di MAURA BRIGHENTI e PAOLA RUDAN
Pubblichiamo sul nostro sito ‒ e in contemporanea su euronomade.info ‒ un’intervista a Verónica Gago, compagna Argentina impegnata nel percorso di NiUnaMenos e nell’organizzazione dello sciopero dell’8 marzo. Verónica pratica da tempo quella che in Italia chiamiamo «inchiesta militante», all’interno del Colectivo Situaciones e della casa editrice indipendente Tinta Limón. Nella sua militanza ha incrociato movimenti dei disoccupati, collettivi di migranti, esperienze femministe latinoamericane e molte situazioni di lotta con l’intento di tracciare le mappe complesse dell’economia popolare in Argentina e nella regione latinoamericana[1]. Proprio questo sguardo, che riconosce il ruolo fondamentale delle donne e del loro lavoro nel conferire vitalità all’economia popolare, offre una prospettiva privilegiata per osservare lo sciopero globale dell’8 marzo. Come sottolinea Verónica, è necessario ripensare radicalmente questa pratica politica al di là dei confini del lavoro produttivo mettendola in relazione – come sta avvenendo in tutta l’America Latina – con l’intera trama dei rapporti sociali e con le forme di violenza economica, sociale e ambientale che sono strutturalmente connesse a quella maschile sulle donne. La convocazione dello sciopero ha innescato ‒ in Argentina come in Italia ‒ una tensione con i grandi sindacati, che rivendicano un «monopolio» sul suo significato legittimo e le sue modalità di convocazione, ma anche al loro interno, perché una nuova generazione di donne e sindacaliste ha avanzato la pretesa di organizzare lo sciopero anche al di là dei vincoli imposti dalle loro organizzazioni. Lo sciopero è considerato da Véronica come «un salto»: esso ha imposto di andare al di là di semplici rivendicazioni rivolte alle istituzioni, per porre con la forza di un movimento di massa l’ambizione a una trasformazione radicale. Il «salto» dello sciopero mette in campo un femminismo che rompe con ogni discorso identitario per diventare pratica di massa e moltitudinaria, capace di connettere lotte diverse attraverso i confini e a partire dal protagonismo delle donne. Attraverso lo sciopero, le donne si sono affermate come soggetto politico e, così facendo, hanno reso lo sciopero una pratica disponibile per molti altri soggetti, hanno ridato vigore alle lotte di chi, come i migranti, negli ultimi anni ha utilizzato lo sciopero politicamente. In Argentina i migranti, uomini e donne, non solo incroceranno le braccia l’8 marzo, ma hanno già convocato «una giornata senza di noi» contro le nuove politiche migratorie del governo Macri. La sfida lanciata dall’8 marzo – indicato come «il primo giorno della nostra nuova vita» ‒ è di dare continuità e una prospettiva organizzativa all’impressionante e inattesa forza messa in campo dallo sciopero sociale e transnazionale delle donne.
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Verónica, come descriveresti l’inizio dell’esperienza di NiUnaMenos? Quali sono stati i momenti più significativi per il suo consolidamento e la sua accelerazione?
