Il governo promette un reddito e, per ingannare l’attesa, in tanti si affrettano a dargli un nome. Di quarantena, di emergenza, di cura, di sopravvivenza e perfino di emancipazione. Il reddito, che da molti anni attraversa le rivendicazioni di movimento, muta oggi continuamente di nome e, segnalando un impulso assolutamente condivisibile, aspira a sganciare la riproduzione degli individui dalla riproduzione del capitale. In questo esuberante sforzo di nominazione, più che alle porte dell’Apocalisse sembra di essere tornati alla Genesi dove, come è noto, dare nomi alle cose è un atto di potere e di appropriazione. Ma con quale potere si pensa oggi di rivendicare il reddito e quanto potere dà il reddito? O, in altre parole, di che cosa ci appropriamo con il reddito? È lo strumento per riappropriarci del valore della nostra vita e della nostra cooperazione o entrambe continueranno a essere tritate nella macchina da soldi del capitale?
Qualcuno si è chiesto se il reddito possa aprire un orizzonte di possibilità nel tempo del neoliberalismo sospeso. La domanda è scivolosa ma importante, proprio perché impatta lo statuto insidioso della possibilità. Contro il capitale pandemico è giusto coltivare il senso della possibilità, lottare per costruire quello che non c’è, invece che accontentarsi di mettere una toppa su quello che c’è. Eppure, non possiamo pensare che un orizzonte possibile sia un orizzonte reale meno la sua realtà. Interrogarsi sulle possibilità del reddito significa allora confrontarsi con la sua realtà, sapendo che dovremo scontrarci con gli esiti materiali che esso produrrà. Non possiamo accontentarci dell’intenzione soggettiva di chi lo chiede, altrimenti rischia di essere un lusso che non possiamo permetterci.
La realtà del reddito che con ogni probabilità sarà contenuto nel decreto «Aprile» è un sostegno materiale per tre milioni di individui che, senza possibilità di lavorare, stanno già intaccando i propri risparmi per garantire la propria riproduzione. Che i risparmi ci siano o che siano sufficienti non è scontato vista la polverizzazione dei salari a cui assistiamo da anni. La realtà parla di donne e uomini che non hanno più un reddito o che non ce l’avevano neanche prima, di lavoratori invisibili e in nero, di chi si arrangiava con lavoretti che non ci sono più, di poveri privi di altre protezioni per i quali la fame è uno spettro che, a lockdown invariato, comincia a materializzarsi e a mordere. Il reddito – si parla di una cifra intorno ai 2-3 miliardi – è oggi la risposta a un bisogno reale: il bisogno di una liquidità spicciola, una liquidità incalcolabile a confronto dei 400 miliardi messi a garanzia delle imprese, ma che pure è necessaria per affrontare le domande ineludibili che un frigo vuoto pone. Il reddito è cioè in primo luogo la risposta ai primi assalti ai supermercati che, specie nel Sud Italia, hanno lanciato l’allarme per la tenuta sociale del paese. Il reddito di emergenza è davvero tale. È una toppa al vuoto di legittimità che rispecchia lo stato di sospensione del capitale pandemico. Ecco che allora il feticcio del divano, quello che dominava il dibattito pubblico ai tempi del reddito di cittadinanza, si evoca con più congrua e sommessa prudenza: stare a casa è ormai un obbligo codificato per decreto anche se, a dirla tutta, neanche prima è mai stato una libera scelta per chi l’emergenza e pure l’eccezione è abituato a portarsele in tasca da sempre. Le condizioni vittoriane del reddito di cittadinanza a 5 stelle, rigorosamente prone a un’etica del lavoro da venerare, sembrano per il momento saltate. Per il momento, appunto, ma per quanto tempo ancora? Il reddito che viene concesso ci libererà dalla coazione al lavoro o è solo un gioco di prestigio per sfamare i poveri mentre, nell’attesa che la tempesta passi o quantomeno si attenui, si prepara la loro messa al lavoro a condizioni che già ora non sembrano per nulla rassicuranti? Alla fine di questa accanita battaglia dei redditi combattuta su Facebook, non rischiamo di trovarci con un reddito di transizione tra uno sfruttamento e un altro?
