mercoledì , 25 Dicembre 2024

14 novembre: farsi valere in massa e non retrocedere

Farsi-valere-in-massa-300x198di CHRISTOS GIOVANOPOULOS – Dikaioma, network of precarious and unemployed workers, Atene

∫connessioni precarie ha chiesto a Christos Giovanopoulos del collettivo Dikaioma di Atene un intervento per contribuire al dibattito sulla situazione europea in vista del prossimo 14 novembre. Non si tratta di una semplice corrispondenza, ma dell’inizio di un dialogo che speriamo costante per costruire connessioni sullo sciopero e contro la crisi. 

Il 14 novembre sarà un giorno importante. Siamo nel pieno di una crisi che, nonostante gli usi e abusi del riferimento alla governance, non accenna a trovare un governo credibile. Eppure le misure prese in continuazione contro la crisi pretendono di governare milioni di persone in vista di un futuro costantemente posticipato. Il 14 novembre migliaia di uomini e di donne sono intenzionati a scioperare per dimostrare che non vogliono essere trattati come gli effetti collaterali della crisi.

Preparare questa scadenza significa per noi riflettere sulla situazione che la rende una necessità impellente e quasi irrinunciabile. L’urgenza della situazione è enorme e ormai quasi intollerabile. Eppure questo non basta. Il 14 novembre la Grecia sarà uno dei luoghi più rilevanti d’Europa. In Grecia l’urgenza delle cose è ormai oltre ogni limite immaginabile solo qualche anno fa. Eppure, nonostante tutto questo, in Grecia come altrove, fatica a consolidarsi un’opposizione sociale che si traduca in organizzazione complessiva delle differenze che stanno maturando dentro la crisi. Il mirato e sistematico impoverimento della società greca avviene dentro un quadro noto, eppure spesso trascurato. L’intervento di Christos restituisce questo quadro con i suoi contorni nitidi e agghiaccianti. In Grecia il depauperamento delle risorse individuali e collettive è funzionale alla creazione di una disponibilità generalizzata a farsi sfruttare. In queste condizioni è quasi superfluo parlare di processi di precarizzazione. Quando la precarietà diventa la forma generale dello sfruttamento capitalistico, essa non è più qualcosa cui si possa porre un rimedio particolare. Non è un’eccezione, ma la regola. Essa non è solo il modo per mettere al lavoro alcuni individui, ma la soluzione per ristrutturare intere società, per inserirle – magari come Free Economic Zones – dentro lo spazio europeo nella società mondo globale. Qui l’espropriazione materiale si trasforma direttamente in spossessamento politico, nell’impossibilità di decidere in misura anche minima sulla propria esistenza.

Eppure non c’è nessuna nostalgia per la perduta sovranità dello Stato. C’è la constatazione della minaccia presente alla possibilità di decidere collettivamente. Quella doppia espropriazione mostra che nessuna mistica dei territori ci salverà. I territori sono attraversati da contraddizioni profonde. Mentre sono costretti a difendere la riproduzione della vita immediata, in Grecia come in Spagna e in Italia, i territori sono attraversati da processi che non iniziano né si concludono al loro interno. Di fronte a queste contraddizioni laceranti emerge l’immane inerzia della politica rappresentativa che promette di ristabilire l’unità politica anche dove ormai è impossibile. Da questo punto di vista “Alba dorata” è solo l’estrema espressione di quella politica. Essa promette non solo di imporre con la forza l’unità politica, ma anche di ristabilire l’omogeneità sociale, eliminando tutti i nemici interni, primi fra tutti i migranti. La forza di inerzia della politica rappresentativa non è però un problema greco. Essa è per tutti noi un pezzo importante del problema politico collettivo di organizzare risposte contro la coazione all’unità con cui si vuole governare la crisi.

Il 14 novembre migliaia di donne e di uomini si faranno valere in massa dentro a questa situazione. Nonostante l’ambiguità delle convocazioni sindacali, la loro scarsa credibilità, la disillusione che, in Grecia come altrove, potrà pesare su quella giornata, il 14 novembre può essere una situazione di massa che mostra la forma europea del nostro problema, ma non la sua soluzione immediata. Eppure sarà il giorno per farci valere in massa e non retrocedere, sapendo che non è una giornata, non è un evento, che potrà risolvere il nostro problema; sapendo però che proprio con la sua dimensione di massa il 14 novembre può dare una forma diversa al nostro problema. La rivoluzione non è dietro l’angolo, scrive saggiamente Christos. Eppure questa affermazione non deve essere presa come un cedimento alla terribile violenza della situazione. Con i compagni greci noi sappiamo che tutto ciò che ci manca per svoltare l’angolo non ci sarà regalato dalla situazione. Prima e dopo il 14 novembre quello che ci serve per uscire dall’angolo dobbiamo mettercelo noi.