Seppure molto vicina, non sono parte del gruppo originario di NiUnaMenos. Posso però parlare di NiUnaMenos come fenomeno sociale che, come tale, appare con le due grandi manifestazioni del 3 giugno 2015 e 2016. Un vero e proprio straripamento che nessuno si aspettava. È stata impressionante la connessione che si è data, totalmente inattesa per le stesse organizzatrici. Il 3 giugno 2015 era impossibile arrivare alla piazza perché la mobilitazione era completamente disorganizzata, del tutto anomala. La stessa cosa è accaduta l’anno seguente e la piazza ha tolto ogni dubbio sul carattere di massa della mobilitazione. Posso dire di più sul «salto», la trasformazione che si è imposta il 19 ottobre, quando è stata lanciata per la prima volta la idea dello sciopero delle donne. Lo sciopero del 19 segna già un cambiamento per il tipo di appello e mobilitazione, ancora una volta di massa, e per il fatto che a scatenarlo è l’omicidio cruento di Lucía Pérez, un omicidio che si è consumato nello stesso momento in cui 70.000 donne erano riunite nell’incontro nazionale di Rosario. La sovrapposizione di questi due eventi ci dice molto sulla dimensione di massa e sulla trasversalità che ha avuto la mobilitazione del 19 ottobre. L’aspetto importante di questa giornata è che con la parola sciopero abbiamo connesso la violenza maschilista alla trama economica, politica e sociale. Mi pare che con questo tipo di connessione si superano due questioni. Da una parte, il ruolo della donna esclusivamente come vittima, con tutta quella sorta di architettura che, di volta in volta, si costruisce intorno al femminicidio, a un linguaggio che parla solo di dolore, di vittima e di assassinio. Se l’essere riuscite a imporre la parola femminicidio è stato un trionfo rispetto alla cronaca dei crimini passionali, si corre però il rischio di sostenere una narrazione dominante di violenza e di vittimizzazione. L’appello allo sciopero opera una torsione di questa narrazione, per mescolare la questione del lutto e della rabbia con la potenza che si dà nello stare insieme nelle strade.
Prima di parlare dello sciopero dell’8 marzo. Come hai detto NiUnaMenos ha travalicato, fin dall’inizio, ogni aspettativa… Da questo punto di vista, che relazione vedi con gruppi e reti organizzate?
Credo che l’interessante di NiUnaMenos come parola d’ordine, come movimento che raggiunge una trasversalità impressionante, come fenomeno sociale è che riesce a catalizzare una rabbia e delle narrazioni che nominano una nuova forma di violenza nei territori. Ciò che da un po’ di tempo stiamo chiamando una nuova conflittualità sociale ha un asse specifico nella violenza contro il corpo delle donne. Queste mobilitazioni di massa mostrano il tentativo di connettere la specificità della violenza sulle donne con altre forme di violenza, dando conto di un nuovo tipo di guerra nei territori. Rita Segato le chiama «guerre contro le donne». L’interessante qui è mostrare come questa guerra contro le donne fa sì che un femminismo popolare, di massa, che vive nelle strade si trovi obbligato a connettere la violenza contro le donne con altre forme di violenza. In questo modo si toglie dal centro il discorso specifico di genere. Mi sembra che in Argentina sia la prima volta che il femminismo, i suoi discorsi e le sue narrazioni si connettono con un’esperienza più popolare, più di quartiere, più di strada. In generale c’era una resistenza all’uso della parola «femminista» perché la si circoscriveva a una tradizione liberale o accademica. C’erano in Argentina un sacco di lotte che riguardavano le donne, che però non si riconoscevano come lotte femministe e, come ho detto, molte volte c’è stato un pregiudizio rispetto al termine «femminismo». Negli ultimi due anni mi sembra che stiamo assistendo alla riappropriazione dei discorsi e delle esperienze femministe. Ed è molto interessante vedere come in America Latina sta circolando una discussione molto profonda intorno a cosa significa un femminismo popolare, un femminismo comunitario, un femminismo che si lega alle lotte territoriali, alla difesa della vita e delle risorse naturali… E qui confluiscono tutta una serie di lotte che hanno al proprio centro le questioni del territorio e della violenza. La questione fondamentale è che il femminismo produca connessioni e si traduca in un’istanza espressiva di questo tipo di conflittualità.
Che cosa distingue questo movimento dalle lotte per l’estensione dei diritti portate avanti dalle organizzazioni LGBT, che pure hanno ottenuto dei risultati durante i governi Kirchner?
