Le api hanno sempre invidiato gli architetti. Ogni volta sono costrette, anche nel migliore dei casi, a costruire complessi alveari senza alcun preciso riferimento progettuale e invece gli architetti, anche i peggiori, hanno prima in testa ciò che vogliono costruire, dalla capanna al grattacielo. È il senso del famoso passo di Marx, oggetto di infinite controversie, sull’ape e l’architetto[1]. Infatti, come spesso accade negli scritti di Marx, dietro a quelle che possono sembrare delle banali evidenze si articolano molteplici discorsi sul lavoro concreto e astratto, sulla cooperazione e divisione sociale del lavoro. In tempi in cui nell’architettura predomina l’ossimoro di una retorica ipermodernista del postmoderno, scendere qualche gradino lungo la scala che porta ai «laboratori segreti» della produzione architettonica può risultare utile.
Un oggetto trascurabile
Da qualche tempo Hal Foster punta l’attenzione sul «complesso arte-architettura», alludendo al più inquietante «complesso militare-industriale», che avrebbe sussunto il culturale all’economico. Dagli incontri, dalle connessioni del passato, tra arte e architettura, si sarebbe giunti a un’unità quasi organica che avrebbe i caratteri di un blocco o di una sindrome[2]. Un «complesso» che condiziona fortemente scenari urbani e immaginari metropolitani. Pur nella loro valenza, le analisi di Foster non vanno tuttavia oltre la superficie percepibile dei fenomeni. Più sotto si colloca la contraddizione che attraversa l’arte contemporanea che, come ogni merce a produzione e circolazione globale, si è conformata alla logica del capitalismo finanziario internazionale e l’artista ha perso quella «differenza antropologica», attribuitagli dal modernismo, sulla quale aveva fondato la propria autenticità come critico della società[3], pur presentando ancora comportamenti di resistenza all’omologazione alle catene del valore del capitale transnazionale. Nelle forme odierne di produzione dello spazio urbano è l’arte contemporanea a essere stata sussunta dall’architettura, in quanto questa è una forma particolare di lavoro intellettuale che insiste su una vasta gamma di attività direttamente o indirettamente produttive: progettazione e realizzazione di edifici e parti di città, definizione di codici iconici, strategie prestazionali nell’organizzazione del lavoro, nei rapporti con la committenza e nella governance urbana, adozione di nuovi linguaggi simbolici e di un lessico di avanguardia per la produzione di immaginari collettivi, implementazione di tecnologie e software applicativi. Forse mai come oggi nel campo dell’architettura si è affermata quella dialettica che si è via via istituita «nel tempo tra lavoro concreto e lavoro astratto nel significato marxiano dei termini» di cui aveva parlato Manfredo Tafuri oltre quarant’anni fa[4]. Aprendo, in questo modo, alla possibilità di una lettura simultanea del processo di astrazione del lavoro architettonico e della sua collocazione all’interno dei rapporti di produzione capitalistici. Un’ipotesi di lavoro che ha lungamente impegnato Tafuri, ma che non è stata più ripresa da storici e teorici dell’architettura, sempre più coinvolti e travolti dalla individuazione di nuovi stili nell’epoca postmoderna oppure rinchiusi in una filologia autoreferenziale del frammento architettonico. Ciò che Tafuri fa agire nella produzione architettonica è l’intuizione di Benjamin riferita alla poesia: non bisogna chiedere quale posizione occupi un’opera rispetto ai rapporti di produzione dell’epoca, se essa sia in sintonia con essi, se sia reazionaria, o se miri al loro rovesciamento, se sia rivoluzionaria. Prima di chiedere che posizione occupa l’architettura rispetto ai rapporti di produzione, ci si dovrebbe chiedere qual è la sua posizione in essi[5]. Si va così alla radice della questione, operando un deciso scarto rispetto ai discorsi sulla falsa coscienza di architetti e archistar, sulle teorie dei reciproci rispecchiamenti tra architettura e società, tra assetti metropolitani e modi di produzione. La produzione dello spazio urbano che diventa, nel capitalismo contemporaneo, uno degli elementi costitutivi dei rapporti sociali è una riflessione appena abbozzata da Tafuri con la definizione della città come macchina funzionale all’estrazione del plusvalore sociale[6]. Una macchina urbana, si può aggiungere, che supporta le relazioni di sfruttamento, dominio, alienazione e al tempo stesso ne riproduce le condizioni e il contesto con il suo funzionamento impersonale. Le continue intersezioni, nella metropoli contemporanea, tra luoghi della produzione sociale e dell’entertainment più o meno alternativo, tra percorsi storico-artistici e centri della finanza internazionale, tra luoghi simbolici e reti della smart city, tra i confini mobili dei centri e delle periferie, ne temporalizzano incessantemente gli spazi, la loro rappresentazione e la loro ristrutturazione. L’architettura si fa ideologia materiale e nello stesso momento un «oggetto trascurabile» perché diventa altro da sé[7]. In altri termini, parafrasando Tafuri, l’architettura esplode nel reale disseminando i suoi frammenti. Nella produzione architettonica non è più questione di verità o falsità delle idee che si affermano nelle relazioni interne della produzione stessa. L’ideologia materiale articola, nello stesso ambito, i rapporti reali che si danno negli spazi urbani e i rapporti «vissuti» negli immaginari individuali e collettivi. Il marketing mirato dei luoghi e dei fatti urbani tende a essere soppiantato dal processo di riproduzione della metropoli da vivere e fruire in quanto tale. Non più certo come il flaneur di benjaminiana memoria che fa del perdersi anche un’esperienza interiore, ma un cittadino-produttore-consumatore che continuamente si geolocalizza mediante le applicazioni Gps, dove l’esperienza dei luoghi e dei percorsi è spesso anticipata dal ranking di siti come TripAdvisor. La metropoli, nel processo della sua riproduzione sociale e urbana, scompone collettività e comunità e le riassembla in una giustapposizione forzata di individualità e ruoli separati gli uni dagli altri. Un processo che tuttavia nel suo svolgersi mostra tutta la propria instabilità generando anche forme di soggettivazione e spazi metropolitani non facilmente sussumibili dal modo dominante della produzione sociale.
