Occupy Wall Street è davanti a molti bivi, anche se quello decisivo lo porta probabilmente dentro di sé. Dopo il 17 novembre la scelta sembra essere tra il rischio di praticare connessioni impensabili e la sicurezza che deriva dal pensare progetti impraticabili. La pratica dell’occupazione di spazi nella metropoli non sembra aver garantito quella espansività del movimento che il 17 novembre aveva fatto intravedere pur con tutte le sue contraddizioni. Non è però il caso di essere pessimisti. Nemmeno il movimento Occupy è una freccia in grado di correre dritta verso il suo bersaglio. Dopo aver superato – o forse serenamente ignorato – il sermone di Saviano, OWS sta cercando di articolare alcune risposte che, come sempre, ci riguardano. Politicizzare la condizione degli insolventi, andando nei quartieri più colpiti dalla rapacità di banche e istituti finanziari, riuscirebbe senza dubbio a toglierli dal loro isolamento. Ciò vale anche di più quando il capitale finanziario si presenta faccia a faccia con il lavoro migrante. La strada che fa dell’insolvenza una minaccia attuale e non solo uno stato di privazione è però tanto necessaria quanto complicata. Una volta insolventi, infatti, ci si vede privati di quella casa e di tutti quei beni che si vorrebbero veder riconosciuti come diritti ben più dell’insolvenza stessa. Uscire dal vortice prodotto da diritto, insolvenza e precarietà è il primo terreno su cui è necessario praticare connessioni impensabili fuori da ogni slogan. Guardando verso occidente il movimento Occupy lascia però intravedere traiettorie che, abbandonando lo spazio metropolitano, si rivolgono a quello globale osando l’impossibile sciopero dei porti della costa occidentale, mentre sostengono quello contro un precarizzatore per eccellenza come Wal-Mart, dal quale, a dire il vero, tutti i signori Esselunga d’Italia sembrano aver ormai poco o nulla da imparare. La congiunzione di globale e precario è qualcosa di sorprendente e necessario. Non può infine stupire che il debito per motivi di studio si presenti come una traiettoria altrettanto importante di quella che attraversa le abitazioni, e che sia sempre presente all’interno del movimento Occupy. In questione qui non ci sono solo i soldi investiti nel futuro dei figli, ma anche la spinta a sovvertire la gerarchia di una formazione che serve solo a stabilire il grado di precarietà che si è destinati a subire: dalla formazione al lavoro alla formazione alla precarietà. Per impedire il futuro che ci stanno preparando possiamo solo praticare quelle connessioni impensabili che rendono anche il nostro sciopero precario certamente rischioso, ma finalmente diverso e nuovo rispetto alle consolidate certezze dei sindacati e dei movimenti che conosciamo.
Coast to coast: traiettorie del movimento Occupy
Michele Cento – Felice Mometti
Il successo della giornata del 17 novembre a New York, assedio alla Borsa al mattino, studenti nelle strade al pomeriggio e più di 30 mila persone in piazza la sera, è in larga parte dipeso dalla capacità di Occupy Wall Street di tradurre l’ampio consenso di cui gode in mobilitazione sociale. Tuttavia, il sostegno – secondo i sondaggi – della maggioranza dei newyorchesi non è sufficiente se tale meccanismo di accumulazione del consenso rimane a livello di opinione pubblica e non diventa possibilità concreta di inceppare i meccanismi della riproduzione dei rapporti sociali.
In altri termini, occorre chiedersi se OWS sia in grado o meno di costruire connessioni tali da produrre rotture nell’ordine sociale, anche quando l’onda emotiva innescata dallo sgombero si è ormai esaurita. La proposta, avanzata dal “gruppo di Azione diretta” subito dopo il 17, di occupare sette tra edifici e piazze sparsi per la città costituiva un ulteriore segnale in direzione di un superamento dei confini ormai stretti di Zuccotti Park. L’obiettivo non era tanto quello di delimitare spazi, quanto piuttosto quello di attivare nuovi focolai di disordine da cui il virus di Zuccotti si sarebbe dovuto diffondere. Un virus pericoloso per la salute del capitale e dell’establishment politico-istituzionale, proprio per la sua capacità di contagiare i gruppi che oggi pagano maggiormente i costi della crisi. In questo senso, si poteva scorgere una spinta verso una definitiva radicalizzazione del movimento, espiando dunque il peccato originale della semplice rappresentazione del conflitto.
Purtroppo, le difficoltà logistiche prodotte dallo sgombero così come la costante repressione della polizia hanno per il momento impedito il dispiegarsi della protesta. Anche l’occupazione di alcuni locali dell’Università New School, che puntava a innescare un cortocircuito nel sistema dell’istruzione statunitense, creando uno spazio pubblico in un’università privata, non ha avuto gli effetti sperati scontando la frammentazione e la divisione dei collettivi studenteschi.
