venerdì , 22 Novembre 2024

Fabbriche della precarietà 1.1: Parlando con Piero di welfare precario, sciopero e potere

Welfare precario, lavoro, poterePubblichiamo un lungo dialogo con Piero, operatore sociale e membro del Collettivo operatori sociali di Napoli. Non si tratta evidentemente di un incontro casuale e nemmeno occasionale, poiché da mesi anche noi stiamo lavorando alla costruzione di un percorso con educatrici e operatori sociali. Come abbiamo già fatto, e continueremo a fare, siamo perciò alla ricerca di connessioni politiche attraverso l’inchiesta precaria. Viste le caratteristiche in fondo molto simili di ogni precarizzazione del welfare, visto il modo in cui il welfare è ormai ovunque una fabbrica della precarietà, le intersezioni politiche che emergono da questo dialogo segnalano come sia importante e possibile costruire i percorsi di lotta sulla base di una riflessione condivisa. Troviamo, quindi, molto interessante l’analisi delle possibilità e dei limiti delle forme simboliche di lotta: utilissime quando si tratta di rendere pubblicamente evidente l’esistenza e la condizione di precarie e precari, esse non sembrano però in grado di produrre effetti tangibili in termini di consolidati miglioramenti normativi e salariali. D’altra parte le lotte sul welfare cittadino e contro la «precarietà totale» che produce sono quanto mai esposte all’illusione della territorialità, alla trappola che porta a ricercare la propria controparte solamente nel comune o nelle grandi cooperative, come se non si trattasse invece di processi di così ampio respiro da essere ormai rilevanti su scala europea, oltre che a livello nazionale. La normale atipicità dell’inquadramento degli operatori sociali è stata per molti versi una sorta di laboratorio per sperimentare forme di precarizzazione che sono state poi estese a tutto il lavoro. Come dice Piero, qui è diventato per la prima volta chiaro che il lavoro nasce precario, che non si tratta di difendere diritti acquisiti, ma di lottare per ottenere reddito, salario e servizi contro questa qualità intrinseca del lavoro stesso. Proprio la consapevolezza del fatto che il lavoro non dà in sé alcuna garanzia riporta in primo piano il discorso dello sciopero precario, che dovrebbe essere la pratica qualificante del percorso degli Stati generali della precarietà. Anche a Napoli l’esperienza dello sciopero migrante del primo marzo ha rappresentato un’utile sperimentazione per quello che potrebbe essere in un prossimo futuro lo sciopero precario. È vero che gli operatori sono i lavoratori probabilmente più a contatto con la complessiva precarietà dei migranti. Tuttavia, come hanno mostrato italiani e migranti in occasione dello scorso primo marzo, rispondere al ricatto della precarietà con lo sciopero significa in primo luogo negare che il lavoro sia la necessità assoluta che vieta qualsiasi ribellione. E la stessa possibilità di sperimentazione si riproporrà il prossimo primo marzo. Rispondere al ricatto della precarietà attraverso lo sciopero significa attivare un processo di presa di parola e appunto di ribellione alle condizioni imposte dalla precarietà che può mettere in discussione la placida sicurezza con cui governo e padroni di varia specie e natura la praticano senza dover pagare alcun prezzo. A noi sembra che, assumersi la responsabilità e il rischio della costruzione di questo processo, sia l’unica scommessa che prometta di trasformare la visibilità ottenuta con le azioni simboliche nella pratica costante di uno scontro di potere in grado di togliere spazio alla precarizzazione del lavoro e dell’esistenza.

Da quanto tempo lavori come operatore sociale?

