Dialogo con Maurizia Russo Spena, protagonista della vertenza dei precari dell’agenzia Italia Lavoro, società per azioni totalmente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e al servizio di quello del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Prima di raccontare la lotta dei precari e la vertenza di cui anche tu sei protagonista, puoi descrivere la situazione specifica nella quale vi trovate e, più in generale, come si sta sviluppando il processo di precarizzazione nel pubblico impiego e nella funzione pubblica?
Bisogna intanto precisare che noi non siamo ascrivibili in pieno al pubblico impiego e alla funzione pubblica, perché lavoriamo per un’agenzia operativa del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La nostra agenzia è una s.p.a. che si muove con contratti di diritto privato e che, però, ha unafunzione pubblica. Questa è la prima contraddizione che riguarda i processi di precarizzazione. Noi utilizziamo fondi pubblici, europei e/o nazionali, ma i processi lavorativi e i rapporti di lavoro interni sono gestiti in maniera privatistica. La gerarchizzazione, le relazioni di comunicazione sul posto di lavoro e la natura tecnico giuridica dei contratti sono quelli di un’agenzia privata, perciò quando la direzione dell’agenzia del Ministero deve sottostare alle regole che riguardano tutta la funzione pubblica e il pubblico impiego lo fa mantenendo sempre un grado di autonomia e di conseguenza di ambiguità nei confronti dei lavoratori. Poiché lavoriamo soprattutto su progetti, l’uso dei collaboratori è smodato: circa il 60% di contratti atipici contro il 40% di dipendenti dell’agenzia su un totale di più di mille lavoratori. Da una parte, quindi, la precarizzazione del nostro lavoro può essere ricondotta al processo di precarizzazione del pubblico impiego, ma viviamo dall’altra anche gli aspetti peggiori del privato. Siamo coinvolti nel processo di esternalizzazione, perché siamo trattati come lavoratori “somministrati”, ma contemporaneamente subiamo i tagli e le regole imposti al pubblico impiego, a partire dalla legge 133/2008 di Brunetta fino alla 78 del 2010, il decreto finanziario che ha bloccato assunzioni, promozioni, scatti di anzianità. A questo si aggiunge l’uso illegittimo che viene fatto dei contratti atipici. Nonostante questo contratto, il nostro know how non è usato per consulenze progettuali temporaneamente messe al servizio dell’azienda, ma è praticamente strutturato all’interno dell’azienda, quindi il nostro è di fatto un lavoro subordinato.
Che tipo di contratto avete e quali sono le sue implicazioni rispetto al rapporto di lavoro, ai tempi e il luogo di lavoro, ai contributi, al salario, alle prospettive di stabilizzazione, se ce ne sono?
Con la riforma avviata dalla Legge Biagi (decreto 276/2003) abbiamo dei co.pro., siamo tutti collaboratori a progetto, e solo una piccolissima parte dei lavoratori sono a partita Iva e forniscono consulenze sporadiche. La gran parte di noi copre funzioni, ruoli e mansioni che sono proprie dei lavoratori dipendenti. Io lavoro da sei anni nella stessa area aziendale – Immigrazione e mobilità internazionale – e mi muovo anche con funzioni di coordinamento di piccoli gruppi, oltre che di rappresentanza dell’agenzia all’esterno, ad esempio nei rapporti con le Regioni o con le Province; ho un orario di lavoro come quello dei dipendenti che è di 7 ore e 45, anche se magari ho più flessibilità sull’orario di ingresso e di uscita. Abbiamo il badge elettronico personale e, anche se non dobbiamo timbrare gli ingressi le uscite e la pausa pranzo come i dipendenti, spesso restiamo a lavorare più a lungo. Quando sono andata in trasferta e dovevo lavorare di sabato e domenica non ho potuto beneficiare né del giorno di riposo né dell’indennità di trasferta che spettano ai dipendenti. Poi ci sono le problematiche che riguardano l’essere donna. Quando ero già integrata in azienda con un contratto di collaborazione ho avuto la mia seconda gravidanza, che ho fatto, a differenza della prima (a salario zero), con la sospensione dei cinque mesi e con la copertura Inps dell’80%. Il nostro contratto prevede un diritto di prelazione sul progetto sul quale lavoravi prima, ma non ne ho potuto usufruire perché il progetto è scaduto mentre ero in maternità. Per cui mi sono ritrovata quattro mesi a casa prima di tornare a lavorare perché il progetto nel quale lavoravo era scaduto e andava rimodulato. Non ho avuto alcuna tutela per quanto riguarda l’allattamento o permessi per la malattia bambino, e in generale non abbiamo tutele sulla malattia perché se ci ammaliamo per un periodo prolungato c’è la sospensione del contratto. Abbiamo una tassazione altissima, più del 28,5%. Più prendi di stipendio più ti tassano, io pago quasi mille euro al mese di tasse e non mi restituiscono nulla perché non ho pensione, quindi in qualche misura siamo noi che contribuiamo alle pensioni del resto della cittadinanza. Non ho la tredicesima, i buoni pasto, l’assicurazione sanitaria che hanno tutti i dipendenti di Italia Lavoro. Quando andiamo in trasferta abbiamo una diaria di 30€ giornaliere nella quale tutto deve essere compreso, a fronte dei dipendenti che ne hanno una molto più alta anche se svolgono le stesse mansioni.
Puoi spiegarci meglio come funziona l’agenzia presso la quale lavori e che tipo di rapporto ha con il Ministero?
