giovedì , 21 Novembre 2024

Notizie dalla fabbrica verde: la Capitanata

di MIMMO PERROTTA e DEVI SACCHETTO

Notizie dalla fabbrica verdeDa Lampedusa al grand ghetto di Rignano Garganico, passando per Borgo Mezzanone. La storia di Diawara mostra in maniera sorprendentemente lineare come il mercato del lavoro si intrecci con la legislazione sull’immigrazione mettendo a dura prova molti dei discorsi sulla cittadinanza. Partito dal Senegal nel 2008, Diawara, 25 anni, approda a Lampedusa dopo un viaggio durissimo. I suoi compagni di sbarco sono per lo più del Gambia e, sperando in maggiori possibilità nella domanda dello status di rifugiato, Diawara dichiara di provenire dallo stesso paese. Come altri, anche lui cerca di infilarsi nelle ambiguità delle artificiose definizioni della legislazione italiana: profughi, migranti, rifugiati. Il «cambio» di cittadinanza non sempre provoca dolorosi dubbi sulla propria identità e, come Diawara sa bene, può garantire una stabilizzazione in Italia a fronte dell’espulsione certa riservata ai senegalesi.

Trasferito al Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Borgo Mezzanone, Diawara esce dopo otto mesi, in attesa che la Commissione si esprima sulla sua domanda. Forse non casualmente il Cara, situato nel Comune di Manfredonia, a pochi chilometri da Foggia, è nel bel mezzo della Capitanata, dei campi di pomodori, finocchi, carciofi e melanzane. Diawara finisce in quello che gli africani del Sud Italia conoscono come il grand ghetto, o «ghetto di Rignano», anch’esso a una decina di chilometri da Foggia.

Il grand ghetto è probabilmente il più grande insediamento di braccianti stagionali africani nel Sud Italia. Una manciata di casolari nella pianura che porta al Gargano, nei quali d’inverno vivono una ventina di persone ma ai quali d’estate, secondo alcuni testimoni fin dal 1992, si affiancano decine di baracche costruite con quanto i braccianti riescono a recuperare nelle vicinanze: tubi di ferro, rami di alberi, teli di plastica delle serre. Centinaia di migranti provenienti da tutta l’Africa occidentale: burkinabè, ghanesi, maliani, nigeriani, senegalesi. E, nonostante l’assenza di energia elettrica e di acqua corrente, ci sono tutti i servizi necessari a una cittadina: negozi di alimentari e di abbigliamento, macellerie, bar e ristoranti, discoteche (una è gestita da una rumena), meccanici, parrucchieri, prostitute. Diawara vive al ghetto qualche mese finché, senza un soldo, cede alle lusinghe di un «caponero» senegalese che gli offre un lavoro presso un agricoltore locale. Tre euro all’ora, ai quali vanno sottratti cinque euro per il trasporto.

Nel pieno della raccolta del pomodoro i casolari della Capitanata sono pieni di migranti di tutte le provenienze. Non lontano dal grand ghetto c’è un insediamento di rom rumeni. Altri insediamenti di maggiori dimensioni di migranti africani sono più o meno celati nei campi: a Borgo Mezzanone sono in 500 ad abitare nei container dismessi dal Cara; a Stornarella, in un edificio chiamato «Ghanahouse», vivono in un altro centinaio; a Borgo Tre Titoli in un altro grande «ghetto», seguito da Emergency, sono svariate decine. Emergency, assieme ai Padri Scalabriniani, che hanno attivato un Campo di lavoro di volontari, è presente anche al ghetto di Rignano. Dal primo agosto il Comune di Foggia ha ripristinato il servizio di bagni chimici e la fornitura di acqua in grosse cisterne, necessari per migliorare la vita di questi braccianti.

«Foggia è il nostro inferno, più di Napoli e Rosarno», dice Amoudi, un congolese che ha lavorato per anni nelle grandi raccolte del Sud Italia e che, dopo la rivolta di Rosarno del gennaio 2010, ha partecipato alla costruzione dell’«Assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma». A Foggia il cottimo e il caporalato sono la regola. Chi è più forte fisicamente guadagna di più. Per un Amoudi che afferma orgoglioso e forse con qualche esagerazione: «io posso raccogliere fino a 60 cassoni di pomodori al giorno», c’è un Diawara che dice «io ne faccio al massimo una decina. La prima volta che sono andato sul campo, in un giorno ho raccolto 4 cassoni. Ho guadagnato 7 euro».

«I capineri non sono violenti – racconta Amoudi – anzi, semmai siamo noi che ci incazziamo con loro, perché sappiamo che ci rubano dei soldi. Il problema è che se uno alza la voce poi non lo prendono più a lavorare». E Diawara: «alcuni di loro al ghetto neanche ci vengono. Stanno a Foggia e poi pagano gli autisti. Dei cinque euro che io pago al caponero per il trasporto, uno o due euro li prende chi guida la macchina o il furgone». Diawara si è affrancato dal caporalato: «il padrone ha visto che lavoravo bene e mi ha detto che mi teneva senza il caponero. Mi ha dato una casa e ora mi paga 3,50 all’ora. Io guadagno un po’ di più, ma lui ha risparmiato molto, io non so quanto pagava al caponero per me». Certo, la casa che ora Diawara condivide con altri quattro braccianti africani è un semplice capanno in tufo per gli attrezzi, però ci sono acqua e luce ed è vicino ai campi di pomodori, carciofi e finocchi in cui Diawara lavora. «A volte lavoro anche nella raccolta meccanizzata del pomodoro. Anche lì faccio lavori pesanti, sposto i cassoni vuoti sui rimorchi». Il contratto c’è, anche se il padrone segna solo poche giornate, quelle sufficienti perché Diawara riceva il sussidio di disoccupazione. Sempre che la domanda di rifugiato politico, dopo due precedenti dinieghi, vada ora a buon fine.

Difficile pensare che al grand ghetto o in un altro dei luoghi abitati dai braccianti stranieri in Capitanata possa nascere uno sciopero come quello di Nardò. È arduo persino arrivarci al grand ghetto, orientandosi in queste strade dissestate. Nella pianura più grande del Sud Italia è invece facilissimo trovare braccianti disposti a lavorare, di tutte le nazionalità. Alcuni caporali rumeni portano qui le loro squadre direttamente dalla Romania, braccianti che talvolta si offrono per bassissimi salari, non conoscono una parola di italiano e finita la raccolta ritornano a casa. La loro presenza è un elemento di forza per il padronato locale e i lavoratori africani lo sanno bene, poiché lo sperimentano anche nella piana di Gioia Tauro. Tuttavia le voci si diffondono e le esperienze di lotta e mobilitazione dei braccianti africani, da Rosarno a Nardò, da Roma a Castelvolturno, si fanno più frequenti. E magari anche i rumeni quest’anno si sono stancati di caporali e di paghe da fame.

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