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Diversamente da quel che si può essere indotti a credere, la rivoluzione in Grecia non è dietro l’angolo. Dopo tre anni di lotte è ormai chiaro quanto sia difficile disfare e decostruire un intero sistema politico ed economico, anche quando vacilla. E in Grecia, in effetti, vacilla: sul piano nazionale stiamo facendo esperienza di una crescente distruzione sociale, che non investe soltanto la classe operaia e i lavoratori salariati, ma anche la piccola borghesia. Più di 100.000 attività commerciali hanno chiuso i battenti negli ultimi due o tre anni. La riforma fiscale che sarà introdotta con il terzo memorandum (che sarà votato in parlamento il 7 novembre) minaccia l’esistenza di più di un milione di piccoli e medi lavoratori autonomi e commercianti, e di 600.000 agricoltori. Per quanto riguarda i numeri, è importante sottolineare che, secondo il censimento del 2011, la popolazione greca era di poco inferiore a dieci milioni, almeno uno in meno del 2001, e che è in corso una notevole ondata di migrazioni dalla Grecia verso il resto d’Europa, l’America del nord e l’Australia. In altri termini, stiamo facendo esperienza di un processo di rapida e massiccia proletarizzazione. Tutto questo, insieme alla precarietà che è la forma di lavoro dominante in Grecia (dove il tasso di disoccupazione reale è superiore al 30% e quella giovanile più del 52%) rende ridondante ogni concezione «tradizionale» della politica di classe o della lotta di classe. Questo aspetto è cruciale, e apre una discussione più ampia in merito alla forma della lotta di classe in un paese caratterizzato da un’economia di servizi, che dipende dalle importazioni per soddisfare le sue necessità essenziali, e il cui tessuto sociale è caratterizzato principalmente da piccoli proprietari e lavoratori autonomi. In poche parole, comunque, è possibile dire che la questione centrale nella contestazione e per la sopravvivenza del popolo greco è la necessità di una politica praticabile di difesa dell’intera società e delle sue forze produttive (tanto il “capitale vivo” quanto quello materiale).

Ci sono molti esempi concreti di come i memoranda cercano di trasformare la Grecia in una Free Economic Zone (a vantaggio delle metropoli europee, e specialmente del capitale tedesco), un processo che lega nelle sue maglie strette una guerra di classe totale contro i lavoratori e l’attacco al diritto di un popolo a esistere come società auto-determinata. In una delle versioni del terzo memorandum (non c’è ancora un testo completo, non è neppure disponibile per i membri del parlamento che dovranno approvarlo o rigettarlo mercoledì prossimo) si afferma che «in accordo con le finalità delle politiche nazionali, la popolazione avrà accesso ai beni pubblici fondamentali (acqua, gas, elettricità) e alle infrastrutture, per l’interesse nazionale, a condizione che ciò soddisfi il trattato europeo e le corrispondenti normative ausiliarie», ovvero con il memorandum stesso.

In questo contesto ambivalente e complesso, tutti noi in Grecia siamo messi alla prova. Da una parte, la radicalizzazione della società greca assume forme diverse (come risultato e indicatore del fatto che le forze che hanno finora tenuto insieme le classi sociali e le realtà politiche dominanti sono diventate centrifughe), e rende prioritaria una lotta per l’egemonia. All’interno di questo terreno fluido, diventa di importanza cruciale come si definiscono il campo – e di conseguenza i discorsi – di questa lotta. Dall’altra parte, come risultato di questa completa delegittimazione del sistema politico, della disarticolazione della sua capacità di produrre consenso e della rapida polarizzazione sociale, vediamo emergere una polarizzazione politica tra la sinistra radicale e i fascisti, e un (pressoché) completo ritorno allo Stato di polizia del periodo successivo alla guerra civile. Usando il discorso dei «due estremi», lo Stato e la borghesia preparano lo scenario di un possibile default e/o di una Grexit, una situazione nella quale Alba dorata può essere un’alternativa al collasso totale e immediato delle forze politiche dominanti, per evitare che la sinistra radicale prenda il potere.