Credo che in questo momento ci sia qualcosa nel movimento delle donne che sta andando oltre le rivendicazioni puramente identitarie. In un certo senso si tratta di quello che Angela Davis ha chiamato intersezionalità, una parola che risuona molto oggi in America Latina e che per me è più interessante delle rivendicazioni di tipo identitario e della forma in cui queste rivendicazioni hanno espresso domande che poi si sono tradotte in leggi che certamente sono significative, però mi sembra che oggi il movimento vada oltre un’agenda di richieste in chiave identitaria. E non si esaurisce in una serie di richieste puntuali alle istituzioni. Certamente abbiamo una serie di domande e rivendicazioni concrete, per esempio un maggior reddito per garantire una maggiore autonomia economica per le donne in un contesto di violenza; certamente ci sono proteste contro la politica razzista e conservatrice di vari governi in America Latina, però mi sembra che si sta dicendo che esiste un «oltre» rispetto a queste rivendicazioni e non è ancora molto chiaro che cosa sia questo oltre. Siccome non si traduce nel linguaggio delle richieste o rivendicazioni, è un linguaggio che dobbiamo inventare per dire che cosa significa politicamente questa trasformazione più radicale. C’è un altro tema che mi pare interessante pensare. Si parla molto nel continente della fine del cosiddetto ciclo dei governi progressisti e di una svolta conservatrice e di destra. Mi pare che i punti nodali che sta ponendo il movimento delle donne offrano dei vettori di analisi che indicano anche un’altra agenda politica che non è solo quella del cambiamento elettorale, ma che invece sta pensando più in chiave sociale, di come si è acutizzato lo sfruttamento del lavoro, come si è data la finanziarizzazione dell’economia popolare, qual è il legame tra economia e violenza nei territori, ecc. Mi sembra che questo movimento sta dando alla luce una prospettiva più complessa…
Potremmo dire che il movimento delle donne sta ponendo una discussione che va ben oltre il dibattito kirchnerista /antikirchnerista?
Esattamente. E credo che ci immetta in un contesto che non è quello della depressione perchè è terminata l’epoca dei governi progressisti, quando arrivavano risorse dallo Stato, è un altro il tipo di dibattito che si pone. Si è mosso profondamente l’asse, e lo ha mosso un soggetto che nessuno pensava potesse attuare un così grande spiazzamento, in una forma così moltitudinaria.
Tornando al «salto» dello sciopero… Se l’opposizione allo stupro e al «femminicidio» permette di tenere insieme forze molto diverse, che possono convergere su una questione così essenziale, nel momento in cui si è articolato il problema della violenza come questione non solo femminile ma sociale, che riguarda precarietà, sfruttamento, regime dei confini, devastazione ambientale, ecc. sono emerse delle differenze all’interno del movimento legate, per esempio, a diverse ‘tradizioni politiche’ o alle identità e programmi delle strutture organizzate? Come avete governato le differenze di posizione emerse con la dichiarazione dello sciopero?