Io lavoro nella cooperazione sociale da 15 anni, per l’esattezza in una cooperativa sociale che si occupa principalmente di immigrazione. Le nostre attività sono rivolte principalmente a minori e a donne vittime di tratta o sfruttamento della prostituzione, donne oggetto di violenza, ma negli anni abbiamo assistito con i nostri interventi varie fasce d’utenza, anche persone dipendenti da sostanze stupefacenti, detenuti, ex-detenuti, minori a rischio, minori di area penale, minori incarcerati. Io personalmente faccio l’orientatore, cioè avvio al mercato del lavoro le persone che seguono i nostri programmi, i nostri progetti. Sono progetti individualizzati per cui si cerca di seguire le persone nella propria interezza e quindi nella complessità dei bisogni che esprimono, e uno dei bisogni principali è il lavoro, per cui la mia attività è trasversale a tutte le fasce di utenza che seguiamo. Più o meno poco dopo il mio ingresso nel mondo del sociale – prima facevo altro – abbiamo dato vita insieme ad altri compagni al collettivo operatori sociali di Napoli, un collettivo autorganizzato, non legato ad alcuna fazione politica né tanto meno legato a qualsiasi sigla sindacale, ufficiale o di base. La nostra storia nasce dalla necessità di dare voce agli operatori sociali, lavoratori “strani”, atipici, atipici non solo nelle forme contrattuali, ma atipici anche nell’immaginario collettivo: il problema è che pochi sanno cosa fanno gli operatori sociali. Quindi noi pensavamo che fosse necessario prendere la parola in prima persona, di cominciare a esporre i nostri bisogni e le nostre esigenze, rompendo un meccanismo di delega che negli anni si era venuto a creare per cui la cooperazione sociale era rappresentata dai vertici delle imprese che si facevano portavoce dei bisogni complessivi di tutti. In realtà non è così, l’impresa è impresa anche se è sociale, vi è una mistificazione rispetto a questo concetto di cooperazione sociale, sul discorso del mercato sociale come alternativo. Mi hanno insegnato ormai da tanto tempo che siamo all’interno di un rapporto sociale e questo rapporto sociale ha meccanismi di mediazione tra razionalità economica e ragione sociale attraverso la forma del mercato, il mercato è il mercato capitalistico, non esistono mercati alternativi e anche il mercato sociale deve sottostare a quelle regole e a quei rapporti che vengono imposti.

Oltre a essere legato alle esigenze del mercato, il welfare ha conosciuto anche un progressivo abbassamento dei salari degli operatori, che ha affiancato forme di precarietà non dissimili da quelle esistenti in altri settori.

In realtà la compressione dei salari è un qualcosa che marcia di pari passo con quella che è la dinamica generale. Negli ultimi 30 anni nel rapporto tra capitale e lavoro vi è stato un progressivo arretramento delle lotte dei lavoratori. C’è stata una forte repressione delle lotte degli anni 60 e 70, c’è stata una repressione delle istanze rivoluzionarie che questo Paese ha espresso fino agli inizi degli anni 80. Dopo c’è stato un riflusso e il capitale ha marciato a pieno regime ed è passato sopra i bisogni dei lavoratori come un rullo compressore e quindi li ha relegati in una situazione minoritaria e di resistenza, oggi addirittura di resistenza passiva rispetto, ad esempio, a forme di espulsione dal mercato del lavoro che non trova più forme di antagonismo e di lotta. In questo quadro ci inseriamo noi che siamo nati precari. Il nostro settore nasce precario dal punto di vista dei lavoratori. Quindi accanto alla compressione dei salari s’inserisce il discorso della “atipicità”(per utilizzare una espressione nobile), ma in realtà si tratta di “precarietà totale” nel rapporto di lavoro, ma anche e soprattutto nella forma di organizzazione del lavoro dell’operatore sociale. Questa minorità dal punto di vista della rappresentazione sociale del nostro lavoro e l’incapacità di formulare delle istanze che fossero prese in maniera collettiva e incisiva rispetto ai bisogni che i lavoratori esprimevano, sono tra le ragioni che ci hanno spinto a dar vita al collettivo operatori sociali. E devo dire che in questi 15 anni di presenza sul territorio abbiamo sviluppato una serie di vertenze e una serie di lotte che ci hanno gratificato per alcuni successi che abbiamo ottenuto.

Tuttavia è anche vero che avete prodotto delle lotte che sono state sviluppate su di un piano simbolico, come l’occupazione del Maschio Angioino, del Comune, etc.. Alla luce di queste iniziative, c’è stata una incisività reale di queste lotte?

