Grazie alla nostra connessione a New York (thanks a lot Michele!) pubblichiamo la cronaca politica dell’entusiasmante giornata dello scorso 17 novembre. Una giornata fuori dal comune per la capacità mostrata da OWS di andare oltre il proprio nome. In realtà l’unica cosa che non è davvero successa è stata quella che il movimento newyorchese sembra esplicitamente promettere fin dal suo inizio: occupare Wall Street. Paradossalmente però questo non è un limite, un obiettivo mancato, ma la dimostrazione che la forza finora accumulata ha trovato dei punti di applicazione più significativi e importanti. L’insuccesso apparente è il successo reale. Attraversare la città, portando ovunque il proprio disordine, significa in primo luogo investire le nervature sociali del capitale finanziario. Significa incontrare, coinvolgere, connettere tutti coloro che sono quotidianamente dominati e sfruttati da un capitale che solo in apparenza vive e si muove esclusivamente a Wall Street. Significa nominare praticamente tutti i sottomessi al debito, riconoscendo che i debiti presenti e futuri non maturano a Wall Street, ma nei più disparati luoghi di studio e di lavoro. Significa non fare dell’occupazione la delimitazione di uno spazio chiuso e identitario, ma la pratica aperta di una ridefinizione conflittuale degli spazi. Si potrebbe annotare che, certo facendo anche – e forse soprattutto – di necessità virtù, non è casuale che l’occupazione di partenza sia stata quella di un parco. Solo un movimento reale è però in grado di moltiplicarsi una volta cacciato dal luogo del suo principale riconoscimento. Solo un movimento reale è in grado di comprendere al suo interno una molteplicità di forme di comportamento e di figure sociali, non puntando a unificarle immediatamente dal punto di vista organizzativo, ma componendo un linguaggio collettivo in grado di stabilire la loro costante e per ora instabile connessione. Abbiamo già visto negli interventi precedenti, quanto problematico, e persino feticistico, può altrimenti essere anche il riferimento al 99% come totalità che comprende tutti senza fare la differenza. Da questo punto di vista anche le parziali e precarie riappropriazioni di spazi metropolitani – la strada, la piazza, il ponte – non sembrano indicare la delimitazione di una proprietà per quanto collettiva da contrapporre all’infinita serie di private proprietà che gravano sulla testa di precarie, migranti e operai newyorchesi. La riappropriazione qui è un passaggio, è l’appropriazione di una possibilità di espressione, è la base indispensabile per continuare a dipanare disordine. È la politicizzazione di spazi e rapporti che si pretendono neutrali o affidati alle leggi imperscrutabili dei mercati e del capitale che li determina.
Imparare da Oakland, ma imparare anche da New York! La combinazione di queste due esperienze in movimento indica per noi percorsi assai significativi per la costruzione e la pratica dello sciopero precario. Lo sciopero precario è per noi esattamente questo processo di politicizzazione continuo e costante di una condizione che rimane altrimenti precaria sia dal punto di vista lavorativo che esistenziale. Esso è il processo che consente di accumulare forza per applicarla connettendo le figure della precarietà. Non ci interessa la rappresentazione e nemmeno l’autorappresentazione del precario, perché a una condizione globale e differenziata non possono corrispondere i modi di espressione politica che tutti noi abbiamo conosciuto e praticato in questi anni di movimento. Per tutti questi motivi ci interessa una politica della differenza contro la feroce universalità della coazione alla precarietà. Ci interessa una politica in grado di connettere le fabbriche della precarietà, di coordinarle e di organizzarle, evitando i tetri e usurati vincoli dei simboli e delle identità
Connessioni precarie nella giusta direzione
Michele Cento, in connessione da New York
Per festeggiare il suo secondo mese di vita Occupy Wall Street ha innescato un’onda creativa e contagiosa di disordine per le strade di New York. Il sindaco Bloomberg, che deve essere un tipo allergico ai compleanni altrui, ha ben pensato di portare in regalo l’intero dipartimento di polizia in assetto antisommossa. Anche lontano dai centri della protesta, gli angoli di New York sono controllati da almeno un paio di agenti, alcuni dotati di telecamera, oltre alla costante presenza di 5-6 elicotteri in volo a monitorare la situazione. Di fronte al Grande Fratello messo in scena da Bloomberg, non ci resta che sorridere e darci una sistemata: ci teniamo a non sfigurare davanti alle telecamere del sindaco.
È però a Wall Street che si apre uno scenario da guerra civile. Qui nella prima mattinata il movimento aveva promesso che avrebbe bloccato l’avamposto del capitale globale, la Borsa di New York. Le sedi delle principali banche del distretto finanziario sono protette da transenne e uomini della polizia, che, da tutori della legge, Bloomberg ha degradato ad agenti Pinkerton, le guardie private che un tempo venivano usate per reprimere gli scioperi nelle fabbriche. Avanzando verso la Borsa si realizza che ogni accesso alla zona è bloccato. La polizia ha circondato l’intera area attorno a Wall Street con un cordone di agenti e di camionette. I manifestanti, che sono qualche migliaio, cercano un varco, ma la polizia li ferma e ne arresta alcuni che provano a forzare il blocco. Si cercano altri varchi. Ma non si passa. Qualche decina di persone improvvisa un sit-down all’angolo tra Nassau e Pine Street, poco distante dalla Borsa. Si ripete una storia già vista nelle lotte di fabbrica e dei movimenti per i diritti civili: la polizia preleva con la forza i manifestanti seduti per terra che, senza opporre resistenza, vengono arrestati. Anche una ragazza sulla sedia a rotelle fa la stessa fine dei suoi compagni di sit-down. Con lei però gli agenti usano modi gentili: che non si dica che non sono politically correct!