Il 28 ottobre c’è stato l’anniversario della «giornata del No», che celebra la resistenza greca ai fascisti italiani e ai nazisti tedeschi. Alba dorata ha minacciato di prendere parte alle celebrazioni, con l’intento di appropriarsi della lotta di liberazione nazionale e antifascista della resistenza greca (guidata dai comunisti) degli anni ’40 del Novecento. Tuttavia, quelli che hanno fatto appello affinché la parata si trasformasse in protesta (soprattutto gente legata a SYRIZA, ma anche ANTARSYA e gli anarchici) in diversi quartieri hanno preso in mano le celebrazioni, e i fascisti non si sono fatti neppure vedere. A Tessalonicco, invece, dove si è tenuta la parata militare principale e dove la gente l’anno scorso si è scatenata provocando la caduta del governo di Papandreou, è stata imposta una zona rossa intorno al luogo nel quale erano concentrati gli ufficiali, e per la prima volta una nuova forza dell’esercito è stata utilizzata per proteggere il sito. Questo è uno sviluppo decisamente pericoloso, una prova generale contro il «nemico interno».

In Grecia il rapporto tra lo Stato e i fascisti segue logiche che sono comuni ad altri paesi in Europa, ma con alcune differenze di carattere quantitativo. Non dobbiamo dimenticare che la dittatura militare in questo paese è finita solo quarant’anni fa, che il suo personale non è mai stato spazzato via dalla «democrazia» post-dittatoriale, e che solo in un caso – durante i radicali anni ’70, e a causa di una bomba cieca fatta esplodere in un grande magazzino, un fascista è stato mandato in galera. La questione dell’impunità di politici, polizia e fascisti in Grecia, il diretto finanziamento di Alba Dorata e altri gruppi di estrema destra da parte di socialdemocratici e conservatori per i propri interessi opportunistici, l’aperta promozione dei neo-nazisti portata avanti dai media (che nelle ultime settimane hanno adottato modalità meno eclatanti per promuoverli) e soprattutto la costante presenza dei fascisti come Stato nello Stato (soprattutto nella polizia e – in misura minore – nell’esercito) non sono solo casi isolati, ma illustrano una situazione differente, più vicina all’esempio dell’America Latina. Lo «Stato debole» greco ha sempre bisogno del pugno di ferro di nazionalismo e fascismo contro il nemico interno, soprattutto ora che qualunque nozione di consenso sociale è collassata, e deve essere rimpiazzata dalla paura della legge e dell’ordine.

Così, ogni volta che pensiamo di «averli in pugno», un momento dopo siamo costretti a realizzare quanto siamo lontani dalla rivoluzione. Più che altro, sembrerebbero i flussi e reflussi delle maree. Penso che il processo (incompleto) della primavera araba sia veramente rilevante per ciò che sta accadendo in Grecia e le nostre pratiche dovrebbero essere influenzate da queste esperienze, non meno che da quelle praticate in America Latina negli anni duemila. Molta gente, soprattutto dopo l’estate, è stata spiazzata dalla promozione da parte dei media (ed è necessario ammettere che non si trattava di un’impressione infondata) di Alba dorata, che ha amalgamato i suoi voti in una presenza sociale più concreta e permanente; dall’altra parte, si è affermata l’esistenza di qualcosa di più, qualcosa di più grande, più radicale, più forte per cambiare le cose, per fermare la Troika, il governo, le banche. Questo mostra tanto l’inefficacia degli strumenti, delle tattiche, della cultura politica di resistenza, ma anche la dura preminenza delle politiche «rappresentative». Molti dicono «dovremmo prendere le armi», «deve scorrere il sangue perché le cose possano cambiare» (queste frasi sono usate molto spesso, e da gente non necessariamente politicizzata), ma al momento di agire esitano. Allo stesso tempo, però, confermano la loro volontà di partecipare e fare qualcosa su piccola scala, nelle lotte locali (reti di solidarietà, partecipazione agli scioperi). Ad esempio, la partecipazione agli ultimi due scioperi generali e alle rispettive manifestazioni ha superato ogni aspettativa: più di 100.000 persone ad Atene e più di 250.000 in Grecia, con la partecipazione di piccoli commercianti che in numerose città hanno chiuso i loro negozi. Tuttavia, tutto questo ha avuto luogo senza una seria mobilitazione da parte dei sindacati, ugualmente delegittimati a causa della loro posizione difensiva. È un fatto che i sindacati decidono una data e fanno un appello generale, e la gente partecipa pur sapendo che non é abbastanza, che non porterà da nessuna parte, ma con la consapevolezza che è necessaria presentarsi in massa e non rimanere nella retroguardia.

