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In tutto il mondo lo sciopero è diventato una pratica politica femminista. Il 20 gennaio le donne incroceranno le braccia negli Stati Uniti in occasione dell’insediamento di Donald Trump, prima di attraversare le strade di Washington, il 21 gennaio, con una #womensmarch che si annuncia come una delle più grandi mobilitazioni degli ultimi decenni. Nel frattempo, altre donne invaderanno le strade nelle oltre 600 manifestazioni indette in contemporanea in tutto il mondo. Non è possibile prevedere il successo dell’iniziativa, ma quello che certamente conta è che anche negli Stati Uniti sono le donne a esserne protagoniste. Lo sciopero statunitense, come quello che si prepara in decine di paesi per il prossimo 8 marzo, dovrà sfidare tutti gli ostacoli che si oppongono alla possibilità concreta di interrompere realmente il lavoro produttivo e quello riproduttivo. In tutti i casi, la parola d’ordine dello sciopero agitata dalle donne dà il senso di una pratica politica che mira a far valere la forza di una parte della società contro un intero ordine di oppressione e sfruttamento. Puntare lo sguardo agli Stati Uniti diventa allora importante, perché è lì che si sta scrivendo un’altra pagina della sollevazione globale delle donne.
Le donne che hanno lanciato lo sciopero del 20 gennaio si riconoscono in una genealogia femminista dello sciopero che ha un carattere transnazionale e comincia con lo sciopero delle donne organizzato a New York dal Women’s Liberation Movement nel 1970 per passare poi da quello islandese del 1975, entrambi momenti di una presa di potere che ha portato a fondamentali conquiste in termini di equità salariale e diritti sul lavoro. Questa genealogia, alla quale si potrebbe aggiungere lo sciopero delle donne svizzere del 1991, abbraccia però anche la grande novità dello sciopero delle donne polacche e argentine, che oltre a porre la questione delle discriminazioni sessuali sul lavoro hanno aggredito frontalmente la limitazione del diritto di aborto e la violenza maschile sulle donne, ovvero le condizioni politiche della loro oppressione e del loro sfruttamento. Come dichiarano le organizzatrici statunitensi, «questo è uno sciopero politico»: non perché contesta l’insediamento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, ma perché riconosce in Trump il rappresentante di un ordine che pensa il corpo delle donne come un oggetto sessuale inerte e considera la loro vita e il loro lavoro come pienamente disponibili. I tagli al welfare annunciati dalla nuova amministrazione statunitense avranno effetti evidentemente generali, ma sono contemporaneamente basati sulla presunzione che saranno le donne a farsi carico del fardello di svolgere privatamente le attività domestiche e di cura essenziali alla riproduzione della società: «si aspettano che la famiglia (cioè LE DONNE) riempiano i buchi e tengano insieme i pezzi. NO, NON LO FAREMO. Questo sciopero è un avvertimento. Il nostro lavoro non può più essere dato per scontato».
Proprio perché vogliono che sia uno sciopero politico, le donne che lo hanno lanciato e lo stanno organizzando hanno espressamente invitato gli uomini a prendervi parte: anche loro devono scioperare e dovranno farsi carico di quelle attività riproduttive che, per 24 ore, le donne diserteranno. Gli uomini non sono chiamati in causa come un corpo separato che è tenuto a esprimere la propria benevola e temporanea solidarietà, ma a partire dal riconoscimento degli effetti globali dell’oppressione delle donne. Privatizzare il welfare non significa soltanto che esso diventa una merce da acquistare a spese di salari sempre più miseri, ma comporta una complessiva riorganizzazione della società che mira letteralmente ad «addomesticare», individualizzandolo, un terreno di battaglia politica. Rifiutando di farsi incatenare al loro ruolo familiare e di sacrificarsi per coprire le falle del welfare le donne mostrano la possibilità di rifiutare un sistema in cui il tempo di lavoro si dilata e quello di vita si restringe. In questo senso, porre la questione della condivisione del lavoro domestico e di cura non ha semplicemente a che fare con l’individuazione di soluzioni pratiche che per un giorno consentano alle donne di scioperare, ma permette di mettere in questione, insieme alla divisione sessuale del lavoro riproduttivo, la complessiva organizzazione societaria che esso esprime.