Il retroscena
Il lavoro, in quanto uso della forza-lavoro, nell’attuale produzione architettonica non è argomento presente nell’indice delle riviste di architettura o di design. Non appare quasi mai nelle locandine di convegni e seminari. Ed è oggetto di pochissime inchieste sul campo. Le condizioni materiali nelle quali si svolge il lavoro negli studi professionali di architettura sono molto spesso al di sotto di standard accettabili di tutele e garanzie. Sono caratterizzate da una completa flessibilità dei modi e dei tempi del rapporto di lavoro e si è affermata una modalità gratuita di approvvigionamento e selezione della forza-lavoro con stage, tirocini e praticantati[8]. All’interno e attorno agli studi professionali di architettura ruotano più di 300 mila persone tra gli iscritti all’ordine professionale, collaboratori a vario titolo, finte partite Iva, voucheristi. Negli ultimi due decenni, e soprattutto dalla crisi iniziata nel 2008, si sta assistendo a un profondo mutamento delle forme di cooperazione, di divisione del lavoro e di organizzazione degli spazi della produzione architettonica. Lo storytelling dello studio di architettura come luogo del lavoro creativo, dell’intuizione spaziale tradotta in progetto e della cooperazione spontanea e arricchente si è progressivamente sbiadito lasciando il posto a più vividi racconti di studi-azienda che diventano laboratori di nuove gerarchie organizzative, di estreme specializzazioni settoriali, di fasulli co-working orizzontali. I modelli di rifermento sono gli studi professionali, con filiali annesse nelle grandi metropoli, delle archistar internazionali che gestiscono centinaia se non migliaia tra addetti, staff di supporto e collaboratori fidelizzati. Modelli che vengono semplificati e declinati anche nelle piccole dimensioni con un gruppo molto ristretto, di pochissime unità, che concentra in sé il sapere necessario e la visione generale per produrre un progetto, rappresentare la prefigurazione di uno spazio da costruire, partecipare a un concorso di idee. Tutto intorno, collocate in una geografia a cerchi concentrici, ci sono varie costellazioni di collaboratori precari, stagisti, tirocinanti, fornitori di servizi, portatori di specifiche competenze che vengono messe in moto a seconda del tipo di progetto o concorso, delle sue dimensioni, della sua entità finanziaria. Di pari passo all’organizzazione e alla gestione del lavoro vivo necessario cambia anche l’organizzazione degli spazi della produzione e la proiezione comunicativa nell’uso dei siti internet e dei social network. Si sta affermando un’invariante spaziale nei luoghi della produzione architettonica, a prescindere dalle dimensioni: la postazione di lavoro informatica. Un vero e proprio emblema della transizione dall’atelier dell’architetto a un ufficio simile a una qualsiasi attività terziaria o quaternaria, se non una delle sedi più o meno periferiche di una grande società di progettazione[9]. La potenza di calcolo, la velocità di connessione, l’ampiezza dei data-base di modelli e forme architettoniche, l’accesso a biblioteche e archivi specializzati, la costruzione di siti web leggeri e performativi, l’auto-promozione camuffata da riflessione progettuale sui social network sono anch’essi elementi che entrano nella definizione delle forme di cooperazione competitiva, all’interno di una divisione del lavoro gerarchizzata, nella progettazione e produzione di oggetti architettonici.