Non è cambiato nulla. Voglio dire … l’incisività delle lotte dal punto di vista della rappresentazione, dal punto di vista simbolico, è un dato oggettivo … voglio dire … noi abbiamo occupato, nell’ordine: Palazzo Reale; il Comune di Napoli; il Museo Nazionale Archeologico; il Maschio Angioino, simbolo di Napoli; abbiamo interrotto la prima del teatro San Carlo. Siamo stati tutti i giorni in piazza e ogni giorno vi era un blocco stradale, ogni giorno iniziative di lotta particolari, cioè livelli di conflittualità alti e sconosciuti per ciò che riguarda la nostra città. In realtà questa cosa non ha maturato nell’immediato effetti positivi, cioè non si sono determinati degli spostamenti per ciò che riguarda la situazione del terzo settore a Napoli e in Campania. Per la prima volta, però, i lavoratori sono usciti alla ribalta e i lavoratori sociali sono stati riconosciuti come soggetto. Tuttavia, oltre a marcare una presenza, volevamo ottenere anche qualcosa, farci pagare almeno gli arretrati! Ma soprattutto volevamo porre le basi per un lavoro di prospettiva che in qualche modo fosse conforme rispetto ai nostri bisogni. Purtroppo l’iniziativa ha poi avuto una fase di stallo.

Puoi descriverci meglio la situazione dei lavoratori del welfare a Napoli? Trovi punti di connessione tra l’organizzazione del lavoro nel welfare a Napoli e quella in altre città? L’organizzazione del lavoro nel welfare ha insomma, secondo te, caratteristiche nazionali?

Oggettivamente è una situazione sia dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, sia dal punto di vista delle strutture dell’erogazione dei servizi, che è molto simile a quella di altre città. Ci sono livelli di differenza che sono legati alla qualità, che al centro-nord è maggiore, per esempio. Ci sono anche criteri di allocazione delle risorse diversi. Ma il minimo comune denominatore è determinato dal fatto che esiste un corpo del lavoro precario, che subisce più di altri l’incedere della precarietà e gli effetti della crisi attuale. E questo si riflette negativamente anche sui cittadini a rischio, gli utenti, quindi una situazione che, con tutte le differenze, si ritrova su tutto il piano nazionale. Questa situazione va quindi affrontata sicuramente su di un piano più generale piuttosto che solo con vertenze locali. Ci sono state vertenze a Bologna, Torino, Palermo, Milano, Cosenza, etc. queste vertenze non hanno avuto la capacità di ricomporsi ed esprimere rivendicazioni e una forza su di un piano nazionale. Io credo che la maggior parte delle risorse che abbiamo speso in questi anni sulle vertenze locali … io credo che se le avessimo utilizzate per produrre qualcosa a livello nazionale avremmo fatto qualche passo avanti. Ora non dico che è troppo tardi, ma penso che sia il momento giusto per provare a costruire qualcosa. Esperienze di coordinamento nazionale negli scorsi anni ci sono state, ma le cose non hanno avuto continuità. Anche l’ultima esperienza, nello scorso anno, non ha avuto un seguito. Ora non riesco a dire in poche parole le cause di questo fallimento, ma penso che ci sia anche la necessità di mettere in rete, in correlazione, tutte le fasce del precariato, non solo quelle del singolo settore lavorativo, come è appunto il caso del settore del welfare.

Avete avuto momenti in cui questa esigenza di parlare con altre fasce del precariato vi ha permesso di sviluppare connessioni con altre figure del lavoro, come migranti o operai?

