venerdì , 22 Novembre 2024

Leggere Marx a Venezia. Enwezor e la rappresentazione del capitalismo alla Biennale d’Arte 2015

grapes_of_wrath_1di  PIETRO BIANCHI

Vi è una celebre sequenza all’inizio di Grapes of Wrath, il film capolavoro di John Ford tratto dal romanzo di Steinbeck, in cui vediamo Tom Joad che dopo essere uscito di prigione torna nella fattoria di famiglia e la trova vuota, distrutta e abbandonata. La terra è stata confiscata dalle banche e la sua famiglia se n’è dovuta andare verso la California a cercare un lavoro e un salario migliori. Ma com’è possibile – si chiede Tom – che una banca possa impossessarsi della terra dove i Joad vivevano da più di cinquant’anni come se niente fosse? Che cosa è successo? Muley – un uomo che si era accampato tra le rovine della casa abbandonata dei Joad e che si era rifiutato di fuggire in California – interpellato da Tom Joad racconta chi sono i veri responsabili di ciò che è successo. In tre minuti di emozionante flashback John Ford non solo ci fa vedere come funziona concretamente il procedimento di confisca delle terre nell’Oklahoma con grande lucidità politica, ma ci mostra anche in un distillato di fulminante chiarezza uno dei problemi più enigmatici e complessi della modernità capitalistica: come si manifesta il capitalismo? Che volto ha quando appare nelle nostre vite? Qual è la sua immagine?

Il flashback ci riporta al giorno in cui arriva un emissario dei proprietari terrieri che affittavano il campo dove lavorava Muley e che consegna un ordine di sfratto ai contadini affittuari. L’uomo spiega come ormai il sistema di mezzadria non funzioni più: gli investitori non riescono nemmeno ad arrivare in pari perché oggi basta un uomo e un trattore per coltivare 12 o 14 di quei campi. È sufficiente pagarlo con un salario e prendersi tutto il raccolto. Discorso chiuso. Muley prova a replicare dicendo che per loro è già difficile andare avanti con quello che prendono adesso: i bambini fanno la fame, sono vestiti di stracci. Al che l’uomo taglia corto dicendo che lui non ha deciso nulla e sta solo eseguendo degli ordini. «E allora di chi è la colpa?», chiede un bracciante. «È della Shawnee Land and Cattle Company» risponde l’uomo. «E chi è?» replica il contadino. «Nessuno. È una società». Al che il contadino iniziando a spazientirsi comincia a chiedere a chi debba andare a chiedere conto di quanto sta succedendo, magari con un fucile. Ma con un regresso all’infinito le responsabilità scivolano via continuamente: ci sarà pur un presidente di quella società? Ma gli viene risposto che non è colpa sua. Allora la colpa è forse della banca che gli dice cosa fare? Ma anche lì le decisioni vengono prese semplicemente da un direttore, che nemmeno è in grado di stare dietro a tutte le cose che deve fare. «Dunque a chi spariamo?» chiede uno dei braccianti; al che l’uomo d’affari replica: «Amico, proprio non lo so. Se lo sapessi te lo direi. Non lo so di chi è la colpa».

Già, di chi è la colpa per quella disperazione e quell’ingiustizia? Delle banche? Dell’uomo d’affari che viene a portare la notizia di sfratto? Del proletario loro amico, che è disperato quanto loro e che guida il trattore che va a distruggergli la casa per qualche manciata di dollari all’ora? Chi di loro è il vero volto del capitalismo? Qual è la causa e il motivo di questo processo che pare così astratto e impersonale da risultare costantemente opaco? Con chi dobbiamo prendercela? Questa domanda rappresenta ancor’oggi un rebus politico di capitale importanza, soprattutto in un’epoca in cui il circuito di produzione del valore è diventato ormai così stratificato e complesso da rendere invisibili i centri decisionali reali. Se tutti, dai piccoli caporali ai grandi manager dei gruppi finanziari internazionali sono solo degli emissari del capitale, che devono eseguire delle decisioni che vengono prese altrove – esattamente come l’uomo d’affari di Grapes of Wrath – chi è allora la causa e il responsabile del capitalismo? Dove sta la sua agency? La domanda per l’azione politica che vuole trasformare il capitalismo è allora ancora oggi quella del bracciante delle dust bowls: a chi bisogna puntare il fucile? Chi è il colpevole?

