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Le grandi mobilitazioni spagnole del 2011, il colpo di mano che ha infranto il sogno dell’OXI greco in una notte di luglio, la dichiarazione dello stato d’emergenza in Francia, l’accordo tra l’UE e la Turchia per la gestione dei confini hanno imposto la democrazia come parola d’ordine tra i movimenti in Europa. Molti la invocano per porre un freno alle politiche neoliberali dell’Unione. In contesti diversi e su livelli diversi – comunale, regionale o nazionale – altri ritengono che tornare a praticare la competizione elettorale sia un’occasione di iniziativa politica, per dare voce a coloro che hanno subito le misure di austerity e gli effetti della sua normalizzazione. Anche sul piano europeo, benché le elezioni siano lontane, DIEM25 vuole candidarsi a essere l’espressione rappresentativa del più vasto – e piuttosto generico – insieme di cittadini e movimenti sociali ai quali si appella. L’esperienza spagnola consiglia quel tanto di realismo che impone di riconoscere che la democrazia non è solo l’occasione per battaglie di movimento, ma comprende strutturalmente lunghe guerre di posizione dentro o sulla soglia delle istituzioni. Sarebbe tuttavia politicamente sbagliato liquidare frettolosamente questo entusiasmo democratico che pretende di tracciare una linea ininterrotta nello spazio e nel tempo da Podemos a Bernie Sanders, passando per Parigi e i confini europei. A noi interessa il fatto che esso registra realisticamente il blocco di iniziativa politica dei movimenti e che muove dalla consapevolezza che limitarsi alle pratiche consolidate non è in alcun modo la premessa alla rimozione di quel blocco. Su questo terreno non abbiamo lezioni da dare, perché sperimentiamo quotidianamente queste difficoltà anche nelle nostre pratiche politiche a livello transnazionale. Allo stesso tempo la riproduzione su piccola scala di pratiche di resistenza quotidiana, per quanto diffuse, non è di per sé sufficiente a conquistare quote di potere sociale, né a consolidare quelle che pure si ottengono. Bisogna però domandarsi: può la parola d’ordine della democrazia dare voce alla pretesa di emancipazione di quelle precarie, operai e migranti che dentro e fuori l’Europa devono quotidianamente confrontarsi con lo sfruttamento e l’oppressione? Può la lotta democratica produrre una centralizzazione politica capace di risolvere la frammentazione effettiva e l’incomunicabilità delle mille pratiche di movimento? Può la promessa di una diversa democrazia essere il punto di riferimento per le pratiche quotidiane del movimento reale che attraversa e scompagina lo spazio politico europeo?
Per rispondere a queste domande bisogna partire da un paradosso: la democrazia viene invocata come terreno di mobilitazione politica nel momento in cui le dinamiche globali sanciscono la crisi della democrazia come governo. Questa crisi non consiste, però, nel deficit democratico che viene da più parti denunciato per segnalare l’urgenza di dare maggiore espressione alla volontà popolare contro le politiche autoritarie delle istituzioni tanto nazionali quanto europee. In Europa c’è oggi certamente un problema di compressione delle forme democratiche, ma la crisi della democrazia è ben più profonda. La democrazia è in crisi perché il suo modo normale di funzionamento non arriva più a «catturare» i soggetti che dovrebbero legittimarla. Questa capacità ha raggiunto il suo picco funzionale nel momento in cui ha potuto operare a pieno regime, nello Stato-nazione, attraverso la connessione fra lavoro e diritti, ovvero attraverso il movimento di inclusione, di integrazione, della cittadinanza. La democrazia è stata certamente un terreno di scontro, grazie a chi ha avanzato la pretesa di essere democratico contro la democrazia, ovvero di allargare le maglie dell’inclusione: il movimento operaio, i movimenti delle donne e i movimenti dei neri, cioè di coloro che dalla democrazia erano esclusi o che vi erano inclusi in posizioni subordinate. Tuttavia, è stato proprio il meccanismo dell’inclusione a rendere la democrazia capace di mediare e governare il conflitto senza cancellare, ma solo compensando, i rapporti sociali di potere. Ora questa capacità di mediazione e compensazione è saltata: non solo perché il ruolo dello Stato si riconfigura all’interno di