La tensione è alta e gli arresti continuano. Alle 9.30 suona la campanella di Wall Street: le transazioni finanziarie sono cominciate alla solita ora. La missione impossibile è fallita, ma l’idea è stata seminata. Al tempo stesso, comunque, nel distretto finanziario regna il caos. Broadway è un unico e lungo corteo di auto e camionette della polizia. Per accedere a Wall Street occorre mostrare un pass agli agenti e alcuni broker e dipendenti della Borsa accusano ritardi. Anche la metropolitana va a rilento. Resta però il fatto che a Wall Street il capitale continua a fare i suoi affari, protetto dagli uomini di Bloomberg.
Ma questo, per usare uno slogan di OWS, “è solo l’inizio dell’inizio” di una lunga giornata di protesta. Vi potremmo raccontare di altri scontri avvenuti a Zuccotti Park, dopo che i manifestanti hanno abbandonato Wall Street e hanno cercato di dirigersi verso il parco rioccupato temporaneamente dalla polizia. Ma è un copione già visto e non rispecchia il nuovo spirito del movimento, che è “occupy everywhere”. E comunque la violenza della polizia la conosciamo bene e, per giunta, siamo alla ricerca di connessioni. Ci spostiamo quindi di fronte alla New York University (NYU), dove è previsto lo sciopero degli studenti e dei lavoratori dell’università.
È l’una e mezza e siamo di fronte alla Stern School of Business, una sede non casuale, perché si presume che da questo istituto usciranno gli squali della finanza di domani. Qui si attivano le prime connessioni di una giornata che ne riserverà molte. Ci sono studenti gravati dal fardello del debito per pagare gli oltre 15mila dollari annui della retta base di NYU, professori e personale-tecnico amministrativo che denunciano le pratiche antisindacali dell’amministrazione e precari dell’università che da anni lavorano senza un contratto e un’assicurazione sanitaria. Hanno richieste differenti, ma in comune hanno una consapevolezza: il problema risiede nella privatizzazione del sistema dell’istruzione, controllata dalle istituzioni finanziarie che guidano il paese. Il loro appello è pertanto a favore di un’istruzione che diventi pubblica, cioè a disposizione di tutti e non un fattore di profitto per i privati. Né deve essere un bene statale, dal momento che lo Stato stesso è controllato più o meno direttamente dai privati di cui sopra.
L’appuntamento davanti alla Stern School serve anche a raccogliere le forze prima di unirsi alla manifestazione in Union Square, dove convergeranno i cortei partiti da altre università e scuole newyorchesi. Prima di iniziare la marcia, un rito propiziatorio: gli studenti evirano un toro di cartapesta di nome Wally (il toro è infatti il simbolo di Wall Street), perché hanno chiaro in mente che l’obiettivo non può e non deve essere quello di “rassicurare i mercati”, come recita un mantra piuttosto in voga dalle nostre parti, ma quello di, permettetemi di dirlo, “prenderli per le palle”.
Nel breve cammino verso Union Square si avverte la solidarietà dei lavoratori che incrociamo. Qualche commessa esce fuori dal negozio e gli operai smettono di lavorare, mentre dei muratori latinos battono il martello al ritmo di “All Day, All Week, Occupy Wall Street”.
Arrivati nell’immensa piazza troviamo ad aspettarci centinaia di studenti provenienti per lo più dal City University of New York (CUNY) e da Cooper Union. Saremo duemila persone, più o meno, e ora cambia l’impressione che si ha della folla. Si vedono volti nuovi e soprattutto colori diversi: la CUNY non ha infatti le stesse inaffrontabili rette di NYU, mentre Cooper Union è una storica istituzione newyorchese che garantisce istruzione superiore gratuita a chi non ha la possibilità di permettersela. E, in questo paese, come un po’ dappertutto, più basse sono le rette, più le università diventano multicolore. Ecco allora nuove connessioni tra realtà universitarie diverse: al problema dei debiti degli studenti della costosa NYU, si sommano le proteste dei rappresentanti di CUNY contro l’innalzamento delle rette e quelle degli studenti di Cooper Union, la cui amministrazione nelle scorse settimane ha annunciato che intende rivedere la sua politica di istruzione gratuita. E, fatte salve le differenze, anche qui si parla il linguaggio del 99% e anche qui si rivendica il diritto all’istruzione libera e comune. L’obiettivo di questi studenti è quello di riprendersi ciò che è un loro diritto. Un diritto confiscato da chi controlla il business dell’istruzione e ne trae profitto.
