di MIMMO PERROTTA e DEVI SACCHETTO
«Ci avete ricordato come si fa uno sciopero», dice Nicola, un militante della Rete antirazzista di Bari, durante l’assemblea tenuta ieri alla Masseria Boncuri di Nardò dalle Reti antirazziste e delle associazioni pugliesi. Un’assemblea affollata, almeno cinquanta persone – cariche anche di cibo e sostegno concreto agli scioperanti – venute da tutta la Puglia, ma anche dalla Basilicata, dalla Calabria, da Bologna e altre città del Nord, e che ha mostrato quanto il Campo di Nardò, dove i braccianti africani sono in sciopero da più di una settimana, sia diventato un punto di riferimento per le lotte dei migranti. Arturo, dell’Associazione Equosud, arrivato dalla Piana di Gioia Tauro, ha ricordato con forza ai lavoratori di Nardò che questo è un evento storico: è la prima volta che braccianti stranieri impegnati in agricoltura decidono di scioperare per rivendicare diritti legati al lavoro e per spezzare il sistema del caporalato. E lo fanno in modo auto-organizzato.
Yvan, uno dei leader della mobilitazione, ha raccontato le varie fasi dello sciopero, senza tacere le difficoltà: «alcuni di noi sono tornati al lavoro perché non capiscono, altri perché sono minacciati dai caporali». È orgoglioso Yvan, e con lui gli altri protagonisti di questo sciopero, di quanto ottenuto finora, e consapevole dei passi da fare nei prossimi giorni, a cominciare dall’incontro in Prefettura a Lecce lunedì mattina. L’assemblea mette in luce diverse sensibilità: le Reti antirazziste pugliesi sostengono la necessità di organizzare nelle prossime settimane a Bari una manifestazione regionale, allargata ad altre realtà del Sud Italia, che parli non solo dello sciopero di Nardò, ma anche di quanto sta avvenendo al Cara di Bari e ai migranti «ospitati» a Manduria; altri discutono invece di come aiutare i migranti a dare seguito allo sciopero o ad altri tipi di mobilitazione nei territori delle prossime raccolte, a Foggia, a Palazzo San Gervasio, a Rosarno.
Qui pesa soprattutto l’assenza di realtà provenienti dalla Capitanata: la raccolta del pomodoro è già iniziata e i vari «ghetti», sparsi su un territorio vastissimo, sono pieni. La dispersione territoriale della raccolta nel foggiano rende complicato uno sciopero; a questo si aggiunge la presenza massiccia di lavoratori est-europei. Ma gli scioperanti di Nardò guardano lontano: prendono contatti diretti con le realtà che lavorano in altri territori, progettano assemblee e momenti d’incontro. Ai margini dell’assemblea, italiani e africani discutono, scambiano idee, raccontano, chiedono spiegazioni. Moussa, un burkinabé appena tornato dal lavoro, ci racconta che la sua squadra, di una ventina persone, oggi ha riempito un camion di pomodorini; ciascun operaio ha fatto dai 3 ai 6 cassoni, pagati 6 euro l’uno. E il caporale? «Non lo so. Se io ho preso 6 euro a cassone, lui ne avrà presi 8. E in più gli ho dato 5 euro per il trasporto». Moussa è scettico sullo sciopero: «è tutto uguale a prima. Anche prima ci pagavano 6 euro per i pomodorini. E il potere dei caporali è intatto». E i blocchi stradali contro i furgoni dei caporali? «Sì, ci sono, ma molti sono andati a dormire nelle campagne pur di andare a lavorare. Soprattutto gli irregolari, perché loro un contratto non ce l’avranno mai». È chiaro il peso della Bossi-Fini e della gerarchia tra gli status giuridici che questa produce, e dunque delle divisioni che determina anche tra i lavoratori migranti.
Pur con qualche eccezione, il cottimo è tuttavia aumentato e quanti lavorano sono ingaggiati con contratti «veri». D’altra parte, come racconta Omar, un nigerino che conosce bene l’Italia meridionale, alcuni caporali per rompere il fronte degli scioperanti «sono andati a prendere persone a Foggia per farle lavorare qui. Questa lotta è difficile». Omar, che nel frattempo ha trovato un impiego in un negozio di Nardò, concorda con quanto ha appena espresso Yvan in assemblea: «è necessaria una legge nazionale contro il caporalato. Se fare il caporale fosse un reato penale, loro avrebbero molto meno potere». C’è forse, in questo, un certo ottimismo, soprattutto perché, come dimostrano le leggi sul’immigrazione e sulla precarietà, lo sfruttamento avviene continuamente con il sigillo della legalità, dentro la quale si esprimono niente più che rapporti di potere. Ma questo è chiaro per i braccianti di Nardò, che con lo sciopero vogliono affermare proprio una posizione di forza.
John, bracciante ghanese, si informa dai lucani sulla situazione di Palazzo San Gervasio, dove tra qualche settimana inizierà la raccolta del pomodoro. A Palazzo anche quest’anno non sarà allestito alcun campo di accoglienza, mentre alcuni casali sono stati abbattuti dai proprietari, sicché quanti vorranno lavorare dovranno insediarsi nei casolari abbandonati nelle campagne. L’unica «accoglienza», a Palazzo San Gervasio, è quella che passa dal centro di detenzione appena costruito. A dimostrazione del fatto che i CIE continuano a essere strutture portanti del mercato del lavoro. E non stupisce allora che John disegni una croce con le mani e dica convinto: «no, quest’anno a Palazzo non ci vengo».
Una delle proposte dell’assemblea è quella di costruire una rete dei lavoratori africani del Mezzogiorno d’Italia che si appoggi alle realtà associative che operano nei vari territori, per offrire servizi coordinati e sostenere le rivendicazioni dei braccianti. Questo sciopero mette ancora una volta in luce in realtà una questione strutturale dell’agricoltura meridionale, che da vent’anni scarica le proprie contraddizioni e le proprie crisi sui lavoratori migranti. La Masseria Boncuri costituisce un laboratorio politico, e il nucleo duro degli scioperanti ne sembra consapevole. Se n’è accorto persino il procuratore Cataldo Motta, capo della Dda di Lecce, che in un’intervista pubblicata nelle pagine regionali di Repubblica, ha affermato: «Gli immigrati negli ultimi mesi ci hanno dato una grande lezione di civiltà… Dovremmo imparare ad avere coraggio, prendendo esempio da chi lo ha avuto pur essendo in una condizione di grande debolezza».
I migranti sono però stretti dalla necessità di conseguire un salario in fretta, sia per le necessità immediate sia perché altrove la crisi economica internazionale è ben peggiore di quanto si viva in Italia: «Abbiamo tutti le nostre famiglie, qui o in Africa, a cui mandare del denaro», afferma Omar. Sebbene più della metà dei migranti sia ritornata nei campi, chi resiste spera di ottenere un miglioramento nelle condizioni di lavoro qui a Nardò, per essere poi più forti altrove nei prossimi mesi. Come spesso accade sono i migranti a segnalare le nuove frontiere della precarizzazione del lavoro, e questa volta anche a indicare la possibilità e i modi di lottare contro di essa. Vista la violenza con cui in questi ultimi mesi il capitalismo internazionale sembra esprimersi, c’è da augurarsi che la lotta della Masseria Boncuri possa effettivamente costituire una possibile risposta.