1. Questa domanda che ci pone l’urgenza di riconoscere il volto e l’immagine del capitalismo a fronte della molteplicità confusa e dispersiva del reale è implicitamente il filo rosso che guida l’ultima Biennale d’Arte di Venezia (in programma fino al 22 Novembre 2015, tutti i giorni dalle 10 alle 18, escluso il lunedì), curata dal nigeriano Okwni Enwezor e che era già stata analizzata criticamente su questo sito da Felice Mometti. Il capitale, per usare le parole del curatore, «oggi incombe più di qualsiasi altro elemento su ogni sfera dell’esistenza» e organizza non soltanto «lo stato delle cose» ma anche «l’apparenza delle cose»: ovvero, come le cose si rendono manifeste e acquisiscono un volto e diventano un’immagine nel nostro mondo. È un punto di grande importanza e nient’affatto scontato: il modo di produzione capitalistico non è solo un principio di organizzazione della struttura produttiva del mondo, è anche la logica del suo apparire sensibile e concreto. La sfera dell’estetica dunque, che si sforza di pensare il sensibile, dovrà necessariamente fare i conti con il capitalismo, la produzione di valore e la sua logica. Tuttavia qui si pone subito un problema: perché il capitalismo – come sa bene Muley in Grapes of Wrath quando vuole andare a prendere a fucilate i responsabili del suo sfratto – non si dà mai a vedere in quanto tale. Quello che noi quotidianamente abbiamo di fronte agli occhi è una realtà strutturata come una molteplicità disordinata di particolari: una miriade di punti di vista che sembrano tutti irrelati gli uni agli altri e che paiono tutti in competizione l’uno con l’altro. Il capitalismo non è un particolare tra gli altri. È semmai la logica che sottostà al principio della loro relazione. È la forma della loro struttura connettiva. Come dice il geografo David Harvey in una delle istallazioni video in mostra a Venezia (Kapital 2013 di Isaac Julien) il capitale è come la forza di gravità: non è da nessuna parte eppure i suoi effetti si vedono ovunque.

Questo problema diventa evidente quando si vuole andare a cercare l’immagine per eccellenza del capitalismo: ad esempio in quei documentari politici che pensano che per comprendere lo sfruttamento del mondo del lavoro basti andare a osservare l’attività lavorativa nella sua concretezza immediata (cosa che, detto per inciso, in sé fa tutt’altro che male, come si vede in questa Biennale nel bellissimo video The Guilds and Unions Film di Joachim Schönfeldt che ci mostra l’attività lavorativa come un puro dispendio di energia fisica). Il problema non è che andare a vedere come la gente lavori sia sbagliato: il problema è che per capire la specificità capitalistica dello sfruttamento del lavoro è necessario andare a vedere anche quello che c’è prima e che c’è dopo l’attività lavorativa concreta. Bisogna riuscire a vedere accanto al dispendio di energia fisica anche l’organizzazione della produzione, il mondo del credito e della finanza che regola le politiche d’investimento, i mercati azionari, il circuito della logistica, la sfera della circolazione e il consumo etc. Bisogna vedere tutte queste cose in una sola immagine. Il capitalismo ci richiedere di cogliere i particolari non per come sono in sé, ma dal punto di vista del loro tessuto connettivo. Il problema è che banalmente questo tessuto connettivo non ha un modo di manifestazione immediato. Non c’è un luogo in particolare in questo mondo dove lo possiamo andare a vedere con i nostri occhi. Questa immagine insomma, ce la dobbiamo creare noi tramite una mediazione estetica e sensibile. Ed è qui che le arti visive e il marxismo entrano in relazione l’una con l’altra.