È completamente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ed è l’agenzia in house del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, è insomma l’agenzia che si occupa di rendere operativi gli orientamenti e le filosofie del Ministero del Lavoro per quanto riguarda tutta una serie di tematiche. Noi ci occupiamo di ricollocamento delle fasce fragili nel mercato del lavoro, io in particolare dei migranti, ma c’è che si occupa di cassaintegrati, disoccupati, donne, disabili, ex detenuti. Siamo completamente partecipati dallo Stato e questa è l’ambiguità su cui si muove l’agenzia. Senza di noi il Ministero non metterebbe in campo progetti operativi, ma i nostri contratti sono comunque di diritto privato e fanno riferimento al contratto nazionale dei bancari. Dal punto di vista salariale, perciò, non ci possiamo lamentare, gli stipendi rispetto al pubblico impiego sono medio alti, ma le funzioni sono assolutamente le stesse. Siamo un’agenzia con funzione pubblica che lavora interamente su fondi pubblici, ma sei in regime di diritto privato e anche per questo all’inizio la nostra vertenza è stata difficile, sebbene proprio questa sia stata una delle ragioni che ci ha spinto a non condurre semplicemente una vertenza di tipo corporativo, ma a porre in termini più generali la questione del significato di queste agenzie. Anche perché Italia Lavoro non è l’unica, c’è anche Formez che fa capo al ministero di Brunetta, o Sviluppo Lazio che fa capo alla Regione Lazio e altre agenzie che fanno capo alla pubblica amministrazione centrale e periferica che si muovono tutte nella medesima maniera dal punto di vista della missione e della cultura organizzativa. Tutte agenzie nate formalmente per rendere più trasparenti e snelli i processi della pubblica amministrazione nel campo dell’innovazione dello sviluppo della ricerca dell’inserimento lavorativo. Si tratta di una forma di esternalizzazione. Qualcuno ritiene che il nostro contratto sia una forma di somministrazione perché i soggetti interessati sono tre dal punto di vista della sostanza del rapporto di lavoro. O meglio, formalmente e contrattualmente sono due, il lavoratore e l’agenzia, ma entra in gioco anche la pubblica amministrazione, almeno nel senso della finalità pubblica e della direzione del nostro lavoro.
Come si organizzano gli incarichi, quale rapporto si definisce tra il pubblico e il privato, che cosa fa il Ministero e che cosa fate voi, ad esempio nel settore specifico dell’immigrazione e della mobilità internazionale e quindi, anche, che rapporto c’è tra voi che dipendete dall’agenzia e i lavoratori che dipendono direttamente dal ministero, sia per quanto riguarda la gestione del servizio fornito sia per quanto riguarda le responsabilità amministrative?
Di fatto è un rapporto di subordinazione, noi siamo quelli che devono rendere operativi gli orientamenti del Ministero, quindi anche nella percezione dei funzionari e dei dirigenti ministeriali noi siamo se va bene ‘tecnici’ altrimenti lavoratori di serie B. L’agenzia è nata con queste funzioni e deve seguire le indicazioni del Ministero in tutto e per tutto, quindi per esempio per quanto riguarda l’immigrazione noi attualmente dipendiamo dalle indicazioni della Direzione generale immigrazione del Ministero del Lavoro. Un esempio: la DG gestisce dei fondi pubblici, emana bandi verso l’esterno per gestire progetti di integrazione sociale e Italia Lavoro è incaricata dell’assistenza tecnica e del monitoraggio dei progetti che vincono. Quindi noi dobbiamo avere chiare sia le linee direttive proprie del bando pubblico, sia l’orientamento con cui il Ministero costruisce i bandi, sia i rapporti e le relazioni con i soggetti terzi che rendono operativi questi bandi, che noi sosteniamo attraverso forme di assistenza tecnica e controlliamo attraverso forme di monitoraggio fisico e qualitativo per conto del ministero.
Visto che parli di una specifica funzione che è quella di integrazione al lavoro di figure svantaggiate, questo servizio può apparire o può essere visto come servizio sociale, di welfare, ma proprio perché segue le direttive del Ministero del Lavoro che è un pezzo importante nella gestione della Bossi-Fini, in che misura diventa una sorta di servizio alle imprese? Quali sono le esigenze che guidano i progetti sulla cui implementazione dovete vigilare?
Io sono stata impiegata nel progetto mobilità internazionale per tanti anni, e il progetto si occupava della formazione all’estero dei candidati all’emigrazione verso l’Italia. Italia Lavoro aveva il compito di assistere soggetti, quali le imprese le associazioni datoriali le agenzie di intermediazione e in generale tutti quei soggetti autorizzati a gestire l’incontro di domanda e offerta di lavoro, che esprimessero un fabbisogno di manodopera nei confronti di bacini specifici di lavoratori accompagnandoli nei paesi di origine dei migranti per selezionare e di conseguenza mettere in formazione i candidati all’emigrazione. Per cui si trattava di assistere associazioni datoriali, imprese, agenzie di intermediazione per far conoscere loro i bacini di prelazione dei migranti, per selezionarli e farli entrare in Italia con la dovuta assistenza anche per quanto riguardava le procedure di ingresso e l’inserimento lavorativo nel nostro paese. Quindi – almeno per quanto riguarda questo specifico progetto – non ci sono dubbi che i beneficiari sono le imprese italiane. Altra cosa sono i progetti di integrazione sociale che sono costruiti sul sistema della sussidiarietà, per cui il Ministero programma con le singole regioni gli interventi da attivare ed emette bandi rivolti a soggetti terzi attuatori sui diversi territori degli interventi. Ma questa funzione relativa all’assistenza al Ministero sui fondi per l’integrazione sociale è solo una piccola parte del nostro lavoro, mentre molto più ampio è lo spazio dei progetti per l’inserimento lavorativo, dato che la mission dell’agenzia è molto specifica. L’altro progetto enorme è infatti un progetto PON (Programma Operativo Nazionale) che si occupa del reinserimento dei migranti nel territorio nazionale tramite la valorizzazione, l’integrazione e la cooperazione tra operatori pubblici e privati nelle diverse province italiane. Abbiamo gestito progetti in cui si spiegava, per esempio, ai migranti come usufruire degli ammortizzatori sociali ordinari e in deroga, quali potenzialità hanno i centri per l’impiego e/o le agenzie per il lavoro e al tempo stesso si cercava di far parlare in maniera adeguata i soggetti territoriali deputati al lavoro e all’immigrazione con i cittadini migranti.