In questo modo, le donne negli Stati Uniti tracciano chiaramente la linea di uno schieramento politico ed è significativo che l’annunciata partecipazione delle donne «pro-life» a questo percorso sia stata respinta. Non è sufficiente contestare Trump per essere dalla stessa parte. Negli Stati Uniti come in ogni parte del mondo la limitazione della libertà di aborto è l’espressione di un dominio patriarcale che pretende di irreggimentare i rapporti sessuali all’interno dell’ordine neoliberale: l’imperativo sociale della maternità coincide con il rafforzamento della famiglia come luogo in cui il lavoro riproduttivo delle donne diventa il sostegno – individualizzato e privatizzato – di un lavoro altrettanto individualizzato e privatizzato, cioè trasformato in un’impresa individuale e spoliticizzata. In questo modo, in un contesto in cui le analisi post-elettorali si muovono tra lo sgomento, il disfattismo o la proposta stravagante di un populismo di sinistra, le donne statunitensi sono il punto di partenza di un processo di politicizzazione di massa. L’assoluta diversità delle oltre 200 organizzazioni che hanno aderito allo sciopero trova un punto di convergenza in un programma politico decisivo che rende irrilevante il carattere più o meno istituzionale delle realtà partecipanti. È invece dirimente la presenza annunciata di Black Lives Matter e di numerosi gruppi di migranti latinos e arabi, che in principio hanno temuto un’egemonia bianca sull’iniziativa ma che si sono evidentemente riconosciuti in un programma che denuncia con grande chiarezza il nesso inscindibile tra violenza sessuale, razzista ed economica.
È allora assolutamente rilevante che in quel programma compaia la rivendicazione del salario minimo orario di 15 $, per tutti e senza eccezioni. In nome di questa rivendicazione, migranti latinos, neri, operai e migranti hanno dato vita, negli ultimi anni, a grandi mobilitazioni ed esperienze di sciopero ‒ come quella dei fast-food – che, per quanto parziali, hanno sfidato i molti confini del lavoro costruendo inedite connessioni politiche. Facendo proprio lo slogan del salario minimo di 15 $, le donne ne radicalizzano il contenuto: esso non è semplicemente la posta in gioco di una lotta che aspira a migliori condizioni di lavoro o uno strumento per conquistare spazi di autonomia che permettano di sottrarsi anche ai vincoli familiari. A partire dal protagonismo delle donne, di un soggetto parziale, il salario minimo diventa il campo di lotta che permette di contestare le gerarchie sociali su cui si fonda lo sfruttamento. Come lo sciopero, la rivendicazione di un salario minimo trae forza dalla sua declinazione femminista.
Come quelle che in ogni parte del mondo stanno organizzando lo sciopero globale dell’8 marzo, le donne statunitensi sanno che scioperare non è facile e che, per farlo, è necessario superare gli ostacoli imposti dalle leggi – che negli Stati uniti vietano lo sciopero generale e politico e puniscono i trasgressori anche penalmente ‒, dai sindacati, dalla precarietà quotidiana, dal razzismo istituzionale, da obblighi riproduttivi e di cura dei quali può essere difficile liberarsi, anche solo per un giorno. Per questo danno indicazioni sulle diverse possibilità per prendere parte allo sciopero del 20 gennaio: rifiutarsi di fare spesa e commissioni, di truccarsi, di stirare e di mettere in pratica tutte quelle attività che, in modi diversi, incatenano materialmente e simbolicamente le donne a una posizione di subordinazione. Eppure, ciò non significa ridurre lo sciopero a un momento simbolico: non soltanto perché un grande impegno organizzativo è messo ovunque in campo affinché le donne possano effettivamente astenersi dal lavoro produttivo e riproduttivo, ma proprio perché lo sciopero delle donne passa per il lavoro, ma non può esaurirsi nel lavoro. Lo sciopero delle donne è un momento di rottura di un rapporto di dominio e di tutte le sue strutturali e quotidiane manifestazioni. Lo sciopero delle donne è un atto di fiera sovversione sociale che non si esaurisce in un evento ma che può avere delle accelerazioni imprevedibili che si inseriscono in un processo di portata globale. La globalizzazione delle donne è appena cominciata.