In Italia il processo di costruzione dello sciopero precario sembra attraversare una fase di ripensamento e di solitudine. Precarie, migranti e operai sembrano quasi spaventati di fronte alla possibilità enorme che avevano appena scoperto di avere. Il compito che si sono dati nei mesi passati appare solo in controluce all’interno della costruzione di eventi, della ricerca di visibilità mediatica e della lunga rielaborazione del 15 ottobre. Eppure le vicende statunitensi del movimento Occupy mostrano che connessione e critica producono effetti significativi proprio sul fronte dello sciopero precario. La connessione imprevista delle figure del lavoro sociale consente di aggirare e mettere in scacco un’organizzazione del lavoro della quale il sindacato è parte integrante paradossalmente anche quando organizza la lotta per miglioramenti salariali e normativi. Di questa organizzazione del lavoro oggi noi vediamo la riproposizione fuori tempo massimo, ma non per questo meno gravida di futuro, nel modello Marchionne, nel collegato lavoro e nella sempre silenziosamente riconfermata legge Bossi/Fini. Essa però è destinata a trovare il suo nemico fondamentale proprio nella pratica dello sciopero precario. Anche la rappresentazione del lavoro sociale come figura unitaria è parte della sua precarizzazione, perché ne mantiene intatta la frammentazione e impedisce l’accumulazione di forza politica che si potrebbe invece produrre attraverso la connessione delle sue diverse figure. Precarizzare e frammentare sono perciò le parole d’ordine dell’organizzazione del lavoro contemporaneo. Questi sono di conseguenza anche i processi che il movimento Occupy a Oakland e dintorni sta cercando felicemente di contrastare. L’opera di connessione di lavoratori migranti e non è ancora più essenziale negli Stati uniti dove, nonostante sia ormai da decenni un dato costitutivo dell’organizzazione del lavoro, la presenza di forza lavoro migrante in tutti i luoghi di lavoro corrisponde a una gerarchia ferrea e quasi invalicabile in termini di salari e di servizi. Su questo terreno precarizzazione e frammentazione sono la forma di una integrazione socialmente inesistente, ma economicamente low cost. La connessione nuova di precarie, migranti e operai impone perciò la critica pratica delle strutture sindacali esistenti. Spostare sul porto il fronte della precarietà svela gli effetti sociali dell’egemonia del capitale finanziario, mentre mette a nudo la crisi forse definitiva dell’organizzazione contemporanea del lavoro. Lo sciopero precario è uno sciopero politico se mette in discussione i rapporti di forza – ovvero i rapporti politici – che impongono la precarizzazione del lavoro. Lo sciopero precario è tale sia per le figure del lavoro che mette in movimento sia per l’assenza di un modello sindacale certo al quale fare riferimento. La precarietà impone così di ripensare alla radice l’organizzazione sindacale del conflitto di classe. E su questo passaggio inevitabile dovremo tornare sempre più spesso nei prossimi mesi, superando le nostre paure e facendo della nostra riflessione non una pausa, ma una costante pratica collettiva.
Fermare Wall Street sul fronte del porto
Michele Cento
Neanche fosse il miracolo di San Gennaro, il blocco del porto di Oakland è riuscito ancora una volta. Senza però scomodare i santi, il successo di Occupy Oakland è dipeso piuttosto dalla sua capacità di aggregare i vari movimenti Occupy della West Coast e di trasformarli in canali della rabbia sociale che monta nel mondo del lavoro americano. Certo, i numeri della protesta sono stati inferiori a quelli del tutto inattesi dello sciopero generale del 2 novembre, così come le resistenze del sindacato, soprattutto a livello nazionale, hanno indebolito l’iniziativa di Occupy Oakland. Ci sono stati anche momenti di tensione con alcuni autotrasportatori sindacalizzati, che temevano di non poter portare a casa la paga giornaliera, ma i portuali hanno aderito in massa al blocco del porto e lo hanno fatto, sia pure in misura diversa, nelle principali città della West Coast.
