di MIMMO PERROTTA e DEVI SACCHETTO
Boreano, un pugno di case e una chiesa, è una delle prossime tappe di alcuni dei braccianti africani provenienti dalla Masseria Boncuri di Nardò. Questa distesa di campi nel comune di Venosa (Potenza), dove le colline dal monte Vulture declinano verso le pianure pugliesi, non lontano dall’insediamento Fiat nella Piana di San Nicola di Melfi, racconta le contraddizioni di decenni di storia del Sud Italia. I campi sono dominati dalla Masseria Rapolla, ormai quasi abbandonata. Gli anziani ricordano la «signorina», proprietaria di migliaia di ettari che negli anni quaranta affrontava, fucile in pugno, le centinaia di braccianti che occupavano i «suoi» terreni. Anche grazie a quelle lotte, la Riforma agraria nel 1951 espropriò alla signorina Rapolla buona parte delle sue proprietà, distribuite poi con metodi clientelari: chi aveva la tessera della Dc ottenne qualche ettaro di terra, mentre a buona parte dei comunisti rimase solo la magra scelta di emigrare. Nell’intenzione dei democristiani, gli ex-braccianti, ora piccoli contadini, dovevano trasferirsi a Boreano, anche per spezzare le solidarietà di paese, spesso ostile al partito di governo. Ma sia il villaggio sia i casolari sparsi nei poderi circostanti rimasero vuoti.
Negli anni settanta alcuni agricoltori di Venosa e dei vicini comuni di Lavello, Palazzo San Gervasio, Melfi cominciarono a coltivare pomodori, sulla spinta di commercianti e industriali conservieri campani. Nella vicina Gaudiano, un altro villaggio della Riforma che ebbe maggiore fortuna rispetto a Boreano, a fine anni settanta fu costruito un importante conservificio per trasformare i pomodori lucani. Dai primi anni novanta braccianti, studenti, casalinghe e pensionati locali furono progressivamente sostituiti dagli immigrati nella raccolta. Il villaggio abbandonato di Boreano fu tra i primi siti che questi braccianti – e i loro caporali – scelsero come riparo e base operativa nei mesi della raccolta, tra agosto e ottobre. Per anni non c’è stata alcuna iniziativa istituzionale a favore dei lavoratori stagionali; poi, dal 1999, a Palazzo San Gervasio un Campo di accoglienza gestito dal Comune e da associazioni locali accolse ogni anno, in condizioni per la verità piuttosto critiche, diverse centinaia di migranti. Ma alcune squadre di braccianti, soprattutto provenienti dal Burkina Faso, hanno continuato a preferire il villaggio di Boreano, diventato una copia minore del grand ghetto di Rignano Garganico nei pressi di Foggia. Fino al 2009, quando il proprietario di un vicino agriturismo li cacciò a fucilate – impunito – e si arrogò il diritto di murare le costruzioni del villaggio. Senza scomporsi troppo, i braccianti burkinabé si spostarono di qualche centinaio di metri, in altri casolari abbandonati, in situazioni sempre più disagiate: senza luce, acqua, riscaldamento e un chilometro di strada sterrata da percorrere.
Nel frattempo, alcuni burkinabé si sono stabiliti nei paesi della zona e hanno costruito contatti con gli agricoltori locali inventandosi caporali: organizzano le squadre che raccolgono i pomodori e forniscono ai braccianti un tetto e alcuni servizi a pagamento (acqua, cucina dei pasti, trasporto al lavoro o in altri luoghi, ricarica dei cellulari, prestiti di denaro). Come nel foggiano, la presenza di manodopera a basso costo e disponibile a orari di lavoro flessibili e indefiniti ha permesso a molti agricoltori di evitare gli investimenti in macchine raccoglitrici: i braccianti sono pagati a cottimo, tra i 3 e i 4 euro a cassone di 300 chili, e una parte del salario viene trattenuta dal caporale, che talvolta è un amico o un parente.
Nel 2010 il sindaco di Palazzo decise di non aprire più il Campo di accoglienza, mentre l’attività istituzionale si concretizzò nel monitoraggio della situazione da parte di un’associazione, che girò per i casolari con il «Cam_per i diritti». Nella scorsa primavera (2011) nel luogo dove sorgeva il Campo di accoglienza è stato costruito un Centro di detenzione (Cie), a seguito degli sbarchi dalla Tunisia.