Prima parlavi del fatto che a volte fai un lavoro di rappresentanza della funzione pubblica verso l’esterno che è qualcosa di più rispetto al supporto tecnico o al controllo dell’attuazione degli orientamenti del Ministero, anche in termini di responsabilità. Questo apre la questione dei livelli formativi, delle qualifiche e delle competenze. L’accesso all’amministrazione pubblica dovrebbe essere regolato da concorso e secondo criteri che si dicono “meritocratici”. Ma quanto questo sistema funziona ancora, anche pensando al rapporto tra i livelli formativi e l’inquadramento di quelli che lavorano presso le agenzie?
La pubblica amministrazione ha regole precise per il reclutamento e per il riconoscimento di qualifiche in base ai titoli e alle esperienze possedute, ma non valgono per noi perché le forme di reclutamento si muovono completamente secondo i criteri del privato, anche se con il recepimento della 133 del 2008 c’è stato un cambiamento. Prima si accedeva all’agenzia tramite una selezione di tipo privato (colloquio tecnico con il capo progetto e con l’ufficio risorse umane), venivi utilizzato per le tue competenze tecniche, catalogato in famiglie professionali (operatore, formatore, ecc.) o per steps di esperienza e competenza (addetto, professional, esperto) e inserito in progetti specifici a seconda della tua formazione, ma di fatto era arbitrario il rapporto tra formazione posseduta e funzioni assegnate nel e per il progetto. Io per esempio con un dottorato di ricerca alle spalle e numerosi anni di esperienza formativa e lavorativa nel campo dell’immigrazione all’inizio fui inquadrata in modo per nulla adeguato. E come me numerosissimi miei colleghi. Dopo la 133 si accede all’agenzia solo attraverso vacancies pubbliche che danno (questo fino a ottobre di quest’anno) una precedenza nella selezione a un bacino di prelazione composto da persone che, prima del 2008, hanno lavorato almeno sei mesi dell’anno nell’agenzia. Quindi per reclutare determinate competenze bisognava fare un bando pubblico ma selezionare innanzitutto all’interno del bacino di prelazione. Oltre al bacino di prelazione, la 133 fu recepita dalla nostra agenzia anche inserendo un limite massimo di 36 mesi di contratto a progetto, a partire dall’istituzione del bacino, per garantire il turn over dei lavoratori e delle competenze. Sottolineo che il regolamento, in virtù soprattutto di quest’ultimo punto soggetto a notevole ambiguità interpretativa, fu sottoscritto dalla Cisl e dalla Uil. Questo bacino restava vigente per 36 mesi, sarebbe quindi scaduto a fine ottobre 2011. Grazie alla nostra vertenza è caduto, e questo significa che i circa trecentocinquanta lavoratori in essere con contratti a progetto che sarebbero scaduti in concomitanza potranno essere rinnovati. Adesso, però, siamo in una fase di interregno. Il tetto dei 36 mesi è caduto, è caduto il bacino di prelazione, ma non esiste un regolamento che indichi requisiti e caratteristiche certe e misurabili per rinnovi o nuovi reclutamenti. Quindi c’è il totale arbitrio e i lavoratori diventano ricattabili, perché i rinnovi vengono fatti in base al fabbisogno dei progetti, dei capi progetto e a quelli che stanno buoni; quelli che non stanno buoni e sono fastidiosi perché discutono pensano e pretendono di partecipare alle decisioni progettuali devono andar via, e questo sta accadendo nell’agenzia.
Che funzione e che ruolo ha questo processo di esternalizzazione delle funzioni rispetto alla questione del decentramento delle funzioni e dell’amministrazione pubblica?
Si sta andando in questa direzione perché le funzioni pubbliche sono sempre più delegate a questo processo di esternalizzazione, e per lo stesso motivo viene valorizzato un processo di sussidiarietà dal basso, che ora investe anche i vertici. Si utilizzano agenzie che sono molto più agili nell’operare, dove le regole di reclutamento sono molto più labili e flessibili, i livelli di ricattabilità sono molto più incisivi ed efficaci, anche nella quotidianità del nostro lavoro. È un modello destinato a diffondersi perché dal loro punto di vista è efficace, supera le lungaggini della burocratizzazione dei processi, tiene il lavoratore, e quindi un know how il più delle volte specialistico, inchiodato al suo lavoro e alla sua funzione senza per questo che vi sia automaticamente la possibilità di rivendicare una tutela e una continuità del lavoro e del reddito, quindi in sostanza senza che vi sia la coltivazione di un privilegio (quello del posto fisso).