Da questa situazione emerge, prima di tutto, la mancanza in questo conflitto di un fine e di un soggetto politico capaci di fornire un contesto alternativo, che faccia convergere la galassia di piccole lotte verso una prospettiva comune, che si assuma la responsabilità, il rischio e i costi di combattere per questo fine. Questo è ciò che manca a SYRIZA. L’unica forza che si fa carico di tutto questo, presentando se stessa come il salvatore dell’intera nazione, per quanto semplicistico, pericoloso e in sintonia con l’ideologia dominante possa essere, è Alba dorata.  Questo, insieme alla sua retorica di contrasto al sistema politico, è la ragione principale della sua forza. Inoltre, un ambiente come questo segnala un cambiamento qualitativo rispetto a periodi precedenti, durante i quali siamo stati messi alla prova tanto a livello personale quanto a livello collettivo. Pensate a come un uomo o una donna possano sentirsi quando pensano di essere i bersagli dei teppisti di Alba Dorata del loro quartiere. Oppure, sul piano della politica centrale, che cosa significherebbe sollevare un movimento sociale per rovesciare il governo o il sistema politico sapendo di non avere le forze per farlo, un’alternativa praticabile e le forze sociali per supportarla, con i fascisti dietro l’angolo come piano B del sistema. Soltanto in un momento come questo può farsi strada un nuovo tipo di attivisti e radicali di sinistra, più determinati e anch’essi in condizioni di bisogno, ben diversi dai politici di lusso degli ultimi 30-40 anni.

In Grecia, allora, la questione è come possiamo fermare il deterioramento della situazione esistente e, soprattutto, come possiamo in questo modo costruire le condizioni sociali e politiche e un movimento che sia pronto a seguire la strada di un cambiamento sociale. Lo sciopero del 14 novembre è uno sviluppo positivo, anche per i cambiamenti che produce a livello di immaginario nel modo in cui parliamo della crisi, delle alleanze e delle lotte che possiamo fare, come emergenza di una diversa configurazione transnazionale o di geopolitiche regionali che non si limitano al quadro europeo. Negli anni recenti, in Grecia, gli appelli internazionali hanno avuto una particolare attrattiva. Non esprimono solo un afflato internazionalista, ma in modo strano sono stati un effetto della retorica dominante del progressismo eurocentrico, che ha spinto i greci a guardare altrove per ottenere risposte, e a pretendere di stare al passo con la più recente «global fashion». Questo è un fattore positivo, per quanto contraddittorio, sul quale si può costruire qualcosa. Tuttavia, ci sono diverse questioni che investono l’efficacia dello sciopero. La precarietà, è la condizione predominante del lavoro e ancora una volta i sindacati hanno solo proclamato lo sciopero ma il popolo (o la moltitudine) si materializza con una mobilitazione di basso livello (ad esempio, in luoghi di lavoro investiti da una specifica disputa industriale) o informale. Se solo i disoccupati partecipassero, ci sarebbero centinaia di migliaia di persone per le strade. Questo solleva la questione di che cosa si intenda oggi per sciopero generale. E dobbiamo tenere in mente anche l’uso e l’abuso di questo termine e di questo strumento di lotta, in Grecia, da parte dei sindacati sistemici. Può sembrare qualcosa di grosso in Europa, ma lo sciopero generale in Grecia non è considerato qualcosa di particolare, è ha perso molta della sua radicalità.

