potere. C’è tutta una seria di posizioni che andrebbe ripensata. Il salario non ha mai remunerato o risarcito tutto il lavoro vivo e tanto meno è mai stato la misura del valore. Legittimare la richiesta del reddito dicendo che ogni momento della vita è produzione sociale ci pare un argomento che finisce per concedere al lavoro una vittoria totale e incontrastata: non solo non lavoriamo sempre, ma nemmeno vogliamo lavorare sempre. Proprio per questo il reddito deve intervenire contro le mille e oppressive forme del salario per dimostrare che non tutto il tempo può essere remunerato in quanto lavoro. Il rapporto politico di potere nell’epoca della precarietà impone l’estensione della disponibilità al lavoro perché il salario, quando c’è, praticamente non è mai sufficiente. In questa situazione il reddito non è la forma contemporanea del salario, ma un mezzo per rovesciare quel rapporto di potere. È vero che la lotta per il reddito rivela molte similitudini con quelle per affermare il salario come variabile indipendente, perché allo stesso modo mira ad affermare un’autonomia soggettiva che la precarietà vuole negare in tutti i modi. Come quella lotta esso apre soprattutto contraddizioni. Una l’abbiamo segnalata chiedendoci: quanto salario paga un reddito? Tutto il reddito possibile, infatti, non abolirà il lavoro salariato e si collocherà comunque in un mondo di merci, prodotte spesso al di fuori non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa. In che rapporto stiamo con i precari globali che dipendono dalla coazione del salario e che a essa si sottraggono spostandosi come migranti? Il reddito ottenuto in Italia e in Europa, quanto salario pagherà su scala globale? Ancora una domanda e poche risposte definitive. Abbiamo solo contraddizioni da offrire.