Come prima cosa direi che a NiUnaMenos si è aggiunto VivasNosQueremos, che è una parola d’ordine che viene dal movimento delle donne in Messico e che cerca di pensare che non si tratta solo di morte, ma anche di come vogliamo vivere. E qui mi sembra che si apra un’interlocuzione con l’America Latina. Poi chiaramente il tema dello sciopero è un ulteriore gradino che sicuramente mette molta più gente a disagio. E questo si vede nella forma in cui i media hanno ripreso una parte del discorso di NiUnaMenos perché la narrazione della vittimizzazione li metteva abbastanza a loro agio, perfino i media mainstream, e questo è un elemento che sicuramente ha giocato un ruolo nell’impatto iniziale di NiUnaMenos. Inoltre, il discorso della vittimizzazione è quello che oggi cerca di riconvertirsi nella logica «punitivista». È un’altra delle forme possibili di appropriazione o di cattura in cui si rischia di incorrere quando si parla solo di femminicidio. È la deriva della traduzione in termini securitari ‒ o nell’agenda della destra ‒ delle questioni portate avanti dal movimento delle donne. Non meno importante è il fatto che lo sciopero, oltre a spiazzare la questione della vittimizzazione, rivendica che qui c’è un movimento di donne che è un soggetto politico e che come tale sta imponendo una discussione trasversale sia a livello della società nel suo complesso, sia all’interno delle organizzazioni sociali. La questione dello sciopero ha prodotto dibattiti molto interessanti, però anche controversie e polemiche molto accese con i sindacati, per esempio. Lo stiamo vedendo nell’organizzazione dell’8 marzo. I sindacati, da una parte, mettono in discussione la legittimità del movimento delle donne per parlare di sciopero, perché avvertono che c’è qualcosa intorno alla disputa sul monopolio di questo strumento politico che li indebolisce. Però, dall’altro, emerge una chiara questione generazionale perché quella che è sentita come una minaccia dalla cupola, dalle giovani militanti donne del sindacato è vista come la possibilità di una confluenza tra la loro militanza sindacale e la loro militanza come donne. Di fatto, ed è un dato abbastanza impressionante, negli ultimi mesi c’è stata una quantità di giovani donne elette come delegate sindacali che hanno portato dentro al sindacato l’agenda di genere e per molte di queste il 19 ottobre è stata la prima esperienza nelle strade come donne sindacaliste. Questo significa che si è aperta una discussione che non si esaurisce nel modo in cui molti sindacalisti vorrebbero risolverla, vale a dire, sostenendo, per esempio, «da questo momento è politicamente corretto avere nell’organizzazione una segretaria di genere femminile…», quando invece la dinamica del movimento delle donne sta dicendo «no, ciò che reclamiamo non riguarda una segretaria di genere, si stanno ponendo discussioni in maniera trasversale alle stesse organizzazioni».
Negli ultimi mesi si sono date alcune mobilitazioni particolarmente forti. Da una parte, a seguito dei licenziamenti in ambito statale e in particolare nei Ministeri di Educazione e di Scienza e Tecnica. Dall’altra, le grandi manifestazioni intorno alla questione dell’emergenza sociale. Che tipo di ruolo hanno giocato queste mobilitazioni nella dichiarazione dello sciopero dell’8M? Vedi una relazione con queste mobilitazioni? Anche perché in queste lotte, se sei d’accordo, abbiamo assistito a un nuovo protagonismo delle donne che generalmente restava un poco coperto dalle logiche sindacali più classiche…
Mi sembra che il 19 ottobre e oggi l’idea di sciopero posta dal movimento delle donne ci obbliga a una ridefinizione e soprattutto a un ampliamento dell’idea di sciopero perché si includano esplicitamente le donne dell’economia informale, dell’economia popolare, oltre a fare riferimento alla politicizzazione del lavoro domestico, riproduttivo, di cura. Si assume una mappatura del lavoro che almeno in America Latina ‒ dove la discussione sull’economia popolare è abbastanza importante ‒ si caratterizza per una forte eterogeneità. L’ampliamento dell’idea di sciopero credo interpelli questi settori del lavoro, ovvero è necessario chiedersi come uno sciopero possa contenere al suo interno realtà del lavoro così eterogenee. Per esempio, ci diceva una donna cartonera[2]: «se io non lavoro un giorno non mangio, perché il mio sostentamento è garantito dal lavoro di tutti i giorni». Come è possibile pensare che quest’aspetto non sia una debolezza di questo settore ‒ che visto da questa prospettiva non riuscirebbe a prendere parte allo sciopero ‒ ma piuttosto una specie di sfida alla stessa idea di sciopero, che deve essere capace di contenere questo tipo di realtà? Quindi lo sciopero è anche uno strumento capace di politicizzare figure del lavoro molto diverse però anche molto trasversali. La discussione intorno all’economia popolare, la sua relazione con i sussidi statali, con l’eredità del movimento piquetero[3], ecc. è qualcosa che si può vedere in tutta la sua complessità alla luce dello sciopero. Mi sembra che sia possibile una riconsiderazione del lavoro in chiave femminista e questo a partire dal 19 ottobre. «Il primo sciopero contro Macri lo facciamo noi donne»: questa parola d’ordine è stata molto forte il 19 ottobre. E l’8M sarà il secondo sciopero che facciamo, mentre nel frattempo tutte le centrali sindacali minacciano scioperi che però non fanno mai! La forza dello sciopero, quindi, chiama in causa la situazione argentina più congiunturale ‒ ciò che significa il governo neoliberale e conservatore ‒, però anche, più specificamente, le centrali sindacali che stanno chiaramente agendo sul terreno della negoziazione delle misure di austerity. E l’altro punto molto interessante e, credo, abbastanza sorprendente, è come l’idea di sciopero abbia avuto un’eco transnazionale, regionale e non solo regionale.