2. Nel testo di presentazione firmato da Enwezor che si può leggere all’ingresso del Padiglione Centrale dei Giardini vediamo citato il nome del regista sovietico Sergej Ėjzenštejn, che è una figura fondamentale per comprendere questi problemi relativi alla rappresentazione del capitalismo. Fu infatti proprio lui, prima di ogni altro, che nel 1928 iniziò a riflettere sul problema della messa in forma d’immagine del capitale tramite il progetto di un film – che purtroppo non venne mai portato a termine e che è arrivato a noi sottoforma di appunti di lavoro – che doveva basarsi proprio sul libro di Marx. Ėjzenštejn aveva ben in mente che il capitalismo non è un oggetto che può essere osservato e guardato come se avesse uno statuto di realtà empirico. La natura del capitalismo è quella di essere il principio connettivo di una molteplicità di particolari: bisogna quindi mettere insieme in una stessa immagine la molteplicità degli elementi di cui è composto (secondo la celebre formula di Ėjzenštejn «il cinema ‘antico’ riprendeva un’azione da molti punti di vista. Quello nuovo monta un punto di vista da molte azioni»). Il modo di produzione capitalistico è infatti composto nello stesso tempo della sfera della produzione agricola e manifatturiera e dei mercati azionari; del sistema bancario e del circuito della logistica e dei trasporti; della sfera della circolazione e del consumo e dei lavori domestici e di cura, etc. Sono capitalistici i broker di Wall Street come gli ingegneri di Bangalore, i camionisti del polo della logistica di Piacenza come gli operai della Boeing negli Stati Uniti, le badanti moldave che si prendono cura degli anziani non autosufficienti come i braccianti agricoli nordafricani. Il capitale è la coesistenza di tutti questi particolari (o meglio, di tutti questi spazi) all’interno di una stessa logica. Come possono allora il cinema o le arti visive dare corpo a ciò che esiste nel capitalismo senza limitarsi a guardare i singoli particolari irrelati e separati tra loro?

Secondo Ėjzenštejn la risposta stava nel montaggio dialettico: un procedimento che attraverso la giustapposizione di immagini anche molto lontane tra loro, riusciva a «mettere in scena» la loro causalità non empirica e invisibile. Per lui il cinema sarebbe stato in grado di spiegare al contadino analfabeta o all’umile operaio come funzionasse lo sfruttamento del modo di produzione capitalistico senza passare per la faticosa complessità dell’opera di Marx, attraverso la pura connessione di immagini.

Sebbene questo procedimento non mantenne in definitiva le promesse che il regista sovietico si augurava, tuttavia il problema estetico posto da Ėjzenštejn con i suoi appunti su Il Capitale rimane ancora oggi di grande attualità. È infatti lo stesso problema che si è posto Okwni Enwezor nel momento in cui si è chiesto quale potesse essere il principio connettivo che mettesse insieme la molteplicità centrifuga delle forme estetiche del contemporaneo. Ci si domanda spesso, soprattutto in occasione di eventi come le biennali d’arte o Manifesta, quale possa essere la chiave di lettura o il filo rosso che tiene insieme la proliferazione di forme estetica che caratterizza la contemporaneità: una molteplicità che pare aver perso qualunque tipo di norma o razionalità, se è vero – come sostiene Fredric Jameson – che la specificità del tardo capitalismo dopo la crisi del modernismo è proprio quella di non avere uno stile dominante.

La forma-biennale costringe però a fare ciò che parrebbe massimamente impossibile: ovvero compiere un’operazione di organizzazione e di catalogazione dell’arte contemporanea; in altre parole spinge i curatori a cercare un filo rosso laddove un filo rosso in realtà non c’è. Enwezor – con un termine molto significativo anche se forse non privo di qualche ambiguità – ha allora voluto definire la molteplicità di forme artistiche presenti a Venezia come un «parlamento delle forme». Tuttavia il richiamo alla democrazia parlamentare, con la sua coesistenza regolamentata di differenze, rischia di essere ingannevole. La presenza così diffusa di Marx tra i riferimenti teorici di Enwezor ci suggerisce di adottare un’altra chiave di lettura, che invece che accettare l’assenza di una qualsivoglia norma estetica nella molteplicità di oggetti artistici la va a cogliere nel loro tessuto connettivo invisibile: c’è effettivamente qualche cosa che orchestra e organizza questa polifonia sensibile. E si chiama capitale.

