martedì , 5 Novembre 2024

Costellazione precaria: riflessioni minime sul reddito garantito

Costellazione precariaLa richiesta di un reddito minimo garantito giunge ormai come un mantra ossessivo da ogni parte. Persino la Cinica piangente sarebbe a suo modo favorevole. Sindacati e sindacalisti, che fino a ieri hanno difeso la centralità esclusiva del salario contrattato, folgorati sulla via del reddito ora si lanciano in spericolati progetti complessivi, stringono alleanze, riformulano discorsi, per sostenere il nuovo obiettivo: uniti per il reddito. Anche a fronte di un problema davvero globale come quello del debito, si dichiara che il riconoscimento di un reddito minimo garantito sarebbe una risposta decisiva. E non si capisce se questo reddito dovrebbe esistere allo stesso modo in Europa e negli Stati uniti, in Africa come in Asia. Il sospetto più che legittimo è che in questo modo il debito sia affrontato come una faccenda strettamente europea, anzi dei cittadini europei, e secondo gli schemi traballanti dello Stato nazionale, oppure auspicando più forti e democratiche istituzioni politiche e bancarie a livello europeo. Su un piano diverso, incurante di come si legifera nell’Unione europea e delle differenze tra i diversi paesi, qualcuno pensa invece a una legge di petizione popolare europea sul reddito di base con l’obiettivo di raccogliere un milione di firme. D’altronde, visto che si stanno eroicamente regolando i conti con la grande finanza grazie alla tobin tax, perché non risolvere anche il grave problema dell’incombente povertà per via legislativa? Insomma, al di là delle differenti denominazioni e della quantità di soldi prevista, tutti vogliono un reddito minimo. In mezzo a questa folla di proposte si deve quanto meno notare che c’è una bella differenza tra il reddito garantito inteso come semplice ammortizzatore sociale, ovvero come legittimazione e consolidamento dei rapporti di forza e di potere sul mercato del lavoro, e una quota di prodotto sociale che serva a sottrarsi alle coazioni del lavoro e del suo mercato. Nel momento in cui tutti fanno riferimento al reddito minimo garantito, questa alternativa non può essere data per scontata, non si può cioè semplicemente risolvere dicendo che noi abbiamo una concezione del reddito garantito diversa e opposta a quella della Cinica piangente. Visto che si parla della stessa cosa, è bene pensarci.

Il primo problema che bisogna porsi è che cosa significa minimo in rapporto al reddito. Le proposte più intelligenti, che prevedono un reddito individuale minimo garantito decisamente interessante, sono certamente lontane da quelle che, sommando un reddito minimo e un salario minimo, finirebbero per produrre sempre e comunque la miseria. Non si tratta perciò di tornare a discutere l’alternativa scolastica tra reddito minimo e salario minimo, perché finché questa alternativa viene mantenuta non viene colta quella che chiameremo la costellazione precaria in cui la rivendicazione del reddito deve essere inserita: il reddito non può essere l’unica soluzione alla condizione precaria.

Lottare per un reddito minimo senza contemporaneamente attraversare l’oscuro e accidentato terreno della lotta sul salario significa assumersi il rischio che il reddito serva – come vorrebbe la Cinica piangente – a far accettare qualsiasi salario. La valenza politica del reddito è invece quella di affermare che non tutto il salario è il frutto di un contratto (indeterminato o determinato o unico che sia, con o senza la protezione dell’articolo 18), ovvero che esiste una forza capace di imporre una quota sociale di salario indipendente dal rapporto di lavoro. Bisogna sempre tuttavia riconoscere che, proprio perché si tratta di un rapporto non meramente economico ma immediatamente politico, cioè di potere, salario reddito e welfare formano un’unica e inscindibile costellazione. Ogni rivendicazione deve muovere dallo stato di fatto della precarietà, cioè della trasformazione globale del rapporto tra salario e lavoro. È la forma precaria di questo rapporto che stabilisce un campo di tensione e quindi di lotte tra reddito, salario e welfare. Questa è per noi la costellazione precaria.

Nessun polo di questa costellazione può essere separato dagli altri, così come nessuno di essi da solo sostituisce mai gli altri. Immaginare che il reddito possa essere un modo per sostituire un salario assente, oppure che sia la forma esclusiva di un ipotetico nuovo welfare, è semplicemente illusorio. Solo chi è in grado di connettere lotte e soggetti che, non solo in Italia, si stanno muovendo all’interno della costellazione precaria riesce a dare un significato pienamente politico anche alla battaglia per il reddito. La lotta sul salario non è lo scontro crepuscolare tra l’operaio di fabbrica e il padrone. Essa è condotta quotidianamente da ogni lavoratore e lavoratrice – dall’operaio collettivo – che non vuole e non può accettare di regalare il proprio tempo al padrone di turno. La lotta sul salario non è il segno di un perverso attaccamento al lavoro, ma l’esito obbligato della consapevolezza di migliaia di donne e di uomini del valore del proprio tempo e della rabbia quotidiana nel vedere sprecate e svalorizzate le proprie capacità. Il problema è allora investire il terreno globale della produzione sociale, sia essa materiale o immateriale, operaia o educativa, che implichi la fabbricazione di una merce solida o liquida, oppure che fornisca i servizi (all’impresa o alla persona) essenziali affinché l’azienda o la cooperativa materializzi, incrementandoli continuamente, i suoi profitti. Se il reddito serve a comprare una qualsiasi merce globale, un Iphone fabbricato in Cina o un libro spedito da qualche magazzino Amazon nel sud degli USA o nel piacentino, allora la domanda è: quanto salario paga un reddito?