Tornando per un momento alla questione sindacale. Come hai accennato, ridefinire lo sciopero come pratica politica femminista significa anche sottrarlo al «monopolio sindacale». Alla fine, i sindacati argentini hanno dovuto dichiarare la loro adesione formale. Puoi dirci come avete articolato il rapporto con i sindacati, che tipo di difficoltà avete incontrato e come siete arrivate a questo risultato?
Come prima cosa bisogna sottolineare che l’esigenza di un pronunciamento delle centrali sindacali esce da un’assemblea convocata da NiUNaMenos, che è stata un’assemblea moltitudinaria, con organizzazioni, movimenti sociali, gruppi culturali, ecc. Dalla stessa assemblea sorge la necessità di interpellare i sindacati. Da lì si apre tutto un processo di negoziazione che ancora stiamo attraversando e che ha a che vedere con la discussione intorno a quali sono gli attori legittimi per convocare lo sciopero, e la discussione continua a essere aperta… Però, come accennavo, questo processo evidenzia anche lo sfasamento generazionale all’interno del sindacato, le diverse esperienze militanti con cui le giovani arrivano al sindacalismo e la capacità della dirigenza sindacale di essere più o meno aperta all’emergenza di questi nuovi quadri giovani. È una disputa molto forte. Rispetto allo sciopero delle donne i sindacati attuano una sorta di duplice strategia: da un lato, assumono il discorso dello sciopero come strumento molteplice per diluirlo e non per potenziarlo come, al contrario, facciamo noi. Quindi, per esempio, ti dicono che sarebbe lo stesso dire «giornata di lotta», però noi sappiamo che non si tratta della stessa cosa. Dall’altro, cercano di imporre l’idea dello sciopero come misura che possono convocare solo loro in quanto sindacati. Mi sembra che tra questi due poli si sia aperta una tensione in queste settimane e si tratta di una tensione ancora molto attiva. In ogni modo, è un evento storico che i tre sindacati aderiscono insieme a uno sciopero che ha al proprio centro le questioni di genere. Ed è anche la prima volta, secondo quello che ci dicono le compagne, che si dà questo livello di discussione dentro al sindacato a partire dal movimento delle donne. È anche interessante come si stia producendo un nucleo di riflessione femminista sul tema del lavoro.
L’appello internazionale per lo sciopero dell’8 marzo fa espressamente riferimento alle politiche dei confini e alla condizione delle donne migranti. In che modo NiUnaMenos ha articolato il proprio discorso? Esistono percorsi di organizzazione per lo sciopero insieme alle donne migranti?