È per questo che oggi il movimento non si accontenta dei marciapiedi per raggiungere la manifestazione di Foley Square che chiuderà la giornata di protesta. Perché, in fondo, anche le strade sono del 99% e allora è nostro diritto marciare su di esse. Come era prevedibile, la polizia la pensa diversamente e ci sbarra l’accesso alla 5th Avenue. Al grido di “Di chi sono le strade? Sono nostre!” il corteo cambia repentinamente direzione, sviando la polizia. Più di un migliaio di persone sta finalmente marciando in strada, senza alcuna autorizzazione, occupando arterie principali come la 6th Avenue e Canal Street e bloccandone il traffico. Ci siamo riappropriati di un altro tassello di qualcosa che è nostro.
Con nostra grande soddisfazione notiamo subito che gli automobilisti non sono affatto infastiditi e che, anzi, tassisti, autisti degli autobus e camionisti suonano il clacson e si affacciano ai finestrini per solidarizzare con noi. Per la maggior parte sono neri e latinos, che costituiscono la grande maggioranza di chi fa questo tipo di lavori a New York.
A Foley Square gli studenti arrivano di corsa – e di entusiasmo – e si uniscono a una folla che riempie l’intera piazza (32500 persone secondo la polizia, ma, al di là delle stime, è difficile capire dove inizia e dove finisce la manifestazione). Una piazza che subito appare come un inestricabile tessuto di connessioni. Anzitutto, l’inglese non è più l’unica lingua, perché finalmente dagli altoparlanti della piazza si sente anche lo spagnolo, perché la presenza dei latinos è diffusa. E poi basta guardarsi attorno per vedere una miriade di volti, età, colori e mestieri diversi. Spuntano i vessilli delle unioni sindacali dei metalmeccanici e delle infermiere, degli insegnanti e degli impiegati del terziario. E, al di là delle rappresentanze sindacali, ci sono anche padri e madri con i loro bambini, a dimostrazione che questa non è affatto una manifestazione violenta come certa stampa mainstream l’ha dipinta.
Ma non per questo è meno radicale. Perchè la radicalità di una manifestazione si misura dalle idee che mette in circolo e da come queste idee riescano a costruire legami fino a poco tempo prima inimmaginabili. È senz’altro questo il più grande successo di OWS: aver costruito, sotto lo slogan del 99%, un linguaggio comune in cui possano coesistere – e connettersi – rivendicazioni diverse. L’intuizione del movimento è stata quella di non farsi intrappolare all’interno degli insidiosi schemi del populismo. Ha invece dato libero spazio a tutte le voci che per troppo tempo sono rimaste ai margini della società americana e ha dato loro un nome: il 99%. Il movimento non intende stabilire una priorità tra queste voci, perché ne spezzerebbe l’unità – precaria – che si è cementata.
E ha davvero del sorprendente il fatto che in così poco tempo OWS sia stato in grado di dettare discorsi e pratiche a storiche organizzazioni americane. Gli stessi attivisti sindacali parlano ormai il linguaggio di OWS. Non è forse un caso che sia proprio il leader del SEIU (il più importante sindacato di impiegati del terziario) a tentare di spianarci la strada verso il ponte di Brooklyn, qualche centinaio di metri dopo Foley Square, organizzando all’imbocco del ponte un sit-down insieme a decine di attivisti. La polizia, schierata in massa di fronte al ponte e al municipio che sorge poco distante, arresta anche loro (a fine giornata si conteranno 200 arresti, tra cui sindacalisti, giornalisti e politici locali, a maggior gloria della democrazia americana).
Ma gli uomini di Bloomberg non possono bloccare un’intera piazza e devono lasciar passare il movimento quando si mette in marcia lungo la via pedonale del ponte. Al tempo stesso, tentare di marciare sulla carreggiata sarebbe suicida e offrirebbe solo l’occasione giusta per la violenza della polizia. L’ingresso del ponte a Manhattan è militarizzato, così come lo è sulla sponda di Brooklyn. Ma la via pedonale è nostra. Il ponte di Brooklyn è occupato. Ed è uno spettacolo unico: sembra che la gente che normalmente incroci nella metropolitana di New York abbia deciso di darsi appuntamento sul ponte di Brooklyn, perché ha realizzato che le singole cause di ciascuno possono essere vinte solo se combattute insieme.
E, dalla via pedonale, basta affacciarsi sulla carreggiata per capire che le idee di OWS hanno varcato il confine di Zuccotti Park. Con tripudio di luci e di clacson, gli automobilisti ci salutano e solidarizzano con noi. Un automobilista decide addirittura di spegnere la macchina bloccando per qualche tempo una corsia del ponte, mentre sul grattacielo della Verizon, gigante della telefonia sotto accusa per le sue pratiche antisindacali, è ben visibile ai manifestanti e alle auto la proiezione-sfregio: “Noi siamo parte di un movimento di rivolta globale. Noi stiamo vincendo”.
Forse quest’ultima affermazione è poco sensibile alla scaramanzia. Ma la prima ci fa riflettere nella direzione giusta.