Già le dichiarazioni della ministra Bellanova non lasciano presagire nulla di buono. I campi sono vuoti e i confini chiusi. Migranti per seminare e raccogliere se ne trovano pochi e comunque non ne arrivano. I percettori di reddito hanno però il sorprendente pregio di essere dotati di braccia ed ecco che l’equazione è presto fatta. Non siamo di fronte a un mero renzismo di ritorno, ma alla preparazione della famigerata Fase 2: la fase della convivenza con quell’antico agente patogeno che si chiama lavoro. Confindustria scalpita e il governo ascolta con attenzione, come dimostra il decreto liquidità appena licenziato, che in fondo recepisce molto bene le raccomandazioni delle istituzioni finanziarie e politiche europee. Gli industriali si fregano le mani con gli ultimi incoraggianti dati sui contagi e, dopo aver inondato per due settimane le prefetture con improbabili richieste di deroga al decreto Chiudi Italia, ora pregustano l’imminente riapertura delle fabbriche. Con un infame sforzo di fantasia, il presidente della Confindustria lombarda ha attribuito l’alto tasso di diffusione del contagio nel bergamasco alla «movimentazione del bestiame». C’è da chiedersi se non sia stato un lapsus e quindi un indizio prezioso sulla considerazione che gli imprenditori lombardi hanno degli operai. Considerazione che – siamo pronti a scommettere – difficilmente muterà nei mesi a venire. L’Italia si prepara così a diventare una gigantesca workhouse in cui sarà permesso soltanto lavorare, nutrirsi e possibilmente non occupare troppi posti in terapia intensiva.
È in questo scenario che il reddito e le sue possibilità vanno inquadrati, e in questo scenario il reddito concesso dal governo, unitamente ai bonus una tantum, costituisce niente più che un reddito di transizione a una nuova normalità da ricostruire. Un reddito, cioè, per conservare donne e uomini in attesa di farglielo ripagare attraverso il lavoro, quando si cambierà emergenza e l’economia «dovrà» tornare a girare, quando sarà il capitale a essere affamato dei profitti mancanti nei libri contabili e si troverà di fronte una massa di individui impoveriti e già pronti da spremere. D’altronde, la stessa Confindustria raccomanda strumenti di integrazione al reddito e non solo per questioni di contabilità interne al capitale, che dovrà pur vendere le merci che produce. A fronte di un prevedibile aumento della disoccupazione, il reddito di transizione è la liquidità concessa ai poveri per riprodursi in attesa di poter nutrire le superiori esigenze della riproduzione del capitale. Il regime del workfare non sparisce, ma si dilata nel tempo. E in questo tempo sospeso gli individui si impoveriscono mentre la coazione al salario si indurisce. Da povertà individuali non scaturisce necessariamente movimento. Le condizioni di dipendenza a cui sono sottoposti milioni di donne e uomini ne intensificheranno la frammentazione e l’isolamento. In mancanza d’altro, ciascuno assalterà come può il sito dell’Inps in una corsa che rappresenta plasticamente un collettivo che non c’è. Il reddito concesso dal governo è una misura individualizzante, che punta a mantenere separate condizioni diverse ma che pure convivono sotto lo stesso cielo della coazione al lavoro, quella attuale e quella solo temporaneamente sospesa ma inesorabilmente annunciata. L’assalto a questo cielo richiede qualcosa in più di reddito di transizione nella povertà, la cui elargizione rischia di approfondire la distanza con chi, in numeri crescenti, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle case, nei magazzini continua a svolgere «lavori essenziali» che il reddito non paga, finendo per riproporre quella distinzione tra precari e garantiti di cui pensavamo di esserci liberati.
La logica della concessione non è mai stata d’altronde troppo sgradita al capitale. Ciò che quest’ultimo non ha mai potuto tollerare è che da una rivendicazione possa nascere un terreno di battaglia politica per l’uguaglianza. Proprio perché distinguiamo tra il reddito concesso e il reddito rivendicato e riconosciamo in questa rivendicazione la pretesa di non essere sfruttati fino a morirne, dobbiamo però chiederci quali sono i pericoli dietro alla rivendicazione di un reddito universale. Rivendicando un reddito di autodeterminazione contro la violenza maschile, Non Una di Meno ha messo in primo piano la necessità di lottare contro la subalternità che il dominio maschile continuamente cerca di imporre alle donne con la violenza. Un reddito uguale, indifferente alle differenze realmente esistenti, rischia invece di stendere un velo di uguaglianza aritmetica proprio laddove vi sono gerarchie da rovesciare. Sempre la realtà ci parla di badanti licenziate che, oltre al salario, perdono la casa e, finita la sanatoria a tempo predisposta dal governo, rischiano di perdere anche i documenti. Ci parla di migranti ammassati in centri di accoglienza che la pandemia ha trasformato in Cie, dai quali si può uscire solo per lavorare e tenere in piedi la logistica del paese. Se queste diverse posizioni non vengono riconosciute come terreni di uno scontro tanto possibile quanto necessario, il reddito uguale non sarà all’altezza di sostenere una battaglia politica per l’uguaglianza, ma finirà per produrre effetti differenti e per niente universali.