3. Il riferimento a Marx alla Biennale di Venezia non va allora letto in termini direttamente politici (tra le opere della mostra di Enwezor si parla pochissimo di capitalismo contemporaneo) quanto più prettamente formali. Il problema della molteplicità delle forme che assume il capitalismo è infatti per Enwezor analogo alla molteplicità di forme e di immagini che si affastellano nel «modello biennale» stesso, con il suo tentativo di dare una rappresentazione onnicomprensiva dello stato dell’arte della contemporaneità. Era infatti questo il punto sul quale si era soffermata la splendida Biennale del 2013 di Massimiliano Gioni: per quest’ultimo la riflessione sulla «forma Biennale» era inseparabile dal bisogno (psicoanaliticamente ossessivo) della catalogazione onnicomprensiva del sapere. In un gesto meta-curatoriale Gioni si era allora concentrato su tutte quelle esperienze artistiche e intellettuali che avevano messo al centro il bisogno di totalizzazione del sapere: cioè la volontà di dire l’ultima parola – di chiudere il cerchio, di trovare il luogo esterno e fondativo – della molteplicità delle forme estetiche del reale. Gioni invece che tentare di trovare lui un filo rosso che razionalizzasse il molteplice artistico contemporaneo aveva deciso di mettere a tema il bisogno stesso di quella ricerca.

Il gesto marxiano, o meglio ejzenštejniano, di Enwezor invece – e sta qui la sua tesi curatoriale forte di quest’edizione – è quello di vedere il molteplice dal punto di vista della sua impossibile totalizzazione. Perché quello che il problema della rappresentazione del capitale insegna al mondo dell’arte è che il molteplice non può mai diventare un «Uno» ed essere guardato e rappresentato come se fosse un oggetto. Il capitale è il tutto che organizza e orchestra le miriadi di particolarità che fanno parte del mondo, ovvero tutte quelle cose che appaiono in questo mondo e di cui si dovrebbe occupare l’estetica e l’arte. Quello che però non possiamo fare – noi come spettatori ed Enwezor come curatore – è di pensare di totalizzarle: perché non esiste il luogo da cui poterle guardare tutte insieme. Non c’è l’elemento stand-in che segna il cortocircuito tra la parte e il tutto e che ci indica il punto di vista particolare che incarna l’universalità del tutto: come in Grapes of Wrath non c’è il responsabile a cui può essere imputata la colpa dello sfratto e che possiamo andare a prendere a fucilate. Così non possiamo pensare che sia possibile portare a termine una catalogazione onnicomprensiva del sapere, come invece pensava Massimiliano Gioni, perché il capitale è ovunque e in nessun luogo. In un certo senso non possiamo che guardarlo dall’interno, a partire da un’irriducibile parzialità. Il problema della rappresentazione del capitalismo – se lo consideriamo dal punto di vista dell’estetica – è allora un problema topologico: si tratta di uno sguardo che è sempre interno al proprio oggetto e che è destinato inevitabilmente a mancare la sua totalizzazione definitiva.

La prima scelta che allora Enwezor prende per darci l’idea di questa impossibile totalizzazione è riempire le corderie dell’Arsenale e il Padiglione Centrale dei Giardini di opere che sono troppo «grandi» o troppo lunghe per poter essere viste per intero. Va letta in questo modo la decisione di mettere nell’Arena costruita da David Adjave nel Padiglione Centrale la performance di lettura pubblica de Il Capitale di Marx – una serie di attori che lungo tutti i sette mesi di apertura della Biennale si alternano a leggere per 4 sessioni di 30 minuti ogni giorno i tre volumi del libro di Marx per intero. Quella che sembrerebbe quanto meno una bizzarria – Il Capitale è uno dei libri meno adatti in assoluto ad una lettura pubblica – si comprende invece con il tentativo di far sentire sempre lo spettatore «in mezzo» a un’opera che gli è impossibile vedere per intero. Sempre nell’Arena vi è anche un programma di 23 film che riguardano in qualche modo la presenza del capitalismo al cinema (da Chahine a Chris Marker, da Isaac Julien a Straub/Huillet, da Charlie Chaplin Ritwik Ghatak) e che vengono proiettati a rotazione ogni giorno: contando che alcuni di essi durano anche diverse ore è letteralmente impossibile che uno spettatore abbia la possibilità di vederli tutti nella loro interezza. Ma anche alle Corderie vi è un’installazione con tutti i film della carriera di Harun Farocki, così come ai Giardini vi è un’installazione con 3 schermi dove si può vedere News from Ideological Antiquity, il lungometraggio di 9 ore (ovvero, più dell’orario di apertura della biennale stessa) che Alexander Kluge ha dedicato al mancato film di Ėjzenštejn su Il Capitale.