La questione fondamentale in merito al successo o all’insuccesso dello sciopero del 14 novembre riguarda il fatto che il memorandum entrerà in parlamento il 5 e sarà votato il 7 novembre. Questo definisce in Grecia il terreno della prossima battaglia. Se le due date fossero coincise, allora lo sciopero transnazionale avrebbe rafforzato quello locale. Ma il voto del memorandum è un altro indicatore dello stato di «dittatura parlamentare» del regime della Troika in Grecia. Sarà votato come caso d’emergenza, il che è quanto meno ironico dal momento che è stato lì a cuocere per più di quattro mesi, e in realtà riguarda le misure che la Grecia avrebbe dovuto adottare circa un anno fa, dopo il 26 ottobre del 2011, la data del secondo salvataggio finanziario. Oltre a questo, l’intero memorandum e le misure di austerity saranno condensate in un unico articolo, cioè in un pacchetto compatto, nel disperato tentativo di evitare che i deputati del governo di coalizione (la cosiddetta Troika interna) rifiutino misure davvero oltraggiose, soprattutto quelle relative ai tagli delle pensioni e alla deregolamentazione del mercato del lavoro. La tattica di SYRIZA contro il terzo memorandum comprende tre vie possibili: cercare di evitare che entri in parlamento, fare in modo che non sia votato affatto oppure, se venisse approvato, bloccare la sua implementazione. È una buona tattica, ma fino a pochi giorni fa SYRIZA non ha fatto nulla per organizzare se stessa e la gente per un simile conflitto. Questo ha a che fare con la consapevolezza, da parte di SYRIZA, che se il memorandum non passasse ci sarebbero nuove elezioni. In questo caso diventerebbe il partito maggioritario ma dovrebbe formare un governo di minoranza, perché nessuno è disposto a stringere alleanze con SYRIZA. Molti hanno paura che questo sia un piano alternativo delle forze politiche sistemiche per fare in modo che la bomba del default e di una Grexit scoppi nelle sue mani. In ogni caso, il dilemma non è se SYRIZA si senta pronta a portare il paese al di fuori di questo circolo vizioso di debiti e memoranda, ma se voglia guidare la lotta per difendere le vite e il futuro dei greci. Giovedì scorso un parlamentare di SYRIZA, Lafazanis, leader euroscettico e lavorista della corrente di sinistra Synaspismos (maggioritaria nel partito), ha detto in un confronto televisivo che SYRIZA non è pronta a stare nel governo. Questo è stato ovviamente un regalo alle forze favorevoli al memorandum, che il giorno prima erano riuscite ad approvare con solo due voti di maggioranza la completa privatizzazione dei servizi di pubblica utilità – una delle precondizioni necessarie che la Troika ha preteso per versare la prossima rata di finanziamenti alla Grecia. Persino i giornali di destra titolano sulle prime pagine «Il sistema vacilla», «Incertezza per il memorandum» e così via. Di certo, l’affermazione di Lafazanis ha provocato scandalo tra la gente di sinistra, compresa la maggioranza di coloro che votano per SYRIZA e i membri di Synaspismos, mentre i media se ne sono serviti a beneficio del sistema, per affermare che non ci sono alternative. È stato questo incidente, in un certo senso, a scuotere gli alti livelli di SYRIZA, particolarmente Tsipras, che hanno fatto appello per una mobilitazione massima fino a mercoledì prossimo, che significa la partecipazione alle due giornate di sciopero generale del 6 e 7 novembre (con una manifestazione dei sindacati il 6, e un accerchiamento del parlamento mercoledì sera durante il voto).

Il risultato di questa lotta determinerà il destino di quella del 14 novembre. La sensazione è che se il memorandum sarà approvato, la sconfitta e la completa distruzione di quel che restava del welfare state provocheranno un diffuso senso di disillusione, piuttosto che un’altra ondata di rabbia. Fino a questo momento, non c’è stato un riferimento alla mobilitazione per questo sciopero, se non in piccoli circuiti della sinistra radicale, attraverso Facebook e nei social media. Può sembrare paradossale, ma quelli che enfatizzano lo sciopero del 14 novembre – compresi alcuni dei vertici di SYRIZA, soprattutto di Synaspismos – senza fare nulla per organizzarlo, sono gli stessi che minano alle fondamenta la possibilità che la gente prevenga il voto del memorandum, e non osano provocare la caduta del governo. Questo ha a che fare con la loro convinzione che non ci sia altra soluzione se non a livello europeo, cosicché escludono ogni possibilità che possa causare una crepa nell’architettura e nelle strutture europee, e un conflitto della Grecia con esse.

In termini generali, non ci si può aspettare una particolare organizzazione da parte dei sindacati. Forse i gruppi politici di SYRYZA e la sinistra extra-parlamentare, che fa riferimento ai sindacati di base, mobiliterà di più, ma fino a questo momento l’unico movimento che abbiamo visto sono appelli individuali su Facebook. In Grecia, però, diciamo che il tempo politico in questo periodo è condensato, e che questo fa sì che ogni previsione rischi di cadere. La mancanza di un movimento con una strategia e una forza organizzativa per metterla in pratica certamente non aiuta

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