Guardare la realtà non significa soltanto registrare cinicamente l’esistente, ma pensare a tutto ciò che potrebbe essere e non è ancora a partire da quello che abbiamo. In queste settimane abbiamo visto i magazzini di Amazon fermati da un improbabile sciopero transazionale che, da Passo Corese agli Stati Uniti, ha reso evidente che la formula «se le nostre vite non valgono noi scioperiamo» non riguarda soltanto le donne ma esprime l’urgente pretesa di non dover riprodurre la propria vita alle condizioni imposte dal capitale. Abbiamo visto la reazione del gigante di Seattle che, mentre riclassificava a proprio piacimento i beni essenziali, ha dovuto alzare i salari per amore del business as usual. Abbiamo visto l’arroganza del capitale che, a produzione ferma, chiedeva ai dipendenti di tenere aperti i magazzini per movimentare la merce senza neanche dotarli di mascherine, ovvero mantenendo lo stesso disprezzo per il lavoro vivo con cui è venuto al mondo. Abbiamo visto, però, anche il rifiuto individuale e collettivo di comandi arbitrari, il moltiplicarsi dell’assenteismo, il ritorno dei migranti nei paesi di origine per sottrarsi allo sfruttamento e al contagio e lo scoppio di scioperi improvvisi e spontanei. Abbiamo visto perfino i sindacati confederali costretti a chiamare uno sciopero generale. Non saranno i bastioni di Orione, ma potremmo quasi dire di aver visto l’impossibile.
Ci sono forme scomposte di lotta di classe che il lavoro vivo pratica per sfuggire all’alone di morte del capitale pandemico. Si tratta di lotte che hanno iniziato a guardarsi in faccia l’una con l’altra e a moltiplicarsi prima che il lockdown rispondesse parzialmente alle loro rivendicazioni. Sono lotte che hanno fatto del salario un terreno di scontro politico, rifiutando il comando sul lavoro vivo a cui il capitale aspira perfino in quarantena. Il fatto è che i rapporti di potere insiti nel salario non vanno mai in quarantena e il reddito non li cancella. Nella forma reale in cui verrà erogato, in Italia come in molte altre parti del mondo, esso nel migliore dei casi li terrà sospesi in attesa di ripristinarli con spietata ferocia. La rivendicazione del reddito può quindi rispondere alla pretesa di non essere condannati allo sfruttamento e alla completa dipendenza dal capitale se si incontra con le lotte sul salario, contro le condizioni in cui milioni di donne e di uomini sono quotidianamente messi al lavoro. Non si tratta di contrapporre reddito e salario, ma della consapevolezza che ogni reddito cala comunque sulle differenti condizioni di sfruttamento con le quali ognuno deve fare quotidianamente i conti. Nessun reddito ci libererà dal potere del rapporto salariale. Il punto è se la sua rivendicazione non si limita a sostenere le possibilità di scelta individuale, ma mira a potenziare l’insubordinazione collettiva dentro e oltre la Fase 2 del lavoro patogeno.
La scommessa può essere solo questa perché, al di là della retorica suadente del presidente Conte, non si può moltiplicare la primavera e non la si può nemmeno istituire per decreto. La primavera d’altronde non è una stagione universale. La nostra primavera corrisponde all’autunno del capitale, ma questa combinazione non ce la darà la natura e neanche lo Stato. Per uscire da questo deserto non basta l’eterno ritorno del reddito riqualificato per l’occasione. Non è ancora «tempo di aprile», ma la possibilità vive nelle lotte che abbiamo e che, senza ripetere formule note e come tali inadeguate all’enormità dei problemi del presente, saremo in grado di inventare dentro il tempo lungo della transizione.