Ma vi sono anche molte altre opere che mettono a tema la presenza di un’impossibilità interna e di una mancata totalizzazione del campo visivo o normativo: come Des Jeux dont j’ignore les règles di Boris  Achour o come il bellissimo Swamp di Robert Smithson e Nancy Holt. Quest’ultimo è un video di 6 minuti girato con un 16mm nel 1969 (lo si può vedere su YouTube) che ci mostra la soggettiva di Nancy Holt che cammina in una palude e che può vedere quello che le sta davanti solo attraverso l’obiettivo della macchina da presa: gli unici riferimenti per l’orientamento sono allora le indicazioni spesso frammentarie che le dà la voce off di Robert Smithson. Anche qui il tema è lo sguardo topologico che è interno all’oggetto che deve guardare e che non riesce mai ad appropriarlo nella sua interezza. Con tutta l’angoscia e il disorientamento che una condizione del genere provoca.

4. Vi sono due conclusioni che possiamo trarre dalla Biennale di Enwezor. Innanzitutto c’è da notare come il curatore nigeriano non abbia in alcun modo provato a fare una riflessione sulla rappresentazione del capitalismo di oggi. Durante la mostra veneziana non si parla se non marginalmente del lavoro contemporaneo ed è – forse sorprendentemente – tre le ultime biennali una delle meno attraversate da temi esplicitamente politici (anche se vi sono delle eccezioni importanti come la Theory of Justice di Peter Friedl o come i quadri di Inji Efflatoun). Si tratta invece di una mostra che attraverso il problema dalla modalità di manifestazione sensibile del capitalismo che l’opera di Marx, Ėjzenštejn, Kluge, Julien e altri ci pongono, si domanda se sia ancora possibile oggi ricercare una totalizzazione del molteplice delle forme sensibili. Vuol dire prendere Marx dal punto di vista delle conseguenze che può avere nella sfera sensibile. Marx è allora utile proprio perché attraverso Il Capitale si è posto un problema formale oltre che politico: qual è il principio connettivo che organizza il molteplice in dispersione delle merci della modernità? Dopo la crisi del modernismo e delle avanguardie, dopo l’arte come indistinguibile dalla forma-merce, è ancora possibile trovare un filo rosso nel molteplice delle forme sensibili? In questo senso la riflessione di Enwezor si inserisce nel solco delle ultime due biennali di Massimiliano Gioni e di Bice Curiger perché è anche una riflessione sull’istituzione biennale stessa e sull’operazione di base che la rende possibile: ovvero, la totalizzazione del molteplice. Si tratta in un certo senso un’ulteriore meta-Biennale, con tutti i rischi che un’operazione del genere comporta.

Uno dei principali è proprio quello di intrappolare la riflessione di Enwezor in un eterno loop meta-riflessivo. Dato che il problema di questa Biennale è esattamente il modo con cui si opera una logica connettiva all’interno del molteplice, finisce per essere una Biennale che parla in continuazione di se stessa. È questo uno dei rischi principali di chi vuole tentare costantemente di superare l’immediatezza del particolare per trovare la sua ragion d’essere invisibile: il particolare sensibile finisce per essere cancellato. Non è allora forse senza ironia che l’artista che ha vinto il Leone d’Oro sia stato proprio Adrian Piper, che con Everything Will Be Taken Away (ma anche con The Probable Trust Registry: The Rules of the Game #1-3) ha proprio messo in luce il processo di sparizione del sensibile. Non si può insomma porsi il problema della ragione connettiva del molteplice in modo puramente astratto, tirandosi fuori dal molteplice stesso. Così forse non è possibile nemmeno porsi il problema di come il capitale organizzi l’apparire delle forme sensibili senza partecipare al modo attraverso cui il capitale oggi concretamente organizza il molteplice nel quale viviamo. Lo sguardo, come in Swamp di Smithson e Holt, non si muove mai da un soggetto a un oggetto, ma non può che essere topologico. Ovvero, parziale.

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