Se lo sgombero ha rinvigorito Occupy Oakland, su OWS sembra non aver avuto lo stesso effetto. Certo, Oakland ha superato vittoriosa il battesimo del fuoco dello sciopero generale del 2 novembre, mentre forse OWS ha pagato la scelta minimalista di reagire allo sgombero con una semplice manifestazione di solidarietà. Cosa che ha certamente catalizzato l’indignazione dei liberal newyorchesi verso il sindaco Bloomberg, ma non ha incanalato lo scontento sociale delle comunità ispaniche e afroamericane, che pure alla manifestazione del 17 novembre erano presenti in massa, verso forme di azione diretta. Per parafrasare un vecchio sociologo sui generis, OWS ha peccato di “crisi di immaginazione rivoluzionaria”.
Ma non è solo questo. Dopo il 17, vari settori di movimento hanno reagito con insofferenza al controllo esercitato sulla manifestazione dei 30mila dai sindacati, che avrebbero impedito il blocco totale del ponte di Brooklyn canalizzando il corteo nell’area pedonale. Molto ha pesato, in questo senso, la dichiarazione pubblica, dei gruppi dirigenti sindacali, di sostegno alla rielezione di Obama fatta il giorno prima della manifestazione. Il rischio è che il rapporto con i sindacati si possa tramutare da elemento di amplificazione del movimento a gabbia per la messa in campo della conflittualità sociale.
Con ciò non si vuole dire che OWS abbia perso il suo slancio antagonista. Anzi, proprio per accumulare nuovamente la forza e la credibilità incrinate in questi ultimi giorni, ha messo in cantiere almeno un paio di iniziative rilevanti. In primo luogo, ha convocato per il 6 dicembre una giornata nazionale di sit-in nei quartieri dove più alta è la percentuale di sfratti e pignoramenti di abitazioni. In tal modo, OWS punta a toccare un nervo scoperto della società americana ai tempi della Grande Recessione. La crisi economica ha infatti mostrato il suo volto più duro ai titolari di mutui subprime, che, una volta dichiarati insolventi, si sono ritrovati senza un tetto a causa dell’azione repressiva delle banche. Quelle stesse banche per cui il governo americano ha sborsato cifre astronomiche proprio per evitarne l’insolvenza. Ecco allora il duplice senso dell’iniziativa di OWS: da un lato, un’azione concreta a favore di ampi settori della società americana situati tra le classi medio-basse, dall’altro mettere in evidenza le contraddizioni e le storture di questo capitalismo a trazione finanziaria.
Un nuovo e interessante tentativo di connessione proviene poi da El Barrio, lo storico quartiere ispanico di East Harlem dove è attivo Encuentro, un gruppo persone di colore di ogni età, con una forte presenza di lavoratori e migranti. Da anni El Barrio è sottoposto a un processo di gentrification, che punta a riconfigurare peculiarità socio-culturali e costo della vita del quartiere per adeguarlo agli standard della middle class bianca. Tale processo sta mettendo a dura prova la resistenza dei latinos, che, più in generale, osservano quotidianamente il potere violento del capitale distruggere la loro comunità, a partire proprio dalle procedure di sfratto. Pertanto, Encuentro ha proposto a OWS di unire gli sforzi contro le dinamiche di sfruttamento e di subordinazione perpetrate dal capitale globale, costruendo un tessuto connettivo tra le molteplici istanze che attraversano sia il movimento sia la comunità di East Harlem. Entrambe le iniziative possono ridare nuova linfa a OWS e un nuovo slancio radicale.
Tuttavia, una rinnovata fase di lotta può essere costruita solo tramite una più stretta connessione con i movimenti Occupy della West Coast, dove l’epicentro della protesta sembra essersi spostato. Occupy Oakland, grazie anche alla sua particolare composizione sociale e a una soggettività politica decisamente più marcata rispetto alle altre esperienze, dopo lo sciopero generale ha lanciato per il 12 dicembre una giornata di blocco di tutti i porti della costa ovest coinvolgendo nel coordinamento dell’iniziativa le occupazioni di Los Angeles, San Francisco, Portland. Gli studenti dell’Università della California di Sacramento hanno indetto uno sciopero generale per il 28 novembre contro i tagli all’istruzione fatti dal governo e il vertiginoso aumento delle tasse universitarie, con l’obiettivo di generalizzarlo anche negli altri 10 campus dell’Università della California compreso Berkeley. Le occupazioni di Seattle, Tacoma, Bellingham, Everett si sono mobilitate per sostenere i lavoratori, in grande maggioranza precari, della sede di Renton della Wal-Mart la più grande catena commerciale del mondo, nella loro lotta contro un tasso di sfruttamento e una mancanza di diritti elementari che ricordano i tempi della prima rivoluzione industriale.
Questo sommovimento generale che sta investendo la West Coast apre una fase nuova in tutta la galassia Occupy negli Stati Uniti dimostrando ancora una volta che i tempi e i luoghi della conflittualità dei movimenti sono imprevedibili, soprattutto quando escono dalle consolidate certezze non solo del discorso dominante, ma anche dei sindacati e dei movimenti che conosciamo. Questo anche e forse soprattutto nel cuore del sistema capitalistico.