Il dato inedito dello sciopero del 12 dicembre è infatti quello di aver rotto la pratica delle azioni isolate, lanciando un’iniziativa coordinata per bloccare i porti della costa occidentale. Numerose le adesioni: oltre ad Oakland, hanno partecipato, tra gli altri, Los Angeles, Seattle, Portland, Houston, San Diego, Vancouver, mentre Denver e New York hanno organizzato iniziative in solidarietà con Oakland. L’obiettivo era rispondere agli sgomberi che hanno colpito uno dietro l’altro i principali Occupy del paese, in seguito a una strategia concertata – in maniera del tutto bipartisan – dalle amministrazioni cittadine Usa. Come era già successo nello sciopero generale del 2 novembre, la difesa delle occupazioni nate per combattere gli apprendisti stregoni di Wall Street si è saldata con forme di lotta a favore dei lavoratori, nella convinzione che il potere oscuro della finanza poggi sempre e comunque sullo sfruttamento del lavoro. E non a caso gli obiettivi dichiarati del blocco del porto sono l’EGT, multinazionale dell’agro-business in procinto di licenziare 4000 membri dell’International Longshoremen and Warehouse Union (ILWU, sindacato dei portuali) a Longbeach, e l’SSA Marine, operatore marittimo controllato da Goldman Sachs che a Los Angeles ha licenziato 26 autotrasportatori che vorrebbero formare un sindacato. Shut Down Wall Street on the Waterfront (Fermare Wall Street sul fronte del porto), come recita lo slogan del volantino di Occupy Oakland, sintetizza questa consapevolezza.
La solidarietà espressa ai lavoratori nel documento che lanciava il blocco del 12 dicembre è d’altronde qualcosa di più di una semplice attestazione di vicinanza. È il tentativo di rappresentare le istanze del lavoro in una nazione dove il continuo smantellamento dei diritti dei lavoratori ha indebolito fortemente il sindacato e la sua capacità di lotta. Elemento, quest’ultimo, che emerge molto bene dalle forme con cui è stato attuato il blocco del porto di Oakland. La clausola contrattuale che impedisce ai membri dell’ILWU di scioperare, se non su precise vertenze contrattuali, ha di fatto delegato a Occupy Oakland il compito di mettere a segno la protesta. Sono gli attivisti del movimento, infatti, a formare il picchetto di fronte ai cancelli dei terminal portuali, dal momento che un eventuale coinvolgimento dei lavoratori comporterebbe una violazione del contratto e possibile ripercussioni sul sindacato e sugli stessi lavoratori. A dimostrazione della connessione tra Occupy Oakland e i portuali, questi ultimi hanno rispettato il picchetto in attesa dell’arrivo dell’arbitrator, figura preposta a stabilire se i portuali avrebbero potuto lavorare in condizioni di sicurezza. Come previsto, la presenza dei picchetti ha indotto l’arbitrator a pronunciarsi in favore dei lavoratori, ai quali è stato dunque consentito di tornare a casa con l’ovvia conseguenza della paralisi del porto.
La flessibilità di Occupy Oakland, il suo eccedere le pratiche istituzionalizzate, gli ha permesso cioè di incunearsi tra le pieghe della severa legislazione sul lavoro e di sfruttarle a proprio vantaggio. Cosa che il sindacato, intrappolato dal Taft-Hartley Act (la legge del 1947 che regola in maniera restrittiva l’attività sindacale) e dal suo ruolo di gregario del partito democratico, non sembra più in grado di fare.
