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→ Vedi anche Il regime europeo del salario #1
Lo scorso 5 luglio Manuel Valls ha messo fine al dibattito parlamentare sulla loi travail con un atto di forza. Per scavalcare una peraltro timida opposizione, il governo ha fatto nuovamente ricorso all’articolo 49.3 della costituzione, una procedura d’emergenza che dovrebbe garantire l’interesse generale della nazione. Poco importa che negli ultimi quattro mesi milioni di uomini e donne abbiano scioperato e manifestato chiarendo che di quell’interesse generale non sanno che farsene. Un governo sotto assedio invoca lo stato d’assedio per stringere la morsa neoliberale sulla vita di quelle donne e di quegli uomini. Dopo che la Commissione europea ha imposto il suo diktat alla Grecia – cancellando senza esitazioni il risultato del referendum dello scorso luglio – e dopo l’imposizione del Jobs Act a colpi di fiducia in Italia, ora anche la Francia si adatta alla tendenza europea che pretende di stabilire il comando del potere esecutivo sul lavoro vivo. Invocando l’articolo 49.3, il governo francese non si libera soltanto di una patetica opposizione parlamentare, ma pretende anche di sovrastare il rifiuto espresso in questi mesi dalle piazze per imporre un incontrastato predominio del capitale. Definendo le condizioni politiche dello sfruttamento, di una completa disponibilità al lavoro e quindi un’estensione del comando capitalistico anche al di là del rapporto di lavoro salariato in essere, la loi travail è l’espressione nazionale del regime europeo del salario. La sollevazione francese degli ultimi mesi è però il chiaro segno che precarie, operai e migranti non sono affatto disposti a sottostare a un simile regime. Entrare nel merito della loi travail significa perciò interrogarsi fino in fondo non soltanto sulle novità che essa pretende di introdurre, ma su una lotta che riguarda la possibilità di governare il proprio tempo e far valere il proprio potere.
La precedenza accordata dalla proposta di legge alla contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale è stata fino a oggi uno dei punti più contestati. L’ormai celebre articolo 2 stabilisce infatti il diritto delle aziende di derogare alle condizioni sancite dai contratti nazionali di categoria, cosa che prima era possibile soltanto se andava a vantaggio dei lavoratori. Ciò è ancora più grave in un paese in cui, all’oggi, il contratto collettivo nazionale si applica a circa il 90% dei lavoratori. La dura opposizione dei sindacati non stupisce. In linea con il Trade Union Bill inglese, il Tarifeinheitsgesetz tedesco e l’accordo italiano sulla rappresentanza, la riforma francese limita drasticamente tanto la loro capacità di organizzare il conflitto sui luoghi di lavoro, quanto quella di negoziare. Con la loi travail, infatti, una proposta aziendale rifiutata dal sindacato maggioritario può essere sottoposta a referendum se a farne richiesta è un sindacato che rappresenti almeno il 30% degli addetti. È il sistema Marchionne aggiornato su scala europea. Il referendum è pensato per sbarazzarsi dell’eventuale opposizione sindacale. Sindacati gialli o «responsabili» sono pronti a valorizzare la «democrazia diretta» per lasciare i singoli lavoratori frammentati e sottoposti al ricatto del salario e del posto di lavoro di fronte all’esecutivo aziendale. Il referendum è pensato come plebiscito di fabbrica. Lontano dagli infiniti dibattiti sulle trasformazioni della democrazia, la tanto ricercata supremazia dell’esecutivo ha qui la sua prima radice. Questa è la forma reale del populismo in Europa, tanto dentro l’Unione quanto nella parte orientale del continente. Come i governi pretendono di rivolgersi direttamente ai singoli cittadini senza fastidiose mediazioni, così le direzioni aziendali esigono di avere di fronte solo la massa di singoli lavoratori senza connessioni tra di loro, senza solidarietà collettiva, senza potere. Si deve aggiungere che, come lo Stato nazione, l’unità aziendale oltre a essere un’inesistente comunità di interessi è anche una perimetrazione fittizia, se si considera che l’attuale organizzazione produttiva si basa sull’esternalizzazione e il subappalto. Chi sarà ammesso al voto referendario? Interinali e dipendenti di ditte in subappalto subiranno un accordo peggiorativo senza essere contati tra coloro che possono partecipare a questa vantata prova di democrazia. Il referendum previsto dalla loi travail è, dunque, lo strumento per imporre direttamente, oltre qualsiasi mediazione, il ricatto del lavoro, facendo leva sulla frammentazione che sempre più caratterizza ogni luogo di lavoro: non più solo tra impiegati e operai, ma tra una molteplicità di destini individuali che come tali si confrontano tutti ma in maniera differente con il ricatto esercitato dal regime del salario.