Noi lotte con i migranti e in particolare con gli operatori migranti ne abbiamo fatte tante. Siamo partiti dal fatto che i lavoratori migranti sono colpiti da una precarietà più precaria degli altri, perché la loro permanenza sul territorio è legata al permesso di soggiorno per lavoro. Il contratto di lavoro precario metteva poi ancora più in discussione la loro permanenza sul territorio, e questo è stato motivo di battaglia per noi, quindi abbiamo sviluppato delle rivendicazioni che partivano dalla loro particolare situazione. Ma il riflusso che c’è stato in altre lotte ha colpito anche questo piano specifico. Quello che si sta cominciando a muovere è anche un tentativo di ricomposizione con altri soggetti del lavoro. Nei prossimi giorni ci sarà un’assemblea che coinvolgerà diversi lavoratori della precarietà, operai, operai di fabbriche che stanno per chiudere, piuttosto che disoccupati. Quello che ultimamente ci ha fatto riflettere è la manifestazione del 15 ottobre a Roma, dove in quello spezzone sono confluiti diversi operatori sociali, tra cui quelli napoletani, insieme a tanti altri lavoratori della precarietà, oltre a soggettività politiche. Questa composizione ha dato la dimensione della rabbia, del disagio e della voglia di uscire dalla crisi senza pagarne i costi. Importante per noi è il percorso, poi, degli stati generali della precarietà, che stanno individuando nell’obiettivo finale dello sciopero precario il terreno di ricomposizione delle diverse forme della precarietà. Io credo che questo sia uno dei terreni su cui agire. Infatti, le nostre ultime iniziative sono andate in questa direzione, e la prova sono le iniziative che stiamo conducendo all’interno della campagna del natale precario.

Tuttavia molto spesso per i lavoratori precari, o ancor di più quelli migranti, è molto difficile poter scioperare. Come immaginate e come pensate sia possibile fare lo sciopero precario? Come pensate sia possibile connettere le diverse figure della precarietà?

Prima di tutto penso che lo sciopero precario sia uno slogan, ma credo che noi andiamo invece a proporre uno sciopero contro la precarietà. Per quanto riguarda gli elementi di ricatto … io non credo che non sia possibile scioperare per chi ha un contratto a progetto. Se vuoi scioperare allora scioperi, oppure inventi qualcosa, vai sul luogo di lavoro e non lavori! E ti metti insieme agli altri a lottare. Il problema è sicuramente il ricatto, ma noi dobbiamo rompere questi elementi di ricatto. O prendiamo coscienza che i ricatti sono niente rispetto a quello che ci spetta, rispetto al nulla che ci spetta, una volta che questa cosa entra nelle menti delle persone allora possiamo immaginare tutto. Anche lo sciopero contro la precarietà. Ma è chiaro che è un processo e dobbiamo costruirlo. Se noi riuscissimo a bloccare i servizi, ma bloccarli veramente, non andando a lavorare, fare uno sciopero vero, questo sarebbe l’embrione dello sciopero precario. Assolutamente. E’ l’obiettivo che ci poniamo.

Nel laboratorio per lo sciopero precario di Bologna si è parlato di una doppia precarietà del welfare: Da un lato il welfare precarizza i lavoratori, dall’altro i tagli e la stessa precarizzazione dei lavoratori producono una qualità dell’erogazione dei servizi sempre più al ribasso. Questa considerazione  fa pensare al welfare come una fabbrica della precarietà.

Partirei proprio da questa ultima cosa. Il welfare nasce precario, è la sperimentazione di quello che dal pacchetto Treu fino al collegato lavoro hanno provato a fare per la distruzione di tutti i diritti dei lavoratori acquisiti con anni di lotte. Una delle conseguenze di queste cose è, com’è accaduto qui, che i lavoratori del sociale sono talmente ricattati che sono disposti ad accettare ben 15 mesi di lavoro non pagato. E il ricatto totale è un elemento da scardinare.

Un altro elemento importante nell’organizzazione delle lotte è quello dell’individuazione della controparte. Può capitare di essere assunti da un’agenzia che offre lavoratori per una cooperativa che offre servizi per il comune, facendo diventare difficile individuare il “nemico”. Molto spesso, non cogliendo questa complessità, e per trovare una strada più breve, alcuni hanno individuato come controparte il solo Comune piuttosto che i singoli assessori al welfare.

Due elementi in questa considerazione. Entrambi oggettivi. Il lavoro nasce precario, nasce come laboratorio della precarietà, e in questa precarietà vi è un elevato livello di ricatto e diventa complicata la ricomposizione e non si riesce a farlo anche perché non vi è un luogo fisico del lavoro: non è la fabbrica dove è possibile parlare con gli altri.

