Dalla luce dei soviet all’ombra della Rivoluzione d’ottobre fino ad arrivare al buio pesto degli anni successivi, quelli del comunismo di Stato e di partito. In Il potere ai soviet (DeriveApprodi 2017), Pierre Dardot e Christian Laval tracciano in questo modo la parabola dell’assalto al cielo avvenuto cento anni fa. In prima battuta lo fanno confinando l’azione di Lenin, secondo loro anima nera del bolscevismo, in un astratto spazio politico e la sua riflessione teorica in un tempo lineare e uniforme, quasi predeterminato. In Lenin non ci sono oscillazioni, battute d’arresto, soluzioni di continuità dal Che fare? del 1902 fino quasi alla morte avvenuta nel gennaio del 1924. Solo in prossimità della fine Lenin si accorge che la macchina politica del partito-Stato che ha, più di tutti, voluto costruire gli si è rivoltata contro. Burocratismo, conformismo, autoritarismo, repressione violenta del dissenso, nel partito bolscevico sono presenti, per gli autori, già durante la rivoluzione che sovverte la Russia dal febbraio all’ottobre del 1917. Una linea imposta da Lenin che si è concretizzata nel rapporto strumentale del partito bolscevico con i soviet e nel «colpo di Stato leninista» durante l’insurrezione dell’ottobre.
A ben guardare, per Dardot e Laval, l’idiosincrasia di Lenin nei confronti dei soviet ha radici lontane. Risale al 1905 e alla sua incomprensione del contenuto politico e sociale del soviet di Pietroburgo. Da questo punto di vista, sostenere che la controrivoluzione sia cominciata con la presa del Palazzo d’inverno e che «l’ottobre ha segnato la fine del sogno egualitario iniziato a febbraio», mettendo il secondo Congresso dei Soviet di fronte al fatto compiuto, è quasi un passo obbligato. Fin qui Lenin, che «aveva fallito ancor prima di iniziare». La demonizzazione pregiudiziale di Lenin, da parte degli autori, fa il paio con le santificazioni acritiche. Il risultato che ottengono è una sorta di gioco di specchi in cui il demonizzare è il riflesso speculare del santificare. Va un po’ meglio, ma nemmeno più di tanto, per Trockij. Lo schema interpretativo ricorda vecchie polemiche che hanno attraversato per decenni il trotskismo internazionale nel secondo dopoguerra. Al Trockij accettabile del biennio 1904-05 ‒ quello che si scaglia contro il «sostitutismo leninista» in I nostri compiti politici e che ricopre un ruolo di primo piano nel soviet di Pietroburgo ‒ subentra il Trockij dal piglio dittatoriale dei primi anni ’20, che vuole militarizzare la forza-lavoro e i sindacati trasformando in tal modo la società in una caserma. L’ultimo Trockij, quello sconfitto ed esiliato, è una specie di ibrido che accorgendosi, seppur tardivamente, che lo stalinismo non è l’esito della ferocia di un dittatore ma un sistema di potere politico che si afferma azzerando la società, rimane tuttavia convinto che la storia abbia delle leggi ferree e proceda per causalità deterministiche. Scavando un po’ appare abbastanza chiaro che i due autori riesumano argomentazioni tratte dagli scritti degli anni ‘40 e ‘50 di Claude Lefort – uno degli ispiratori del gruppo Socialisme ou Barbarie – sulle «contraddizioni di Trockij». Non si può certo dire che sia una novità interpretativa. La conclusione è che la Rivoluzione russa, a differenza di quella messicana tra gli anni ’10 e ’20 e spagnola di metà anni ’30 del secolo scorso, è stata una rivoluzione politica ma non sociale.
I toni assertivi di Dardot e Laval nel sostenere questa tesi scontano un limite di non poco conto. In tutto il testo non viene affrontata la dimensione sociale della Rivoluzione russa, i rapporti tra i movimenti di classe e l’organizzazione politica, l’articolazione conflittuale tra i settori del partito bolscevico collocati rispettivamente nei soviet, nei comitati di fabbrica e nei sindacati. Tale mancanza non è un caso perché il bersaglio grosso non è Lenin o Trockij e forse nemmeno la Rivoluzione d’ottobre, ma il marxismo che «è degenerato, ben prima di Stalin, in un’ideologia di potere pronta a giustificare crimini di massa». Insomma la linea retta, l’evoluzione lineare, è propria di quel marxismo, declinato sempre al singolare senza distinzioni e discontinuità. Tutto si tiene, dal Che fare? a Stato e rivoluzione di Lenin, dalla Rivoluzione d’ottobre al comunismo di guerra fino a giungere allo sbocco quasi necessitato della glaciazione staliniana e dei processi di Mosca. Lo Stato totalitario era presente in germe sin dall’inizio e la teoria è coincisa con la prassi, o viceversa se si vuole, in un sistema già in principio chiuso e autoreferenziale. Quale comunismo allora? Non certo quello di Stato o di partito dicono gli autori, ma qui la risposta è facile e riscuote consenso.