Come ha funzionato la vertenza che avete portato avanti, come è nata, quali sono state le rivendicazioni
La vertenza è nata dopo la legge 183/2010, il collegato lavoro, che fissava nel termine perentorio di 60 giorni la possibilità di impugnare i propri contratti e di rivendicare i propri diritti maturati, per evitare una sanatoria degli illeciti per i datori di lavoro e chiedere il riconoscimento del lavoro subordinato. Circa quaranta lavoratori di Italia Lavoro, che sarebbero stati espulsi dal processo produttivo anche per via del regolamento dei 36 mesi o che non avevano avuto il rinnovo dopo la scadenza del contratto a tempo determinato, hanno impugnato i contratti. L’azienda ne ha licenziati 17, tra cui c’ero anch’io. Ha rescisso unilateralmente i rapporti di lavoro in essere (non si può parlare di licenziamento, ma di questo si tratta) con la motivazione che era caduto il rapporto fiduciario proprio in conseguenza dell’impugnazione dei contratti precedenti l’uscita del collegato lavoro. Il rapporto fiduciario in teoria con un collaboratore non ci dovrebbe essere, se mai dovrebbe essere con un lavoratore subordinato… si sono dati la zappa sui piedi. L’agenzia ha sedi in quasi tutte le province italiane e più del 50% di lavoratori cosiddetti atipici, quindi si tratta di circa 600 precari coinvolti potenzialmente in questa situazione. Altra cosa sono i contenziosi e le vertenze che erano già in atto e che comunque erano in una fase più avanzata rispetto alla semplice impugnazione. Hanno usato la doppia via come si fa sempre in questi posti di lavoro dove il ricatto è fortissimo. Con i dipendenti a tempo determinato che avevano impugnato i contratti hanno negoziato un rinnovo di 24 o 36 mesi qualora avessero rinunciato all’impugnazione. Con i collaboratori, quindi con gli atipici, hanno scelto la formula della rescissione unilaterale. Hanno usato quindi diverse strategie anche per rompere il fronte dei lavoratori. Noi ci siamo organizzati in maniera completamente autonoma – anche perché lì il sindacato più forte è la Cisl, anche se ci sono anche la Uil e la Cgil – e abbiamo scelto di non rivolgerci ai sindacati. La Cisl e la Uil ci sembravano compiacenti verso l’azienda, la Cgil molto debole per quanto riguardava il rapporto con gli atipici. Organizzarsi autonomamente era molto complicato perché eravamo ormai fuori dall’azienda, ci hanno tolto le mail e il badge, ed eravamo sparsi su tutto il territorio nazionale. Abbiamo fatto un gran lavoro di costruzione di relazioni e siamo riusciti a vederci, a sentirci, a formare una mailinglist, per cui siamo stati anche aiutati dall’elemento informatico, e ci siamo riconosciuti nella stessa condizione. Erano state licenziate persone con figli, una donna al sesto mese di gravidanza, un lavoratore in riabilitazione dopo un’operazione al cervello; abbiamo deciso di denunciare la cosa seguendo una via tipicamente giuridica e vertenziale, abbiamo chiamato degli avvocati, ci siamo anche appoggiati in parte all’ufficio vertenze della Cgil e abbiamo impugnato il licenziamento. Abbiamo però cercato anche una visibilità mediatica e politica, per porre il problema di un’agenzia che si occupa di ricollocamento al lavoro delle fasce più fragili della popolazione e che licenzia i suoi lavoratori più ‘deboli’, tradendo la propria mission. Ci sembrava debole e inefficace l’azione della Cgil, anche se aveva divulgato un comunicato di solidarietà. Il comunicato di Cisl e Uil diceva invece che, secondo loro, i lavoratori non avrebbero dovuto impugnare i contratti, anche perché il collegato lavoro non parla dei contratti atipici ma di quelli a termine…peccato che ancora non ci hanno detto che cosa è, o che cosa non è, un contratto a termine, per cui noi siamo ancora convinti che il collegato lavoro parli anche di noi e non solo dei contratti a tempo determinato e in somministrazione. A fronte di questo comunicato di Cisl e Uil e del comunicato di solidarietà della Cgil, che ci sembrava comunque molto debole, abbiamo deciso di rivolgerci ad altre reti di precari e siamo arrivati al Punto San Precario di Roma che ci sembrava porre in modo innovativo non solo un problema di precarietà sui posti di lavoro classicamente intesi ma di precarizzazione generale della vita. Ci siamo fatti aiutare da loro anche per dare visibilità a questa vertenza e per organizzare azioni più irriverenti ed eretiche. Per prima cosa abbiamo partecipato a una Conferenza in cui si parlava di pensioni private; i tre grandi sindacati erano presenti e Sacconi era uno dei relatori. Abbiamo preso la parola e abbiamo esposto al ministro Sacconi il nostro problema, dato che lui dovrebbe essere il nostro punto di riferimento, e lui ha preso immediatamente il provvedimento di convocare i vertici dell’agenzia per farci reintegrare tutti sul posto di lavoro, tutti e diciassette con il pagamento dei due mesi di inattività. La cosa ha avuto una diffusa eco. Probabilmente Sacconi – con più intelligenza di quella dimostrata poi da Brunetta – aveva capito che era un problema che un’agenzia del governo che ha come mission quella di reintegrare le fasce deboli nel lavoro licenziasse una donna incinta, persone come me con figli a carico, un ragazzo che si stava riprendendo dopo un intervento al cervello molto importante. Lavoratori e lavoratrici che erano anche tra i più anziani tra i collaboratori dell’agenzia e che avevano quindi maturato dei diritti in quel posto di lavoro. Il Ministro parlò infatti di non disperdere competenze e know how delle agenzie ministeriali pur nella necessità di utilizzare largamente i contratti a progetto dato che si tratta di agenzie che operano fondamentalmente su progetti. Il reintegro è, infatti, avvenuto comunque attraverso un contratto di collaborazione, riattivando di fatto fino a scadenza i nostri contratti. Le nostre rivendicazioni andavano ben oltre, riguardavano in primis il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato o una serie di tutele, oltre alla continuità del reddito attraverso il lavoro. Ovviamente a fronte di una mancata risposta su questo abbiamo continuato sul piano dell’autorganizzazione e abbiamo cominciato a metterci in rete con altri lavoratori precarie di altre agenzie ‘gemelle’ che, con effetto moltiplicatore, erano venuti a sapere della nostra azione, ci avevano sostenuto e in qualche modo si sentivano vicini alla nostra condizione lavorativa perché anche loro lavoravano presso agenzie parastatali, in house, comandate da Ministeri, Regioni e Province. Il comitato dei licenziati e delle licenziate allora si è allargato (ormai si vedeva ogni settimana al Punto San Precario) a tutte quelle agenzie parastatali che si sono riconosciute nella parola d’ordine della mission tradita. Siamo in posti di lavoro creati per fare innovazione, sviluppo, integrazione sociale, ricollocamento, e questa vocazione viene tradita continuamente sia dall’orientamento delle politiche governative sia dalla cultura organizzativa e del lavoro privatistica delle agenzie. C’è stato insomma il tentativo di tenere insieme la dimensione vertenziale e l’attenzione politica al ruolo delle agenzie, fino a metterlo completamente in discussione. Siamo arrivati a chiederci se devono esistere ancora nella forma in cui le conosciamo, se sono utili, a che cosa servono veramente e a chi fanno comodo, se sono utili per i beneficiari ultimi degli interventi o dietro c’è dell’altro, anche dal punto di vista della regolazione dei rapporti di lavoro? Per questo abbiamo deciso di andare a porre la questione direttamente al Ministro Brunetta e a esprimere la nostra posizione prendendo parola durante un convegno sui giovani e l’innovazione in uno spazio pubblico. Ed è successo quello che tutti hanno visto. L’indipendenza e l’autorganizzazione rispetto ai sindacati che classicamente si muovono dentro queste agenzie è sicuramente un elemento di novità di questa vertenza, e questo pone anche il problema della loro incapacità di leggere ed accogliere i processi ormai tipici del mercato del lavoro, della loro insufficienza o comunque del fatto che vanno assolutamente stimolati, anche quando ci siano sindacati che provano a sostenere i processi messi in campo dai precari. Altro punto importante è stato una presa di parola diversa, il fatto che l’autonarrazione ‘sfigata’ del precario che non ce la fa ad arrivare alla fine del mese deve assolutamente articolarsi e declinarsi in pratiche che vadano anche al di là delle vertenze specifiche. Non basta più denunciare la propria condizione ma occupare la scena pubblica e creare un luogo di organizzazione e confronto che diventi politico.