Con la loi travail lo Stato, che ancora pretende l’attributo di sociale, si presenta come il garante di un potere discrezionale e diffuso che si manifesta quotidianamente come arbitrio. La crisi non è più una contingenza passeggera che richiede sforzi eccezionali e temporanei, ma è trasformata nella condizione ordinaria e regolare per chi lavora. Emerge così con chiarezza che il problema fondamentale della crisi è il governo del lavoro vivo. A decidere quand’è il momento di sacrificarsi sarà, di volta in volta, l’interesse del padrone il cui comando può diventare totale. La priorità accordata alla contrattazione aziendale mette ciascun segmento della catena produttiva e dei servizi nelle condizioni di avere regole proprie e di poter oliare i propri ingranaggi attraverso la flessibilità e la diminuzione del costo del lavoro. Gli imprenditori possono aumentare il numero delle ore di lavoro giornaliere (da 10 a 11) e settimanali (da 44 a 46), con la conseguente riduzione del pagamento degli straordinari. Gli orari di lavoro diventano più flessibili e la variazione potrà essere comunicata con un anticipo di una settimana – ridotta a 3 giorni per i part-time – così da imporre a lavoratori e lavoratrici una piena disponibilità senza alcun risarcimento, anche perché le ore di reperibilità saranno contate come ore di riposo, quindi non retribuite. Se tutto ciò non bastasse, attraverso gli accordi aziendali si potranno imporre riduzioni dei salari e aumenti dei carichi lavorativi per un periodo di 5 anni, quando questo potrà giovare alla competitività dell’azienda. Sempre in nome della legge bronzea della competitività, la riforma prevede poi il licenziamento discrezionale: basta un’improvvisa flessione degli ordini o un periodo di scarsi profitti per giustificare «piani sociali» a favore dell’azienda, cioè licenziamenti collettivi e messa in stand by dei macchinari umani. Mentre i padroni sono tutelati da ogni imprevista oscillazione del mercato, ai lavoratori toccherà tutelarsi da sé accettando un salario purché sia. Quella che per i funzionari del capitale è la legge del mercato, per i lavoratori è l’arbitrio più brutale.
La precarietà sociale prodotta da questo arbitrio non dipende esclusivamente dal tipo di contratto posseduto, dal momento che l’85% dei lavoratori francesi ha un contratto a tempo indeterminato e, diversamente dal Jobs Act, la loi travail non prevede una riorganizzazione delle tipologie contrattuali. Per quanto si registri un aumento esponenziale dei contratti a termine – il 90% di quelli attivati nel 2015 è a tempo determinato – il dato rilevante è che la riforma del lavoro francese impone un radicale rovesciamento dei rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro pur mantenendo relativamente stabile e inalterato il quadro contrattuale di riferimento. Sia nei luoghi di lavoro sia grazie a una ristrutturazione del welfare e del governo della mobilità, essa crea cioè le condizioni per un governo della precarietà basato sulla più drastica individualizzazione del rapporto di lavoro. Ad esempio, l’erogazione dell’indennità di licenziamento verrà ora modulata più rigidamente sul numero di anni di lavoro di ciascuno: 15 mensilità per i lavoratori con almeno 20 anni di servizio; 12 mesi per quelli tra 10 e 20 anni, 9 mesi da 5 a 10 anni e tre mesi al massimo per tutti gli altri. A ciascun lavoratore non resta che affidarsi al compte personnel d’activité (conto dell’attività individuale) che viene esteso a tutti coloro che hanno più di 16 anni. Si tratta di un portfolio che tiene traccia, in base all’esperienza lavorativa, dei diritti acquisiti, una sorta di dispositivo individuale di «tutele crescenti» che produce diritti differenziati ad personam. Ciascuno si porta in tasca il proprio personale pacchetto di diritti e può sperare di aumentare il valore del proprio capitale umano al prezzo di una completa disponibilità e docilità. Nella migliore delle ipotesi, sarà possibile investire una quota del proprio salario per sottoscrivere una mutuelle, un’assicurazione integrativa, affidandosi alla previdenza privata largamente incoraggiata dalle recenti riforme della cosiddetta «economia sociale» (ESS). Differenziando i regimi di esigibilità dei diritti sul piano individuale, e dunque all’interno di ciascun luogo di lavoro, la loi travail mira a impedire ogni possibilità di elaborare rivendicazioni comuni e collettive. Liberté di vendersi a qualunque prezzo, égalité come completa disponibilità al lavoro, fraternité tra lo Stato e i padroni. La loi travail è la nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino precario che suggella l’adeguamento francese al regime del salario europeo. Come è già chiaro in altre recenti legislazioni europee, a partire dal Jobs Act, il problema non è più la produzione della precarietà. Non si tratta più di cancellare i diritti acquisiti. A essere in gioco è il governo di una precarietà ormai consolidata, ovvero la possibilità di obbligare al lavoro in tempi e modi determinati esclusivamente dalle necessità del capitale. Il regime europeo del salario è questa perversa potenza dispiegata su scala continentale.