una costellazione di poteri e istituzioni che agiscono sul piano globale, ma anche perché i governi democratici hanno spezzato il nesso fra lavoro e diritti, sostituendolo con un complesso di gerarchie che non possono più essere decifrate attraverso la logica democratica dell’inclusione e dell’esclusione. I migranti – un movimento esterno alla struttura dello Stato democratico nazionale – rendono visibile nel modo più chiaro la crisi del governo democratico. Questa crisi è però inopinatamente oscurata da chi pensa che l’«emergenza profughi» possa essere risolta sul confine: fare del confine il luogo della pratica politica significa pensare ancora secondo la logica di inclusione e di esclusione della cittadinanza; significa credere che lo scarto tra la costante occupazione della scena politica da parte dei migranti e l’incapacità di iniziativa dei movimenti possa essere colmato da un’occupazione occasionale, e ancora una volta simbolica, della scena mediatica. L’Unione europea e molti suoi Stati stanno disperatamente tentando di presentare ancora una volta la democrazia come un governo dei confini dell’inclusione. Seguendoli su questo terreno si rischia di non cogliere pienamente la sfida democratica che, lo ripetiamo, va oltre la dialettica tra inclusione ed esclusione. Il privilegio del confine non si abbatte dove esso compare in tutta la sua violenza, ma affermando quello che è il suo vero opposto politico, ovvero l’insieme dei movimenti di operai, precarie e migranti. La stessa solidarietà viene talvolta intesa come pratica di contestazione del confine interno, rischiando così semplicemente di colmare le falle dell’intervento istituzionale senza mai mostrarne davvero il carattere anacronistico. Analogamente, l’accoglienza può rivelarsi una sorta di supplenza del governo sociale democratico che funziona oltre la sua crisi, presumendo uno spazio pieno di diritti che dovrebbero soltanto essere estesi. Il problema è, come mostrano le lotte di questi giorni in Francia, non solo che quei diritti vengono programmaticamente negati a tutti, ma soprattutto che ogni lotta conseguente deve andare oltre la loro mera riaffermazione. Quello che accade sul confine è solo l’espressione estrema di un processo che sta trasformando in ogni suo punto l’intero spazio politico europeo.
Pensare di poter riavviare un processo di inclusione fondato sui diritti è quantomeno velleitario perché, a meno di non immaginare un’interminabile marcia dentro alle istituzioni, non si capisce chi sarebbe disposto a garantire questi diritti. Ma ancora più rilevante è la mobilità degli individui che dovrebbero godere dei diritti stessi. Oggi la dinamica democratica dell’inclusione è stata sostituita dal governo transnazionale della mobilità, ovvero da una produzione di differenze e gerarchie che servono a irreggimentare il comando capitalistico. Non è un caso che il welfare – il più formidabile dei meccanismi democratici di inclusione e di esclusione – sia oggi utilizzato in Europa per collocare gli uomini e le donne che si muovono da un lavoro e da un luogo a un altro, dentro e contro i confini dell’Unione, in posizioni differenziate di precarietà e disponibilità coatta allo sfruttamento. Da queste condizioni materiali deve partire qualunque discorso sulla democrazia che abbia l’ambizione di innescare un processo di politicizzazione di massa. L’esercizio dei diritti politici non è solo una prerogativa di alcuni ad esclusione di altri, ma resta inesorabilmente una pratica statica, ancorata allo spazio ristretto, qualunque sia la sua scala, in cui viene esercitata. È d’altra parte evidente che la trasparenza dei processi decisionali non sarà mai la condizione, nemmeno minima, del miracoloso risveglio politico di una cittadinanza altrimenti passiva. A meno di non voler assumere come interlocutore la generica «opinione pubblica» degli scontenti e come prospettiva quella di moralizzare le istituzioni politiche per garantire il loro corretto funzionamento, per diventare lo spazio per una presa di parola di precarie, operai e migranti la democrazia deve essere pensata a partire dalla mobilità del lavoro vivo. Questa non è soltanto una condizione obbligata. In quanto esprime praticamente il rifiuto dello sfruttamento e dell’oppressione, la mobilità può diventare un terreno di politicizzazione di massa.