E non a caso l’iniziativa di Oakland ha sollevato un dibattito tra i movimenti Occupy e le unioni sindacali. Subito dopo il lancio dell’iniziativa, la direzione nazionale dell’ILWU aveva infatti condannato lo sciopero di Oakland perché metteva in pericolo le trattative per il salvataggio dei posti di lavoro a Longbeach. Ma più di ogni altra dichiarazione ufficiale pesano le parole di Bob McEllrath, leader nazionale dell’ILWU, “solo i membri dell’ILWU o i suoi rappresentanti possono autorizzare azioni da parte dei lavoratori”. In altri termini, McEllrath rivendica al sindacato un monopolio dello sciopero, in quanto arma politica che evidentemente non viene usata a favore dei lavoratori, ma solo gelosamente custodita come strumento di potere per reclamare posizioni pubbliche. Il fatto di tenerla sempre nella fondina e di non sfoderarla – se non raramente – li fa apparire come leader responsabili e al tempo stesso progressisti, cosa che piace tanto ai democratici. Il fatto è che, soprattutto a livello nazionale, i leader sindacali, e l’ILWU non fa eccezione, si comportano come “manager del malcontento”, impegnati a non violare la “santità” del contratto e sempre disposti a sedare la rabbia dei lavoratori, che vengono sacrificati sull’altare delle alleanze politiche e del team concept, un’espressione “very cool” che nient’altro significa se non vendersi al datore di lavoro. D’altronde, in occasione dello sciopero dei migranti del primo marzo, anche i sindacati italiani avevano affermato lo stesso monopolio dello sciopero. Dimenticandosi però di scioperare. Per la serie: tutto il mondo è paese e ognuno ha la sua croce. Ma qui, come oltre oceano, nonostante timori e difficoltà, precari, migranti e operai hanno già mostrato di sapere come muoversi tra le strette maglie sindacali.
Fortunatamente il quadro sindacale americano presenta posizioni più sfumate, soprattutto se dal livello nazionale passiamo a quello local. Dan Kaufmann, leader della Local 21 dell’ILWU di Longbeach, ha sostenuto pubblicamente lo sciopero del 12 dicembre, tenendo un discorso di ringraziamento a Grant Plaza, sede dell’acampada di Oakland. Le dirigenze di altre local hanno assunto invece atteggiamenti più circospetti e, almeno sul piano dell’ufficialità, hanno negato l’endorsement al blocco del porto, senza tuttavia condannarlo come ha fatto il leader nazionale.
Se ancora una volta si deve sottolineare la dialettica tra livello nazionale e livello local, che in qualche modo erode le rigidità di una struttura sindacale troppo centralizzata avvicinandola alle istanze dei lavoratori, occorre anche sottolineare che Occupy Oakland punta a far saltare la logica stessa della rappresentanza sindacale. La strada battuta dal movimento di Oakland punta infatti a costruire un legame diretto con i lavoratori, sindacalizzati o meno che siano, aggirando l’intermediazione della leadership sindacale. Lo si è visto nell’opera di volantinaggio e di persuasione che gli attivisti di Oakland hanno fatto nelle fermate dei treni dei pendolari e davanti ai cancelli del porto. Ma lo si vede anche quotidianamente nelle assemblee di Occupy Oakland, popolate stabilmente da molti lavoratori, anche sindacalizzati. Interrogato in merito al rapporto con il sindacato, Boots Riley, ormai riconosciuto come figura di punta di Occupy Oakland, ha dichiarato che l’obiettivo di quest’ultimo è di accogliere e organizzare la base sindacale e, più in generale, tutti i lavoratori per spingerli alla conflittualità sociale, nella consapevolezza che il sindacato sta esaurendo il suo ruolo storico. In altri termini, se il CIO nacque per “organizzare i non organizzati”, Occupy Oakland sembra porsi l’obiettivo ambizioso quanto visionario di “politicizzare sindacalizzati e non sindacalizzati”. Ovvero riconoscere che le lotte quotidiane per il lavoro non sono dirette solo alla conquista di un salario più alto, ma sono lotte di potere. Perché solo attaccando le gerarchie di forza all’interno del luogo di lavoro si possono acquisire nuovi diritti e nuove conquiste materiali.