Astrazioni e algoritmi
Non è mai agevole stabilire analogie, anche sotterranee, tra il pensiero di Marx e quello di Hannah Arendt. Ancor più complicata risulta essere la ricerca di punti di contatto che riguardano la definizione del lavoro. Hannah Arendt in Vita activa critica Marx per i concetti di lavoro produttivo e improduttivo e di lavoro materiale e intellettuale proponendo invece una fondativa distinzione tra lavoro e opera. Il lavoro trova la sua necessità e giustificazione nel mantenimento della vita umana e nello scambio diretto tra uomo e natura senza alcuna quantificazione salariale. L’opera, al contrario, produce oggetti e merci durevoli ed è caratterizzata dalla violenza della distruzione della natura. Il tentativo di far interagire il lavoro e l’opera di Arendt con il lavoro astratto e concreto di Marx nella produzione architettonica, mettendo in circolo le presunte ambivalenze dei termini, va incontro a una impasse senza uscita[10]. Un lavoro che per essere tale deve presupporre una specifica autonomia disciplinare dell’architettura fatta di teoria, storia e prassi progettuale non si dà più da decenni. Come non si dà un lavoro che si suddivide in astratto e concreto dentro le routines della produzione e della realizzazione degli oggetti architettonici. Infine nella trasmissione del sapere, in ambito universitario, è possibile – secondo questa linea di pensiero ‒ una ricomposizione del lavoro con l’opera e, all’interno di questa, del lavoro astratto con il lavoro concreto. Per Tafuri la storia dell’architettura, e quindi l’architettura, va invece fatta «reagire», messa in tensione, con lo sviluppo del lavoro astratto. In questo modo i rapporti con la committenza, gli orizzonti simbolici, le invenzioni tecnologiche saranno spogliati dell’ambiguità connaturata alla sintesi mostrata dall’opera architettonica[11]. Un lavoro astratto senza alcuna specificazione, attività in generale indifferente a una sua forma particolare. Un lavoro inteso non come oggetto, ma come attività; non come valore, esso stesso, ma come sorgente viva del valore[12]. E ancora: un lavoro astratto che solo nel suo sviluppo, nel processo di oggettivazione, assume la forma fenomenica del lavoro concreto[13]. Ma come, nell’attuale produzione architettonica, il lavoro concreto diventa forma fenomenica del lavoro astrattamente umano e il lavoro privato forma fenomenica del lavoro immediatamente sociale? Si possono avanzare alcune ipotesi. I progetti di architettura sono sempre più definiti da procedure standard, protocolli prestazionali, rispetto di normative tecnico-burocratiche, verifiche di corrispondenza dei requisiti funzionali dove la produzione dell’oggetto architettonico anticipa spesso la riflessione progettuale. E la rappresentazione del progetto con i programmi di rendering, che generano restituzioni grafiche prospettiche da semplici input volumetrici iniziali, con tecniche di mockup che modellizzano ‒ a scale ridotte ‒ l’oggetto architettonico da produrre, fa uso delle realtà «aumentate» da questi software per arrivare alla stesura di progetti esecutivi. L’organizzazione del lavoro concreto del progetto architettonico non consiste nella semplice parcellizzazione delle mansioni nelle varie postazioni di lavoro, investe direttamente l’oggettivazione del lavoro astratto di schiere di collaboratori, stagisti e tirocinanti. L’omologazione in atto del software in uso negli studi professionali di architettura si regge su una sorta di santa trinità informatica: il Cad (Computer aided design) che uniforma le procedure «creative», il Bim (Building information modeling) che gestisce i protocolli di realizzazione dei progetti, l’Ipd (Integrated Project Delivery) che prevede la stipula di un contratto multilaterale con la ripartizione di rischi e benefici tra tutti i soggetti coinvolti, che fin dall’inizio collaborano per definire una soluzione progettuale. Procedure, protocolli, software conformato hanno fatto perdere definitivamente l’aura di creativo all’architetto. Più fornitore di servizi o manager che si occupa di produzione dello spazio urbano che «intellettuale sociale» dedito alla composizione architettonica di forme e tipologie.
[1] «… ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera», Karl Marx, Il Capitale, Libro Primo, Einaudi, Torino, 1978, p. 216.
[2] Hal Foster, The Art-Architecture Complex, Verso, London-New York, 2011, p. XII.
[3] Alessandro Del Puppo, L’arte contemporanea, Einaudi, Torino, 2013, p. 3.
[4] Manfredo Tafuri, Architettura e storiografia: una proposta di metodo, in «Arte Veneta», 1975, n. 29, p. 276.
[5] Walter Benjamin, Autore come produttore, in Avanguardia e Rivoluzione, Einaudi, Torino, 1973, p. 201.
[6] Manfredo Tafuri, Progetto e utopia, Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 76.
[7] Manfredo Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Roma-Bari, 1968, pp. 91-116.
[8] Marco Biraghi, L’architettura come mestiere.
[9] Marco Sullam, C’erano, una volta, gli studi, in AA.VV. Backstage. L’architettura come lavoro concreto, Franco Angeli, Milano, 2016, pp. 167-171.
[10] Paolo Tombesi, More for Less: Architectural Labour and Design Productivity, in Peggy Deamer, The Architect as Worker, Bloomsbury, 2015.
[11] Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino, 1980, p. 20.
[12] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. 1, La Nuova Italia, Firenze, 1978, pp. 280-81.
[13] Karl Marx, Il Capitale, Libro Primo, Einaudi, Torino, 1978, p. 71.