Allo stesso modo, il terzo elemento della nostra lotta complessiva deve essere collocato nel welfare e per il welfare, ovvero per la quantità e la qualità di quei servizi collettivi che non vogliamo che siano venduti come merci a prezzo di mercato. Su questo terreno la questione del reddito impone una radicalità di riflessione tale da consentire la chiarezza delle posizioni. Sul terreno del welfare, infatti, il reddito rischia di confondersi con una sempre più vasta monetizzazione dei servizi sociali, sanitari, educativi. I salari delle donne – migranti e non – che prestano servizi domestici e di cura sono già spesso finanziati tramite sussidi pubblici alle famiglie, che diventano così un altro puntello istituzionale della divisione sessuale del lavoro. Non ci interessa un reddito garantito che serva a pagare quei servizi che oggi vengono privatizzati, esternalizzati, ma soprattutto, appunto, monetizzati. Ha senso chiedere un welfare solamente monetizzato? Anche su questo terreno si pone il problema della connessione tra la necessità dei servizi collettivi e le lotte di chi quei servizi li fornisce con un lavoro sempre più precario e un salario sempre più compresso. Se il welfare diventa sempre più una leva per la precarizzazione, una nuova fabbrica della precarietà, è necessario pensare e organizzare un discorso all’altezza di questa trasformazione che, ancora una volta, investe il rapporto tra reddito e salario nel tentativo disperato di ricollocare costantemente i lavoratori dei servizi e coloro che ne usufruiscono in una gerarchia sociale precisa e determinata.

Ogni lotta all’interno di questa costellazione precaria impone la costante definizione dei soggetti che la attraversano. È perciò indispensabile evitare confusioni e scorciatoie. Essere precari non è il criterio astratto per stabilire una nuova forma di universalità sociale: il precario non è il nuovo cittadino al quale bisogna riconoscere qualche diritto fino a ora sfortunatamente ignorato. Il reddito di base garantito non si ottiene riorganizzando i criteri contabili, ma riconoscendolo nella costellazione precaria di cui è parte, senza immaginare soggetti precostituiti al quale esso andrebbe corrisposto. Saggiamente si è passati dal reddito universale di cittadinanza al reddito minimo garantito. Questa modificazione lessicale deve però essere davvero consapevole che non esistono “cittadini produttori” ai quali spetta di diritto un reddito. Non è solo che un reddito, più o meno alto, di base, di cittadinanza o universale, finanche europeo, non ci emanciperà dal lavoro, piuttosto rischierà costantemente di favorire la sua precarizzazione. Si può fare riferimento ad altre parole come mobilità o flessibilità, si può fare riferimento alla flexsecurity oppure al suo rovesciamento, ma rimane il fatto che dentro la crisi la precarietà si mostra per la sua essenza brutale, ovvero brutale abbassamento dei salari e impoverimento che eleva a potenza il ricatto del lavoro costringendo alla massima disponibilità all’impresa.

Per tutti questi motivi noi continuiamo a pensare che i migranti – il pezzo di globalizzazione soggettivamente presente in Italia e in Europa – siano fondamentali nel discorso sulla precarietà. I migranti mettono oggettivamente in costante tensione la costellazione precaria di cui stiamo parlando: difficilmente a loro verrà mai riconosciuto, in Italia come in Europa, un reddito garantito, il loro salario è obbligato dal contratto di soggiorno per lavoro e il loro reddito non è niente altro che un criterio da soddisfare per garantirsi la presenza regolare in Italia, in Europa, ma anche in altre parti del globo; usufruire dei servizi sociali è spesso l’unico modo per sfuggire alla povertà che riservano loro il mercato del lavoro e il razzismo istituzionale. Il luogo in cui i migranti godono di una sicura cittadinanza è la precarietà. Eppure, i migranti mostrano che la precarietà paradossalmente diventa per loro un privilegio, perché il contratto di soggiorno la punisce con il rischio di perdere il permesso di soggiorno e la detenzione amministrativa. Proprio per questo vogliono abbandonarla il più presto possibile. Schiantare la costellazione precaria, impedirle di consolidarsi in una quieta modalità di regolazione al ribasso del rapporto sociale di lavoro, è ciò che precarie, migranti e operai fanno quotidianamente. Connettere i soggetti di questa costante sovversione è il compito che abbiamo davanti.

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