Hai parlato di come ha funzionato il coinvolgimento dei precari. I dipendenti diretti del Ministero che lavorano magari negli stessi ambiti sono stati coinvolti, e come hanno reagito a questo tipo di mobilitazione?
All’interno del Ministero non ci sono lavoratori che svolgono le nostre stesse funzioni, che seguono una progettazione di tipo operativo così come la seguiamo noi, almeno per mia conoscenza. La funzione è completamente esternalizzata, e al Ministero ci sono soprattutto funzioni amministrative, direttive e di gestione. Noi abbiamo rapporti di completa subordinazione con le divisioni e le direzioni generali che ci dicono o dicono ai nostri capi progetto e coordinatori che cosa noi dobbiamo fare. Sappiamo che abbiamo suscitato simpatia in alcuni lavoratori del Ministero ma non abbiamo mai avuto contatti diretti. I dipendenti della nostra agenzia, invece, sono stati solidali, e in questo ha aiutato molto il fatto semplice e spontaneo della relazione quotidiana sul posto di lavoro. Ci riconoscono come loro colleghi, non ci vedono come i consulenti esterni superpagati che arrivano, fanno consulenza tecnica e poi se ne vanno. Ci vedono come colleghi e quindi questa naturalezza delle relazioni quotidiane, che vanno dalle chiacchiere nel corridoio al fatto di condividere l’attività all’interno del progetto, la stanza e il luogo di lavoro, ci ha aiutato tantissimo da questo punto di vista. Perciò i dipendenti sono stati solidali, soprattutto nei confronti di coloro che riconoscono come molto competenti ma non riconosciuti, dequalificati, svalorizzati in quella situazione. Hanno anche preso parte ai momenti di denuncia pubblica. Prima di contestare Sacconi abbiamo fatto una conferenza stampa e un volantinaggio fuori dalla sede dell’agenzia a Roma, utilizzando l’orario di entrata dei dipendenti in modo che potessero solidarizzare con noi senza essere penalizzati (ore di ferie o permessi) o individuati come coloro che avevano appoggiato la protesta. Potete immaginare che tipo di ‘controllo’ c’è trattandosi di un’agenzia che lavora alle direttive del Ministero, ci sono dipendenti dei quali ancora si parla perché hanno scioperato in solidarietà con i precari nel 2008, e ci sono mille forme sottili per fartela pagare, non c’è bisogno di arrivare al mobbing, basta lasciarti una settimana a scaldare la sedia senza dirti che cosa devi fare, anche se devi comunque andare al lavoro, o lasciarti per mesi senza una risposta sulla richiesta di mobilità interna. Invece molti dipendenti si sono fermati a parlare e volantinare con noi, anche perché dopo il licenziamento la Cgil interna ha attivato comunque un’azione di denuncia, dandoci con un comunicato pubblico appoggio e sostegno. Abbiamo addirittura saputo di dipendenti che volevano istituire un fondo di solidarietà autotassando il loro salario per coprire il nostro primo periodo senza lavoro.
Rispetto all’organizzazione sindacale, è già significativo che voi apparteniate a una categoria, quella dei bancari, che nulla ha a che fare con la vostra funzione. Più in generale come funziona il sindacato nel vostro lavoro, prima della vostra vertenza che tipo di visibilità o di attività ha portato avanti?
A me sembrava più che altro un gioco delle parti. La Cgil è l’unico sindacato a non essere firmatario di accordo, per quanto riguarda il contratto dei dipendenti, per cui quelli che si siedono ai tavoli sono Cisl e Uil. La Cgil ha quindi anche una forma di interlocuzione minore con i vertici aziendali. Parlo di gioco delle parti perché di fatto la Cgil non ha saputo tramutare questo suo disappunto sugli accordi aziendali, questo suo essere volutamente esterna, in un’azione di visibilità sindacale e politica. L’ha tramutata in una separatezza che si traduce spesso in silenzio. Se decide di fare un’azione di rottura e di non firmare l’accordo e non si siede ai tavoli e non accetta le regole del gioco, potrebbe stabilirne altre, di regole. E invece non c’è mai stata un’azione incisiva di tipo sindacale e politico, e questa è una cosa di cui si sono lamentati tutti i dipendenti. Per quanto riguarda gli atipici, poi, la Cgil Nidil – Nuove identità al lavoro – costituisce in un certo senso (e su questo c’è una discussione forte all’interno della Cgil) il sindacatino degli ‘sfigati’, per cui rischia di essere anche abbastanza marginale, emarginato e minoritario. C’è questa commistione strana tra la paura di fare azioni incisive ed efficaci, anche semplicemente sindacali e non politiche, anche solo corporative, e il fatto di essere separati dai tavoli in cui si decide senza essere in grado di muovere processi diversi rispetto ai tavoli. Insomma si stava nella palude, prima che la vertenza partisse dall’esterno, anche con l’appoggio di San Precario. Adesso ovviamente le cose si sono molto più vivacizzate. La Cgil convoca riunioni dei dipendenti anche una volta al mese, mentre prima se ne svolgevano poche all’anno. Gli iscritti al Nidil sono aumentati, sono stati fatti comunicati di solidarietà, anche rivendicativi, sia per i dipendenti sia per i collaboratori, insomma le cose sicuramente sono cambiate e la Cgil ha una grande capacità di leggere i processi più avanzati e di accodarsi, raccogliendo i risultati. Questo salto di qualità sicuramente lo stanno facendo, se non altro perché hanno individuato in alcuni punti della nostra vertenza dei punti di forza da sostenere, probabilmente anche per reclutare nuovi militanti.