Ci sono molte compagne di diversi collettivi e reti migranti che stanno partecipando nell’organizzazione dello sciopero. Inoltre la questione del lavoro migrante è fondamentale in questa mappatura del lavoro in chiave femminista, di questi lavori permanentemente invisibilizzati, oltre che femminilizzati. Tutto questo è molto presente. L’altro punto è che ‒ in Argentina in particolare, però potremmo parlare a livello continentale ‒ con l’apertura del primo centro di detenzione per migranti nel settembre scorso e l’ultima riforma per decreto del governo di Macri, che riduce le possibilità di soggiorno dei migranti, ci troviamo di fronte a politiche concrete di criminalizzazione. Quindi la dinamica di connessione con i lavoratori migranti è molto importante per costruire lo sciopero. Inoltre, proprio in questi giorni, i collettivi migranti hanno lanciato uno sciopero per il 30 marzo. C’è qualcosa di questa apertura dell’idea di sciopero che comincia a essere riappropriata anche da altri collettivi e da altre esperienze. E da questo punto di vista, la questione migrante parla un linguaggio che connette lo spazio regionale latinoamericano e per questo esce dalle dinamiche nazionaliste cui, tradizionalmente, fanno riferimento molte organizzazioni sociali.
Che cosa significa convocare uno sciopero che è uno sciopero sociale e transnazionale? Sociale perché impone una trasformazione radicale della società e transnazionale perché aggredisce questioni che non sono vincolate alle politiche dei singoli Stati ma attraversano i confini… Che cosa pensi di questa prospettiva e come cambia per voi il significato dello sciopero nel momento in cui sono le donne a rivendicare questa pratica in una prospettiva esplicitamente globale? Quali prospettive apre questa dimensione dopo l’8 marzo?
È proprio questa potenza che è stata sorprendente, imprevista e che al tempo stesso esprime una forza che dobbiamo chiederci come sostenere. Perché è un tipo di connettività transnazionale che già dal 19 ottobre si è rivelata molto efficace nel tradurre una serie di domande fatte con un linguaggio molto diverso. Per esempio, lo sciopero in Paraguay ha una forte componente impegnata nella lotta contro l’avvelenamento da agro-tossici, quindi parte da una domanda di salute e dal ripudio delle multinazionali che ci stanno avvelenando. In Honduras e Guatemala lo sciopero ha a che vedere fortemente con la discussione sul femminicidio e sul territorio in relazione alle miniere multinazionali che stanno uccidendo i leader contadini e indigeni. In Brasile è legato alla protesta contro la chiesa evangelica e la sua offensiva contro l’autonomia delle donne sul loro corpo. Questa capacità di connessione, ripercussione e traduzione messa in campo dallo sciopero lo rende una misura molto elastica, cioè capace di contenere tutte queste domande, senza però diluirle in una dimensione globale astratta. Però questa stessa capacità di traduzione e di elasticità apre una domanda su come ci organizziamo: cosa facciamo il giorno dopo? Nell’appello abbiamo detto che l’8 marzo è il primo giorno della nostra nuova vita… è un movimento che dice che vuole cambiare tutto e credo che questo «voler cambiare tutto» esprime esattamente la capacità di politicizzare tutti questi temi. Lo sciopero deve essere uno strumento e un linguaggio capace di dar conto di tutte queste dimensioni della vita, della riproduzione della vita e del rifiuto del suo sfruttamento. Quindi qui gioca questa sorta di versatilità che può connettere a livello globale e che lascia aperta la domanda intorno a che cosa significa il movimento delle donne come soggetto politico: quali sono le sue forme di organizzazione? Che cosa significa questa eterogeneità quando riempie le strade? Che cosa si tesse tra una mobilitazione e l’altra? Penso che le mobilitazioni di piazza siano molto importanti però lasciano aperta la domanda su come tutto questo si strutturi nella lotta quotidiana per cambiare radicalmente le nostre vite.
[1] Verónica Gago, La razón neoliberal. Economías barrocas y pragmática popular, Buenos Aires, Tinta Limón, 2014.
[2] Con cartoneros ci si riferisce alle donne e agli uomini che raccolgono i rifiuti riciclabili.
[3] Movimento dei disoccupati che si consolidó in Argentina durante le politiche neoliberali degli anni Novanta. Cfr. Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberalismo, Roma, DeriveApprodi, 2003.