Si tratta di un regime che si impone grazie alla differenziazione forzata delle condizioni di lavoro e che si afferma anche attraverso un governo della mobilità sempre più capillare. La cosiddetta «crisi dei rifugiati» ha offerto al governo francese il pretesto per una riforma delle leggi sul diritto d’asilo e sull’immigrazione (rispettivamente nel 2015 e nel 2016) che mira ad accelerare l’ingresso dei migranti ritenuti idonei nel mercato del lavoro e l’espulsione di quanti non sono ritenuti meritevoli di asilo, che hanno solo 7 giorni per presentare ricorso. La precaria quota di potere sociale che ogni migrante si porta in tasca nella forma di un permesso di soggiorno è sempre più esposta al potere discrezionale dell’Opfra (ufficio francese per la protezione dei richiedenti asilo e apolidi) sulla valutazione delle richieste, che include la possibilità di esigere informazioni private alle autorità fiscali, alle scuole, le agenzie di sicurezza sociale o ai fornitori di energia, gestori telefonici e internet. Come avviene ormai da tempo anche in Italia, la carta di soggiorno europea di lungo periodo può essere ritirata in ogni momento, nel caso in cui il «costo sociale» dei migranti si riveli eccessivo.
Del resto è questo che chiede l’Unione Europea e per questo essa ritiene la loi travail solo «il minimo che si possa fare». Centinaia di migliaia di francesi, da parte loro, hanno compreso che la loi travail mette in gioco i rapporti di potere all’interno della società. Il trionfo della contrattazione aziendale è solo una delle forme in cui si esprimono le politiche neoliberali di frammentazione del mercato del lavoro, a cui contribuiscono in maniera determinante le modalità di erogazione del welfare e il governo della mobilità. Esse impongono un faccia a faccia con il padrone che non soltanto mira a spazzare via ogni rischio di iniziativa collettiva, ma pretende di imporre il dominio incontrastato del salario che, come in Gran Bretagna, tende a essere ridotto al livello della mera sopravvivenza. Anche questo i francesi lo hanno capito. La loi travail non rappresenta un punto di arrivo, ma inaugura un meccanismo per modificare costantemente le condizioni di vita di coloro che la subiscono. Essa non è semplicemente una legge, ma un’ipoteca sul futuro che può essere riscossa in continuazione. La loi travail è parte di un dispositivo continentale che, dietro il mantra del coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, la cosiddetta Agenda 2020, mira a sincronizzare nello spazio transnazionale europeo le condizioni dello sfruttamento.
Proprio per questo, pensare di poter invertire questa tendenza attraverso la semplice difesa della contrattazione nazionale nei singoli paesi è velleitario: ciò che si conquista in Francia attraverso la contrattazione nazionale rischia sempre di essere compensato da un’erosione di salario e diritti al di là della frontiera, affinché l’estrazione del valore lungo le catene transnazionali dello sfruttamento possa procedere senza intoppi. È anche evidente che una contrattazione europea – sia essa di categoria, oppure orientata a trattare con un’impresa multinazionale come controparte – rischia di essere niente più di una nobile aspirazione in un contesto segnato da una mobilità del lavoro senza precedenti. Bisogna prendere sul serio lo slogan agitato dal movimento francese dentro e fuori i luoghi di lavoro: la lotta non può riguardare soltanto la loi travail ma deve investire il suo mondo. Questo significa riconoscere chiaramente i terreni dello scontro: salario, welfare e governo della mobilità vanno pensati in connessione e in una prospettiva almeno europea, perché il mondo della loi travail non è solo francese. Salario, welfare e permesso di soggiorno europei sono perciò rivendicazioni politiche che mirano a creare le condizioni di un’organizzazione transnazionale capace di contrastare l’individualizzazione dei rapporti di forza imposta dalla ristrutturazione neoliberale della società, aggredendo i suoi punti nevralgici. Contro chi pretende di introdurre una democrazia diretta di fabbrica che maschera il ricatto esercitato dal regime del salario, è necessario costruire, anche oltre la rappresentanza sindacale, le condizioni di una lotta comune e collettiva contro il lavoro e il dominio, in tutte le forme in cui questo si dà, dentro e fuori dai luoghi di lavoro. Contro l’inesorabile trasformazione degli individui in capitale umano e contro la sincronizzazione politica delle condizioni dello sfruttamento, è necessario far valere il potere sociale di precarie, operai e migranti sul piano transnazionale e portare lo sciopero sociale che ha investito la Francia al di là dei suoi confini.