A che punto è adesso la vertenza, quali sono le prospettive, le possibilità di successo, l’espansività?
Il primo successo è l’abbattimento del tetto di 36 mesi e del bacino di prelazione, per cui almeno 350 precari potranno potenzialmente essere rinnovati. Certo, dipende dal capo progetto, dal rinnovo e dalle esigenze del progetto e così via, ma comunque si tratta già di una vittoria. Noi stiamo lavorando su una piattaforma in questo momento, e quindi sulla convocazione di una grossa assemblea di tutti i collaboratori, nella quale vorrei che ci fossero anche i lavoratori a tempo determinato, perché precari lo sono anche loro, soprattutto considerando quanti dei loro rinnovi sono stati bloccati l’anno scorso. Il sindacato considera i lavoratori a tempo determinato come dipendenti a pieno titolo, ma se vuoi sono in una situazione di ambiguità assoluta, forse peggiore della nostra. Ultimamente l’azienda ha liberalizzato i contratti a tempo determinato oltre la scadenza dei 36, sempre con il beneplacito della Cisl e della Uil, senza consultare la Cgil. Vale a dire che invece di essere trasformati in contratti a tempo indeterminato dopo 36 mesi possono essere rinnovati a vita come tempi determinati o addirittura, come è successo, ritornare ad essere collaboratori: cosa c’è di peggiore del fatto che valorizzi la tua esperienza lavorativa con un unico committente, ci conti, hai un’aspettativa altissima, vivi al tempo stesso le rigidità di un sistema intrappolato tra le pause pranzo i permessi orari e le dovute tutele e poi non ne puoi far parte pienamente? Una tortura. Tornando all’assemblea, vedo la convocazione di una grande assemblea dei precari (atipici e tempi determinati) entro il mese di novembre in cui si ricominci a parlare della piattaforma rivendicativa, cosa che comunque non è stata mai fatta, che affronti sia la questione di un piano industriale, che superi ovviamente il blocco delle assunzioni fino al 2014/2015 stabilito dal decreto finanziario, ma che parli anche delle tutele del lavoro e sul lavoro per gli atipici, che spesso tali non sono perché si tratta in realtà di lavoratori subordinati. Stiamo pensando a forme di tutela per gli atipici che hanno funzioni strategiche nell’agenzia, pensiamo alla rivendicazione di buoni pasto, all’estensione dell’assicurazione sanitaria, a forme di tutela per le madri ed i padri lavoratori, a forme di accompagnamento lavorativo per i fuoriusciti dall’agenzia, a forme di aggiornamento e formazione interna, perché anche questo è un processo quasi del tutto bloccato nella nostra agenzia, se non messo in atto in modo irrilevante e senza una vera rilevazione dei fabbisogni sia individuali che aziendali. Il punto politico forte è invece aggredire il collegato lavoro e dunque tutte quelle norme che puntano all’individualizzazione del rapporto tra lavoratore e impresa, che mirano a toglierti dall’impero delle tutele dei contratti collettivi nazionali, ma anche approfittare del fatto che la possibilità di impugnare i contratti con il Milleproroghe è prorogata fino al 31 dicembre e dunque bisognerebbe avviare una grande campagna su questo. E poi si tratta di continuare, insieme ai dipendenti, a contestare il ruolo dell’agenzia, non solamente per quel che riguarda le forme di reclutamento o la conservazione e valorizzazione del know how, ma anche per capire in che direzione queste agenzie stanno andando e in che rapporto sono con la funzione pubblica e con la Politica, e quindi con i ministeri. È una vertenza delicata che però ha immediatamente un aggancio di tipo politico, se non altro per il luogo in cui lavoriamo.
Tu hai avuto un ruolo chiave all’interno di questa vertenza, del processo organizzativo, non sei stata solo un volto pubblico ma anche una figura di direzione politica. Quanto il fatto di essere una donna ha pesato rispetto ai lavoratori e rispetto alla controparte?
A differenza di altre vertenze che ho seguito o di altri aspetti che ho trattato nella mia vita anche in maniera conflittuale, nell’ambito del mio attivismo politico, questa volta il mio essere donna, il fatto di essere una madre lavoratrice ha giocato probabilmente a favore nella relazione con gli altri colleghi, perché mi veniva riconosciuta una posizione di doppia subordinazione e quindi di doppia potenza, anche perché probabilmente sono riuscita io a volgerla in doppia potenza, anche assieme alla mia collega licenziata mentre era incinta. Mi veniva riconosciuto il fatto che ero stata privata di un diritto due volte, non solo, quando sono stata licenziata, del diritto al lavoro, ma anche di quello ad essere madre come io sceglievo di essere. È riconosciuto da tutti i lavoratori il fatto che le donne come me che hanno dei figli piccoli fanno fatica a svolgere un lavoro che è di fatto subordinato senza averne tutte le tutele. Abbiamo utilizzato questa doppia forma di subordinazione e di lesione di diritti come ricchezza esponenziale all’interno della vertenza, sfruttando anche il fatto che i media sono molto sensibili alla strumentalizzazione dei ‘casi umani’, soprattutto quando si tratta di donne malati sfigati generici o soggetti vulnerabili. Quindi, questo ruolo ci è stato lasciato in modo abbastanza naturale, e noi lo abbiamo forse utilizzato bene. Sul fronte più politico, e quindi meno vertenziale che riguardava la rivendicazione rispetto alla condizione soggettiva di licenziata e parte lesa, quando ci siamo aperti alle altre reti il fatto di essere donna e nel mio caso anche madre e non più così giovane, io sono sulla soglia dei quarant’anni, mi è stato in parte riconosciuto, ma è difficile far passare un linguaggio diverso da quello rivendicativo o corporativo classico. Anche perché semplicemente non puoi essere presenzialista, non puoi seguire i tempi gli orari o gli spazi fisici delle interminabili e a volte inutili riunioni, perché hai altre priorità, devi tornare a casa. Quando ho parlato di biopolitica, di diritto alla vita, inteso come lo posso intendere io che sono donna e madre, di nuove forme di welfare (perché non ho solo un problema di dignità del lavoro ma anche di servizi, come madre e non solo come cittadina, non solo nei miei confronti ma anche dei miei figli), di nuovi modelli di sviluppo, di nuovi modi di intendere e concepire le relazioni sociali, quando ho posto il problema dello spazio pubblico e della formazione dei figli, e l’ho fatto con il mio linguaggio, ho incontrato con difficoltà linguaggi e pratiche differenti, affezionate alla militanza politica e sindacale. Far capire all’esterno questa doppia potenza che io potevo avere anche sul terreno delle rivendicazioni è stato un po’ arduo.