Dardot e Laval, a questo punto, esplicitano la sfida contenuta nel libro: recuperare la pluralità e la storicità del comunismo (e a quanto sembra non del marxismo). Lo fanno stabilendo regole di storicità e classificazioni tipologiche dei comunismi, adottando una metodologia più vicina a «un’aritmetica sociologica» che a un’analisi storico-politica. Tre regole di storicità e tre tipologie di comunismo. Le regole impongono di non forzare il rapporto che passa tra «un ideale e se stesso» dandogli il nome di comunismo, di non prendere alla lettera le genealogie e le ricostruzioni fatte dai primi comunisti e di non cedere all’illusione di un confronto tra avvenimenti ed esperienze storiche diverse tra loro. Senza scomodare Koselleck con i «concetti di storia» e nemmeno Traverso con «la guerra civile europea» della prima metà del ‘900, le tre regole di storicità di Dardot e Laval mancano l’appuntamento proprio con la storia, facendo astrazione delle dinamiche sociali, politiche, economiche e dei rapporti di classe. In parte diverso è il discorso sulle tipologie dei comunismi. Qui ‒ dopo aver elencato gli avvicendamenti da un «comunismo della comunità» di Cabet e Dezamy a un «comunismo dell’associazione dei produttori» di marxisti e anarchici (pur con una serie di differenze) e il «comunismo del partito-Stato» dei bolscevichi ‒ i due autori individuano una questione irrisolta da tutte le esperienze che si sono definite comuniste. Quali sono la natura e le forme dell’autogoverno politico del proletariato che ne impediscano la sussunzione da parte di una sovranità statale e non siano relegate solo nella dimensione economico-sociale? Una questione tuttora aperta che Dardot e Laval affrontano proponendo un «comunismo politico e istituzionale»: il comunismo dei commons. Un progetto che si basa sulle «multiformi sperimentazioni dei commons (commons urbani, commons dell’informazione e della conoscenza, commons agricoli o forestali), prolungandone al contempo la logica al di là dei loro limiti attuali (frammentazione, assenza di coordinamento)». Ammesso che si affermi un concetto condiviso di commons, cosa per nulla scontata, e rimanendo ai soli esempi dei commons urbani e della conoscenza, i due autori saltano a piè pari un problema che si chiama modo di produzione capitalistico che si articola in rapporti sociali e di produzione. L’attuale produzione dello spazio urbano e della conoscenza si fonda su una reiterazione dei rapporti sociali, poiché lo spazio urbano e la conoscenza sono essi stessi dei rapporti sociali che tendono a neutralizzare e inglobare tutte le forme divergenti alla propria riproduzione. È vero, non sono processi lineari, ci sono ambivalenze e contraddizioni che costituiscono il terreno di un’azione politica non subordinata. Ma Dardot e Laval frequentano altri territori. Sono alla ricerca di un principio unificatore che inevitabilmente presenta dei caratteri quasi metafisici. È il «principio del comune», come punto di partenza del comunismo dei commons, in quanto di per sé totalmente incompatibile con la logica della sovranità statale. Un principio meta-istituzionale che dà a tutti i commons la possibilità di esistere come istituzioni e impone oggi di «non costituirsi in partito». Sono affermazioni forti, diremmo lapidarie, che richiedono una dose non indifferente di fede nei principi. Si può discutere senza pregiudizi sulle teorie di Murray Bookchin e sull’esperienza di governo di alcune «città ribelli» come Barcellona, secondo gli autori particolarmente interessanti e ricche di insegnamenti, ma alla fine rimane un retrogusto piuttosto amaro. Come in uno spietato gioco dell’oca, Dardot e Laval sono costretti a tornare alla casella iniziale: quella del rapporto tra movimenti di classe e organizzazione politica in un processo rivoluzionario. Cercano di bypassarla immaginando un «movimento di municipalizzazione» che genera pratiche al di là della sfera strettamente politica. A Lenin si possono imputare torti, tragedie e una concezione statalista del comunismo ma non certo una sottovalutazione della necessità di rivoluzionare l’organizzazione politica durante un processo rivoluzionario, in costante rapporto con la storicità dei contesti, degli strumenti e la politicizzazione dei soggetti che insorgono. Dardot e Laval nel loro comunismo dei commons si affidano a un astratto «principio del comune» che sembra scaturire da nuova teologia politica. Una diversità di non poco conto.