In questi giorni inizia la raccolta del pomodoro e nei casolari di Boreano sono già arrivati circa 150 braccianti, per lo più burkinabé e ghanesi. Alcuni di loro sono rimasti qui tutto l’inverno: non sapevano dove andare e hanno trovato impiego e ospitalità in alcune aziende locali. Altri sono qui da maggio per piantare i pomodori prima e per zappare le erbe infestanti poi; nel frattempo qualcuno ha lavorato qualche giornata nei campi di cipolle, lenticchie e peperoni. I primi, operai licenziati o cassintegrati e ragazzi di seconda generazione figli di operai, sono arrivati dalle città del Nord, dove torneranno a inizio settembre per cercare opportunità migliori. Omar ha 22 anni, viene qui quasi ogni anno con suo zio da Vicenza. Con accento veneto racconta che nei giorni scorsi ha zappato i terreni di pomodoro, per 3,50 euro all’ora, anche 10-12 ore al giorno. Arrotonda i guadagni andando in paese a comprare ricariche per i cellulari, che rivende ai connazionali a prezzi leggermente maggiorati. Bans ha 23 anni e viene da Treviso: racconta che ieri un caporale ghanese che vive nel casolare a fianco lo ha portato con altri 26 braccianti verso Napoli, per lavorare in un campo di cipolle. Quattro euro all’ora per otto ore di lavoro, e i soliti cinque euro per il trasporto al caporale. Quattro ore di viaggio in condizioni infernali e otto ore di lavoro duro per 27 euro. «Anche se ho bisogno di soldi domani non ci torno», conclude. Blaise, 19 anni, da Modena, aggiunge: «io non ci sono proprio andato, stamattina. Quando ho visto la situazione sul furgone sono scappato. Pazienza se non mi prenderà più a lavorare. Qualche giorno fa ci ha fermato la polizia, quando hanno aperto il furgone e hanno visto tutta quella gente hanno fatto finta di niente e gli hanno detto di andare».
Con qualche giorno di ritardo sta arrivando invece la gran massa di quanti risiedono in Campania (tra cui molti richiedenti asilo e qualche irregolare), alcuni di loro con qualche giornata già passata nel foggiano. Ousmane, un caporale burkinabè che risiede a Casal di Principe ha aperto una settimana fa il «suo» solito casolare e aspettando l’inizio della raccolta revisiona il suo furgone rosso; i membri della sua squadra arrivano alla spicciolata, avvertiti con un tam tam che arriva fino a Bergamo e Brescia. Abou, 24 anni, arriva da un paese del napoletano sperando che il suo caponero dell’anno scorso recuperi e distribuisca i 5.000 euro non ancora pagati dall’agricoltore per cui la sua squadra raccolse più di cento ettari di pomodori. «Quest’anno cambio caporale», dice.
Quando parliamo dello sciopero in corso a Nardò e leggiamo gli articoli sui giornali, con le foto di braccianti africani che parlano al megafono, si sente un misto di approvazione e scetticismo. Qui uno sciopero è più complicato, perché i braccianti sono isolati nelle campagne e il crumiraggio è più agevole potendo contare sui tanti «ghetti» del foggiano o sui lavoratori bulgari e rumeni che vivono nei paesi e che sarebbe più difficile coinvolgere in una mobilitazione.
Nelle prossime settimane i casolari di Boreano e di tutta la zona saranno pieni da scoppiare; Caritas diocesana e Osservatorio Migranti Basilicata, come avviene ormai da anni, cercano di alleviare le difficoltà dei braccianti portando acqua e altri beni necessari, mentre la Regione ha stanziato 70mila euro con il consueto ritardo, che impedisce di progettare interventi «strutturali», condannando per l’ennesima volta alla logica dell’emergenza. Anche qui, come altrove nelle campagne meridionali, i migranti raramente riusciranno a parlare con qualche dirigente sindacale. Il sistema di lavoro e i livelli salariali non sembrano quindi destinati a mutare a meno che il vento di Nardò non arrivi fin qui.