Tuttavia anche in fabbrica diventa sempre più difficile far parlare chi è assunto tramite cooperativa o da un’agenzia. Non credi che ci sia stata sia da parte sindacale, sia da parte dei movimenti autorganizzati, un’incapacità di leggere il lavoro al di fuori delle categorie classiche? E in questo non rientra anche la categoria di operatore sociale?

La categoria di operatore sociale significa poco. Quello che è successo all’interno del mercato del lavoro è qualcosa di devastante a livello di parcellizzazione e di scomposizione del mondo del lavoro. E ne paghiamo le conseguenze. La cooperazione sociale è entrata nel mercato come elemento di confusione. La falsa democrazia che c’è nelle cooperative sociali, la falsa comunanza di obiettivi, la falsa comunanza di strategie, in qualche modo tutto questo cerca di sopire delle coscienze che non riescono a vedere che cosa ha significato la dismissione progressiva del welfare pubblico e la sua esternalizzazione. Questi elementi incidono sia su chi lavora nel settore sia su chi fruisce dei servizi. C’è, quindi, un abbassamento della qualità del lavoro, ma anche della qualità dei servizi, per cui i bisogni non sono soddisfatti oppure non sono soddisfatti in base a criteri di qualità dell’erogazione. Poi c’è un elemento oggettivo che invece è molto positivo: la scomposizione del welfare e la sua privatizzazione ha creato un soggetto del lavoro che non è cosciente della sua allocazione e soprattutto non è cosciente della sua grandissima potenzialità perché è un soggetto che immediatamente non può riconoscersi in una vertenza sindacale. Se io vado a fare una vertenza contro la mia cooperativa, faccio un buco nell’acqua perché la mia cooperativa non ha soldi perché il comune non ne ha, perché il ministero non ne ha, etc. io invece sono nato, e quindi opero, a partire da quella che è direttamente l’erogazione della spesa sociale, quindi quello che è un problema politico, di gestione politica delle risorse. Io, quando mi muovo, mi muovo come soggetto politico. Lo sciopero precario è uno sciopero politico, uno sciopero di potere. Perché l’accezione della politica è questa, lotta per il potere. Quando ci sarà questa coscienza il movimento del precariato sarà un movimento di rottura reale e potrebbe anche produrre una trasformazione reale dei rapporti di produzione. Ma credo che siamo lontani da questa fase. Quindi c’è un elemento di lavoro sulle coscienze molto duro e molto difficile da fare per costruire queste cose. Questo discorso è un discorso che facciamo da 11 anni, ma credo che sia ancora valido e attuale perché vuole agire nei luoghi in cui si costruiscono i rapporti di potere.

Tra le esperienze significative nella direzione dello sciopero precario, lo sciopero del lavoro migrante del primo marzo, il primo sciopero indetto senza sindacati, ha messo in evidenza la possibilità di poter produrre forme di lotta alternative. A Bologna, a Brescia, a Torino, gli scioperi sono stati “reali” e hanno visto l’astensione dal lavoro di migliaia di uomini e donne migranti e italiani. Qui avete avuto esperienze simili durante le mobilitazioni del primo marzo? Avete partecipato alla mobilitazione, tenendo presente che tra di voi ci sono operatori migranti?

Gli scioperi ci sono stati anche se hanno espresso il riflesso della grande frammentazione del mondo del lavoro. E gli scioperi ci sono stati nel nostro settore anche se non sono culminati in momenti in cui fosse molto visibile la partecipazione degli operatori. Tuttavia gli scioperi ci sono stati, anche se non di massa. In alcune cooperative l’adesione è stata altissima. Nella mia cooperativa, per esempio, hanno scioperato tutti. Però è anche vero che non ci sono stati momenti pubblici in cui la visibilità di questa lotta sia stata considerata come momento di riflessione e condivisione con lotte esterne. Però gli operatori il primo marzo c’erano e, anche se la nostra visibilità non è stata molto forte, quell’esperienza è un embrione di quello che potrebbe essere lo sciopero precario.

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