Il debito è la forma della guerra nel tempo della precarietà. Come ogni guerra essa riguarda tutti, ma non colpisce tutti allo stesso modo. Ci siamo sempre opposti alla guerra in quanto distruzione immotivata della vita di milioni di proletari. Oggi rifiutiamo il debito per la sua azione distruttiva sulla vita di milioni di precari. Dobbiamo però guardare dentro al debito, come è sempre stato bene guardare dentro alle guerre. Trasformare questa coazione universale in una liberazione collettiva impone di trasformare questa guerra in una lotta per altri obiettivi e con altri metodi. Di sicuro non vogliamo combattere una guerra per altri, in nome di equilibri, risanamenti, necessità economiche. Per noi non c’è la guerra al debito, proprio perché il debito stesso è una guerra.
Il debito è una lunga e strana guerra scoppiata molti anni fa. È stata combattuta prima in Africa, in Asia e in America latina. Con la crisi essa è arrivata negli Stati uniti e in Europa, diventando immediatamente una sorta di guerra santa universale. Coloro che da anni sono sottoposti alla violenza devastante dei piani di aggiustamento strutturale guardano ora con stupore la guerra santa al debito che travolge l’Occidente. Con occhio quasi esperto osservano irlandesi, greci, spagnoli e italiani atterriti di fronte a imposizioni tanto simili a quelle che li hanno impoveriti e espropriati negli ultimi decenni. C’è così chi questa guerra la combatte per la seconda volta, perché è migrato alla ricerca di una vita migliore. La crisi non ha viaggiato solo seguendo le rotte di titoli improbabili e di finanze creative, ma anche inseguendo lungo i percorsi migratori l’insubordinazione di milioni di uomini e di donne che da decenni non accettano di sottostare alle imposizioni dei padroni del debito. I migranti sono i primi a sottrarsi alla ricerca spasmodica della stabilità e delle compatibilità strutturali. Ora tutti sembrano dover fare i conti con il debito e con la sua crisi. L’uguaglianza di fronte al debito è però una pessima uguaglianza.
Non siamo tutti uguali di fronte al debito. Non esistono di fronte al debito fedeltà nazionali da salvaguardare. Se la barca dello Stato sembra affondare in un mare di debiti, la soluzione non può essere quella di affogare alcuni per salvarne altri, magari in un futuro che nessuno vede. Non è nemmeno un problema di chi sta al timone. La barca non va più. Di fronte al mercato degli Stati, di fronte al debito pubblico venduto, comprato e rivenduto ad altri Stati e ad altri fondi di investimento, c’è chi vagheggia il ritorno alla piena sovranità statale e monetaria. Non si rende evidentemente conto che la crisi del debito è anche la crisi irreversibile di quella sovranità e del suo modo di stare dentro i movimenti del capitale. Nello stato presente delle cose nessuno Stato ci salverà. Non solo perché ogni Stato è già abbondantemente occupato a salvare banche e istituti di credito, ma soprattutto perché il lento dissolvimento di ogni sovranità monetaria nazionale impone a ogni Stato la subordinazione a poteri globali preoccupati della produzione complessiva di profitti. Sembra così arrivato il momento in cui ogni Stato, assieme alla sovranità sul proprio bilancio, rinuncia anche a finanziare la produzione e la distribuzione di tutti quei servizi che possono generare profitti. Da questo punto di vista, quello che a noi interessa, il trionfo del capitale finanziario è la ricerca costante di fare profitto su scala industriale su ogni istante dell’esistenza di donne e uomini. È però abbastanza futile considerare il capitale finanziario come lo stadio evolutivo nella storia del capitale che supera definitivamente il capitale industriale e l’oscena materialità del lavoro manuale. Quando arriva in Europa il plusvalore, estratto in modo massiccio e brutale nelle lontane fabbriche dell’Asia o dell’America latina, al miope occhio d’Occidente appare solo come capitale che si scambia con se stesso: esso sembra perdere ogni traccia del rapporto sociale che globalmente lo produce, per diventare un’irreale attività finanziaria tra capitali. Non è così. Magari lo pretende, ma nemmeno il capitale finanziario può emanciparsi dall’infamia originaria dello sfruttamento del lavoro operaio. La globalità senza confini del capitale non può sovrapporsi, fino a cancellarla, a quella altrettanto evidente del lavoro. Come la pretesa di un reddito incondizionato non è un problema contabile, così la guerra del debito non è un problema di bilancio o di insolvenza. Dentro il capitale finanziario c’è la precarietà globale del lavoro in tutte le sue forme.
Senza nostalgia e senza paura dobbiamo riconoscere che il grido: indebitati di tutto il mondo unitevi! rischia di nascondere troppe differenze e di farci trovare in compagnia di figuri poco raccomandabili. C’è una notevole differenza tra i diversi clienti di Equitalia. In maniera del tutto iniqua, Equitalia non distingue tra quelli ai quali preleva un quinto del salario per non aver pagato i biglietti sull’autobus, con le relative multe accumulate, e quelli ai quali impedisce di fare affari con lo Stato perché non hanno pagato le tasse o non hanno rispettato le quote latte. Equitalia stabilisce un’iniqua e falsa uguaglianza. Se guardiamo su scala globale dentro il debito, noi riconosciamo chi non può pagare il mutuo della casa e chi non può restituire i finanziamenti allo studio. Riconosciamo chi è indebitato con istituti finanziari più o meno privati per pagarsi il viaggio migratorio o perché semplicemente non riesce a comprarsi i mobili. Oltre il debito pubblico riconosciamo un’infinità di debiti nominalmente privati che ovunque ipotecano la vita di uomini e di donne non appena questi cercano di migliorare la propria esistenza. Se indebitarsi è diventata una calamità quasi ineluttabile, trafficare col denaro è sempre un affare.
Siccome non crediamo alle guerre sante e universali, vogliamo distinguere non solo tra i nostri nemici, ma anche tra i nostri amici. Rivendichiamo il diritto all’insolvenza, sapendo che non è il diritto che qualcuno può garantirci, sapendo che nessuno punirà chi non rispetta questa nostra pretesa. Non si tratta di fare la guerra al debito, perché nel debito la guerra c’è già. È una questione di classe. Trasformare la guerra universale al debito nella nostra liberazione dal debito e dai suoi padroni sarà l’esito della nostra lotta, del nostro rifiuto individuale e collettivo della precarietà come forma selettiva e gerarchica di coazione al lavoro. Migrazioni e precarietà, infatti, sono il debito visto dalla nostra parte. Migrazioni, precarietà e il lavoro operaio nascosto e ignorato in luoghi di produzione sempre decentrati sono processi connessi della stessa guerra quotidiana che, mentre ristruttura le politiche pubbliche, investe l’esistenza di milioni di persone. Dal nostro punto di vista noi vediamo un debito inestinguibile nei confronti di migranti, precari e operai. Trasformare la guerra del debito nella nostra lotta significa connettere precari, migranti e operai. Noi saremo insolventi per cominciare a riscuotere l’inestinguibile debito accumulato nei nostri confronti.