Questa vertenza, che è una vertenza specifica, che cosa può portare dentro a un percorso più generale che riguarda l’organizzazione dei precari, intendendo come precari non solo quelli che hanno contratti atipici, ma trattando la precarietà come condizione di tutto il lavoro? Quali possibilità o quali limiti ha mostrato quest’esperienza, come può parlare ad altre figure del lavoro e della precarietà, ai migranti, agli operai? Che tipo di connessioni sono possibili? I lavoratori della tua agenzia hanno fatto esperienze di sciopero, scioperi generali o di categoria, se non lo hanno fatto perché? E che cosa può significare per voi lo sciopero precario?
Questa vertenza è molto faticosa, l’ho gestita e ancora la seguo con difficoltà. Da una parte l’allusione alla politica è abbastanza naturale, almeno per me. Però, costruire i nessi causali e farli capire ai lavoratori è tutt’altra cosa nella quotidianità. Come se questa allusione alla politica, alla necessità della condivisione, al superamento dei diritti corporativi, la vedessi solo io e la dovessi spiegare ai lavoratori, e questa è una difficoltà. Perciò non nascondo di avere avuto un ruolo determinante nel gestire questo processo di fuoriuscita dai percorsi più classici del sindacato e di connessione con i percorsi della precarietà più in generale, e con quello dello sciopero precario in particolare, che è un percorso al quale io stessa mi sono avvicinata da poco, una sfida che mi affascina e di cui però ancora non ho capito la declinazione delle pratiche da mettere in campo, almeno nei luoghi di lavoro simili al mio. Quando si parla di blocco dei flussi, dentro luoghi di lavoro come il mio, si tratta forse di rovesciare la prospettiva. Io immagino per tutta la rete dei precari al servizio della pubblica amministrazione una sorta di ‘sciopero bianco’. I lavoratori che sono dentro le agenzie hanno partecipato ad altri scioperi generali e/o di categoria. I precari ci sono andati insieme ai lavoratori dipendenti, solidarizzando con loro. Ma pensavo di proporre forme in cui i precari – questo è per me il primo processo importante – si possano riconoscere e siano riconoscibili. Credo nella centralità e nell’irrappresentabilità del soggetto precario. Per raccogliere la sfida del capitalismo cognitivo dobbiamo connettere le diverse forme del lavoro e le diverse figure al lavoro. Come faccio a connettere la mia vertenza a quella del lavoratore cosiddetto tutelato, che di fatto non lo è più? Non disertando il posto di lavoro, ma andandoci e facendoci riconoscere. Se tutti quel giorno, quello dello sciopero precario, fossimo presenti a lavoro – senza lavorare – indossando una maglietta in cui sono scritti i giorni che mancano alla scadenza del contratto, allora potremmo riconoscerci e farci riconoscere e magari scegliere una forma assembleare in cui far prendere forma alla nostra denuncia, alle nostre rivendicazioni; questo è il primo passaggio di forza che abbiamo avuto nella nostra vertenza: anche se non condividevamo più un luogo di lavoro, ci siamo riconnessi come licenziati e abbiamo creato un luogo di elaborazione politica e sindacale. Avevo proposto al laboratorio romano per lo sciopero precario di ragionare su una forma come questa, uno sciopero bianco, che comunque significa anche bloccare la produzione, perché sul lungo periodo se noi incrociamo le braccia i progetti non vanno avanti. Ma se un precario come noi si assenta dal lavoro per un giorno, nessuno se ne accorge, a meno che non ci sia una cosa fondamentale da consegnare proprio quel giorno, che non coinciderebbe mai per tutti i precari. Visto che siamo un’agenzia che non ha contatti diretti con il destinatario del servizio, il flusso non si blocca. Se lo sciopero precario deve confluire alla fine di un percorso in una giornata deve essere prima di tutto una giornata di visibilità per i precari, che denuncia un’intera cultura organizzativa e un’intera mission tradita, le norme sul mercato del lavoro, il collegato lavoro, il ruolo di queste agenzie. Se penso al processo e non alla data è soprattutto a questo che penso, perché altrimenti non so ‘come fare male’. Faccio più male se faccio capire che noi precari ci stiamo organizzando per mettere in campo una serie di rivendicazioni, che non sono sindacali, ma riguardano processi politici e forme di vita. Se tutti i precari insieme si incontrano in un’assemblea dentro al luogo di lavoro come il nostro, magari confluendo dai vari territori, magari a singhiozzo, magari per un mese, questo può avere molto più impatto. In questo mondo di frammentazione, pensare a forme che ci possano rappresentare è complicato. Quando parliamo di presa di parola parliamo di questo, del fatto che l’autonarrazione è finita e bisogna occupare, riappropriarci di spazio pubblico con le pratiche che ognuno ritiene più idonee a mostrare una condizione che è sia soggettiva sia collettiva.