Per praticare la democrazia della mobilità contro il governo della democrazia è allora necessario pensare a strumenti di emancipazione all’altezza di quel rifiuto, che permettano a precarie, operai e migranti di affermare il proprio potere sociale contro le condizioni del loro sfruttamento e della loro oppressione. Si tratta perciò di rompere definitivamente con l’orizzonte universalistico del discorso democratico, che affiora anche quando si vuol fare della democrazia un «governo dei poveri», un governo «dal basso», o nell’idea di voler «rappresentare la società». Per assumere una prospettiva politica di parte bisogna creare le condizioni – anche attraverso la forzatura delle dinamiche elettorali – per la presa di parola di coloro che oggi praticano individualmente la mobilità come rifiuto del regime del salario e dei confini. L’imponente mobilitazione avvenuta a ridosso del referendum greco e l’imprevista opposizione di massa alla riforma del mercato del lavoro in Francia non hanno avuto luogo in nome di un generico richiamo democratico o della possibilità di superare la frustrazione con un voto. Per coloro che vi hanno preso parte è stato chiaro sin da subito che la posta in gioco erano concrete quote di potere sociale: salario, reddito, pensioni, servizi, la possibilità di rifiutare la coazione ad accettare un lavoro qualunque a qualunque condizione. Allo stesso modo, anche quando inseguono il sogno democratico, i migranti che attraversano i confini d’Europa ambiscono alla possibilità concreta di rifiutare un destino di guerra e di povertà conquistando il potere che altrove viene loro negato e una parte della ricchezza che l’Europa sembra ancora promettere.
Per praticare la democrazia della mobilità contro il governo della democrazia è bene sapere che i frammenti di rappresentanza che vengono riprodotti sul piano locale si scontrano inevitabilmente con la loro aleatorietà, e possono servire alla necessaria accumulazione di potere sociale in maniera solo contingente. Lo stesso vale per le costituzioni immaginate che dovrebbero ricostruire nel suo complesso proprio quel quadro giuridico europeo che la mobilità di migranti e precarie sta mostrando in tutta la sua impraticabilità. Una lotta democratica oggi deve essere una lotta per l’emancipazione, capace di esprimere – anche quando si svolge nel perimetro di un municipio – le istanze di sottrazione avanzate da precarie, operai e migranti sul piano transnazionale, e di creare le condizioni per spingerle in avanti. Solo in questo modo la lotta democratica può gettare le basi per un discorso egemonico, che è tale solo quando è riconosciuto anche da chi non partecipa direttamente alla sua pratica. Salario minimo europeo, welfare e reddito europei, un permesso di soggiorno europeo senza condizioni sono i contenuti di un programma di emancipazione che assume come ineludibile orizzonte di riferimento quello del movimento reale che sta sfidando la costituzione materiale dell’Europa e scompaginando il suo spazio politico. Lotta per l’emancipazione deve essere intesa in questo contesto nel suo senso letterale, ovvero come lotta per misure che riducano immediatamente il grado di subordinazione e di sfruttamento di milioni persone.
Tra questo movimento reale e la nostra attuale forza politica c’è uno scarto che impone di riconoscere la necessità dell’istituzionalizzazione del potere sociale accumulato dalle lotte per l’emancipazione e quindi di una centralizzazione politica. Se però quest’ultima resta sorda alle pretese del lavoro vivo, se si esaurisce in una corsa elettorale e cerca di eludere sul piano della rappresentanza il problema dell’organizzazione, allora democrazia è destinata a restare il nome della nostra attuale impotenza.