Per comprendere meglio tale prospettiva, occorre guardare alla vicenda degli autotrasportatori, in solidarietà dei quali Oakland ha indetto il blocco dei porti. Inquadrati come independent contractors, come cioè se si trattasse di “padroncini”, questi autotrasportatori che lavorano per SSA Marine non possono aderire al sindacato dei Teamsters né formarne uno proprio. L’inquadramento non deve però trarre in inganno: in larga maggioranza ispanici, sono autotrasportatori “proletari” al pari degli altri, o, meglio, più precari degli altri. Non sono infatti pagati a ore ma a numero di carichi e scarichi effettuati, nonostante lavorino in media 60 ore settimanali. Da tempo combattono una battaglia per lavorare in condizioni umane e sotto tutela sindacale, ma finora hanno ottenuto solo 26 licenziamenti. Impossibilitati a ricorrere all’aiuto dei Teamsters, hanno cercato la spalla dei movimenti Occupy, perché, come si legge nel loro comunicato di sostegno al blocco dei porti del 12 dicembre, “non possiamo ancora avere un sindacato, ma nessuno può vietarci di agire come tale”. È in questo cortocircuito, insomma, che emerge l’inadeguatezza della forma sindacale a rappresentare le lotte del lavoro contemporaneo, troppo sfuggente per essere categorizzato secondo logiche rigide. E non è un caso che questi autotrasportatori abbiano potuto partecipare attivamente allo sciopero perché privi di un contratto sindacale, laddove i membri dell’ILWU hanno dovuto ricorrere all’escamotage del picchetto condotto da Occupy per incrociare le braccia.
Che la via aperta da Oakland segua la giusta direzione è confermato, se non altro, dal successo delle sue azioni. Benché ci fosse meno gente dello sciopero generale del 2 novembre (maturato però in circostanze eccezionali, ovvero in seguito allo sgombero brutale di Occupy Oakland da parte della polizia), nella giornata del 12 il movimento ha di fatto bloccato gran parte dei terminal portuali in due fasi cruciali della giornata: il cambio di turno delle 7 del mattino e quello delle 17. Parzialmente bloccati, almeno in mattinata, sono risultati gli scali di Houston, San Diego e Portland. L’intervento violento della polizia ha impedito tuttavia il protrarsi del blocco. D’altronde, proprio le azioni della polizia contro le occupazioni gemelle hanno spinto Oakland a estendere il blocco del porto anche al cambio di turno delle 3 di notte. Un’azione che sancisce l’indiscutibile leadership su scala nazionale che la cittadina californiana ha assunto all’interno del movimento Occupy.
Spostando lo sguardo sulla costa Est vediamo invece New York arrancare dietro l’ormai ossessiva ricerca di spazi e di riflettori. Benché all’interno del Gruppo di Azione fosse ormai passata l’idea che Zuccotti Park fosse solo un simbolo e che la strategia di farsi arrestare di fronte alle telecamere dovesse essere superata perché politicamente improduttiva, Occupy Wall Street ha solidarizzato con le occupazioni della West Coast con una marcia culminata con 17 arresti di fronte al World Trade Center. Analogamente, l’occupazione di un nuovo spazio annunciata per il 17 dicembre, data che segna il terzo mese di vita di OWS, sembra ricalcare schemi ormai logori. Per quanto uno spazio possa essere utile dal punto di vista simbolico e anche logistico, il punto è che non contribuisce alla conflittualità sociale se non viene politicizzato, ovvero non diventa terreno di lotta per rovesciare le gerarchie oppure per far saltare gli schemi della rappresentanza politica. Certo, la logica fortemente inclusiva e democratica di Zuccotti Park aveva prodotto delle rotture significative sotto questo aspetto, ma l’idea di rinchiudersi nuovamente in uno spazio appare un passo indietro rispetto alla strategia delineata all’indomani dello sgombero. Così, le pur meritorie azioni condotte da OWS negli scorsi mesi a favore degli sfrattati e le connessioni con il mondo del lavoro rischiano di passare in secondo piano di fronte a un movimento che sembra avvitarsi su se stesso. Detto in altre parole, forse è il caso che anche New York inizi a imparare da Oakland.