Un oggetto di riflessione nel percorso dello sciopero precario è il fatto che la funzione pubblica – chiamiamola così anche se non è facile distinguere pubblico e privato – ha una specificità. Definire chi si colpisce e come si colpisce non è immediato. Ma c’è anche il problema di coinvolgere altri lavoratori, che magari non sono precari contrattualmente ma sono in quella filiera della funzione pubblica di cui voi siete un nodo, e allora la costruzione di connessioni può diventare una delle poste in gioco nel processo dello sciopero precario.
Prima dicevo che non conosco altri lavoratori del Ministero. Ma ci sono alcuni nostri colleghi che svolgono nella sede del Ministero le mansioni che dovrebbero svolgere gli stessi dipendenti del Ministero. Per cui questa è una forma di relazione che abbiamo con i lavoratori del Ministero, e quindi di fatto un contatto esiste.
Qual è la prospettiva attuale della vertenza che state portando avanti, come si sta ridefinendo la situazione e cosa pensi del 15 ottobre?
Rispetto alla questione di lavoro nell’agenzia, abbiamo un problema che riguarda i 17 licenziati, tra cui ci sono io, che hanno continuato il contenzioso. Molti di noi hanno fatto ricorso e siamo quasi tutti in scadenza, io fra venti giorni, gli altri il 31 dicembre. Quindi non solo è difficile che ci rinnovino, ma ci rinnoverebbero con un contratto a progetto ancora una volta e accettarlo significherebbe abbassare la soglia della rivendicazione, cedere al ricatto del reddito e rinunciare a dichiarare l’illegittimità del contratto a progetto. Fra venti giorni mi troverò nella situazione in cui il contratto sarà in scadenza e bisognerà vedere cosa mettono nel piatto. Un altro centinaio di ricorsi nell’ambito dell’agenzia sono in una fase più matura: alcuni si stanno concludendo bene, molti ricorrenti sono stati riconosciuti come lavoratori subordinati, altri sono ancora in fase processuale. Noi avremo cura di osservare quello che sta succedendo nei contenziosi in atto. Poi però si tratta di pensare a un piano industriale e a una regolazione dei rapporti di lavoro, sia nei rinnovi che nel reclutamento, che segua parametri certi, grado di anzianità lavorativa, età, carico familiare, competenza, funzione strategica rivestita nel tempo lavorando in azienda, e questa è una parte rilevante nella vertenza. Si tratta anche di stabilire tutele cosiddette “più leggere” che riguardino tutti gli atipici, a prescindere dall’anzianità e dai criteri che ho elencato, quindi una continuità del reddito, l’accompagnamento all’uscita dal processo produttivo, un potenziamento degli ammortizzatori, che per noi sono inesistenti, tutele per le donne madri, misure di conciliazione anche per i padri, formazione, mobilità, assistenza sanitaria. Dall’altra parte c’è il piano più alto, che affronteremo nell’assemblea del 10 novembre, che riguarda il collegato lavoro, le politiche sul mercato del lavoro, la nuova lettera di intenti che indica una nuova deregulation del mercato e dei rapporti di lavoro e che chiede ancora di più sacrifici al pubblico impiego. L’assemblea deve muoversi sul piano della piattaforma rivendicativa ma anche sul quadro normativo e politico in atto, sulla crisi strutturale del mercato del lavoro. Ci vuole un salto di qualità e bisogna far capire ai Ministeri, la nostra controparte, che hanno a che fare con una fascia di precariato cognitivo che non solo sa leggere i processi di precarizzazione ma che conosce anche le norme, le procedure, perché le possiede come contenuto del suo lavoro, e ha una competenza in mano che non è irrilevante.
Rispetto al 15 ottobre, mi muovo tra l’emotività ancora forte e il giudizio politico di attivista che ha preso parte a un percorso, al percorso dello sciopero precario, e che teme ora il suo depotenziamento. Voglio parlare di noi, non dell’angolo di mondo in cui cercano di relegarci e dal quale bisogna uscire in fretta continuando e ricominciando a parlare di politica. Tagliando con l’accetta la ricchezza straordinaria di quella giornata, abbiamo dimostrato un grande limite: l’autoreferenzialità. Non abbiamo saputo comunicare, non abbiamo parlato al nostro referente sociale (che siamo anche noi) ma abbiamo parlato solo al nostro piccolo pezzo di mondo militante, in un quadro di contrapposizione tipico del provincialismo italiano, anche dei movimenti, che non ha saputo guardare alla dimensione transnazionale di questa giornata e alla sua chiara cornice politica della crisi irreversibile della rappresentanza. Anche noi dobbiamo metterci nell’ottica di riconoscere che non siamo in grado di rappresentare nessuno, semplicemente creiamo connessioni, relazioni, offriamo opportunità, ci riappropriamo di spazio pubblico e lo mettiamo a disposizione, perché venga riempito di contenuti ‘altri’. Le pratiche che sono state messe in campo, parlo ovviamente di quelle che i nostri variegati percorsi hanno chiamato come proprie, un po’ machiste, un po’ anche militarizzate nella forma e nell’immaginario, hanno portato avanti a mio avviso processi escludenti anziché inclusivi, cadendo nella logica della separatezza dal ‘corpo’ e dal cuore della giornata (perché se ne criticava giustamente la gestione corporativa). Questo è il mio parzialissimo punto di vista ma non significa che si chiuda tutto attorno al 15, né voglio entrare nel dibattito dicotomico violenza/non violenza, brutti e sporchi/belli e buoni. Sono andata alla manifestazione con le mie figlie piccole e questo basti a far capire come volevo vivere quella giornata. Non bisogna chiudersi sul problema delle pratiche che hanno avuto luogo in quella giornata, ma bisogna rilanciare in avanti, perché stavamo e stiamo andando nella giusta direzione rispetto alla lettura dei processi di precarizzazione della società.