È di poche settimane fa l’approvazione del disegno di legge che interesserà professionisti, partite IVA e freelance, una sorta di statuto dedicato alla ‘tutela’ dei lavoratori autonomi che promette (o minaccia) di essere un secondo Jobs Act. In questi tristi tempi di scarse risorse politiche, a quanto pare, i nuovi statuti vanno di moda e il governo non si lascia sfuggire l’occasione per spiegare quale sia la loro importanza nell’era della precarietà, un momento dopo aver distrutto quello dei lavoratori subordinati. Siamo così di fronte alla paradossale, ma evidentemente profittevole, pretesa di trovare regola per lo sfruttamento, di scoprire un ordine nella liberalizzazione selvaggia. Lungi dall’esprimere una serie di regole a tutela dei lavoratori autonomi, lo statuto esprime la ragionevole ideologia del neoliberalismo. Ma procediamo con ordine.
Innanzitutto, è bene precisare che il rapporto di lavoro autonomo è per definizione caratterizzato dalla gestione a proprio rischio e dall’organizzazione dell’attività lavorativa da parte dello stesso «prestatore d’opera» il quale – sempre per definizione – sarebbe del tutto libero di determinare, in modo appunto autonomo, sia l’oggetto, sia il tempo, sia il luogo della prestazione lavorativa. Ciò significa che il corrispettivo economico cui ha diritto è disancorato dal tempo di lavoro impiegato ed è stabilito tenendo in considerazione l’opera o il servizio fornito. Ogni lavoratore autonomo viene identificato tramite una sequenza di 11 numeri, la cosiddetta partita IVA, che individua il regime fiscale cui si è sottoposti. Siccome si tratta di questioni fiscali, padroni e padroncini non si sono lasciati sfuggire l’occasione di trovare sempre nuovi escamotage per evitare di pagare le tasse e i costi sociali del lavoro. Allo stesso tempo, le fila del cosiddetto «popolo delle partite IVA» si sono progressivamente riempite di lavoratori subordinati mascherati da autonomi, lavoratori autonomamente subordinati. Con questo giochetto, anche quando dovrebbe sottostare alla disciplina che regola i rapporti di lavoro subordinato, il datore di lavoro si garantisce la ‘sua’ manodopera senza dover versare alcun contributo pensionistico, assicurativo o di fine rapporto, perché tutti questi costi vengono scaricati sul lavoratore a partita IVA. Giacché si tratta soltanto di «prestatori d’opera», questi lavoratori autonomamente subordinati non devono neppure essere licenziati formalmente. Senza scomodarsi troppo un datore di lavoro li può liquidare in due parole: «non ho più bisogno, ciao». E il lavoro finisce lì, sic et simpliciter.
Accade così che nel nostro paese circa la metà degli autonomi che dichiarano di avere un unico «cliente» (leggi datore) sono in realtà ‘finte’ partite IVA, svincolate da diritti e tutele, senza alcuna reale libertà di organizzare il lavoro e il tempo da impiegare. Se pure alcuni hanno inseguito un sogno di autonomia nascosto in 11 cifre, quel sogno sembra essersi infranto sullo scoglio di un regime del salario mascherato da uno scambio libero tra pari. E non si tratta di una prassi esclusivamente italica: per fare sol un esempio, anche in Portogallo esiste il problema dei falsos recibos verdes, «ricevute» che vengono emesse proprio per coloro che devono sottrarsi a un poco conveniente (per il datore) rapporto di lavoro subordinato. Il disegno di precarizzazione diffusa che sorregge questo tipo di normative non riguarda perciò solo l’Italia, ma coinvolge almeno l’Europa. Ancora una volta il nostro Fonzarelli, che si vende al mondo come innovatore, non si è inventato proprio niente, la sua politica non ha nulla di originale, ma segue anzi pedissequamente le linee del darwinismo sociale tracciate da altri paesi con cui poi si mette a litigare nei consigli europei, ma solo per ottenere il suo posto al sole.
Il governo italiano quindi, ben conscio di questa nuova forma di precarizzazione selvaggia, ha deciso di mantenere viva l’utile aberrazione e di intervenire con alcune misure per attenuare le differenze tra i lavoratori subordinati e chi si trova nella medesima condizione lavorativa, ma viene trattato diversamente in forza di un differente rapporto di lavoro. È così che il DDL in questione, nel I titolo dedicato al lavoro autonomo, prevede alcune disposizioni ‘sociali’ a favore di chi ha in tasca una partita IVA. In primo luogo, prevede la deducibilità delle spese sostenute per la formazione e l’accesso ai fondi strutturali europei. In secondo luogo, per quanto riguarda la maternità, riconosce alle partite IVA il diritto di percepire l’indennità per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi, indipendentemente dall’astensione lavorativa. Il congedo, quindi, non è obbligatorio. Quest’ultima clausola non è affatto un dettaglio, perché rischia di penalizzare, rendendole meno gradite ai ‘clienti’ e quindi meno occupabili, le donne che decidano effettivamente di fruire del periodo di congedo. D’altra parte, se ciascuno è imprenditore di se stesso è bene che si dia sempre da fare. Sicché, nonostante il DDL offra loro la possibilità di godere di congedi parentali per un massimo di sei mesi nell’arco dei primi tre anni di vita del bambino, è difficile pensare che questo diritto potrà avere un grande successo tra gli occupabili del nuovo millennio. Infine, si garantisce nei casi di malattia la sospensione del versamento degli oneri previdenziali e, qualora venga certificato il trattamento terapeutico delle malattie oncologiche, questo verrà equiparato alla degenza ospedaliera. Quanto al II titolo del DDL, secondo l’ormai celebre stile del bastone travestito da carota viene introdotta una nuova forma di «lavoro agile» (smart working), che apre alla possibilità di far lavorare alcuni soggetti fuori dai locali dell’azienda, tentando così di «promuovere le forme flessibili allo scopo di incrementare la produttività del lavoro e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Se già il criterio di «autogestione» della prestazione d’opera significava, per i lavoratori autonomamente subordinati, una piena disponibilità al lavoro, grazie a queste misure «intelligenti» questa disponibilità dovrà essere garantita ben oltre i cancelli dell’azienda. Anche in questo caso il vantaggio è soprattutto per le donne che potranno conciliare il lavoro produttivo e quello riproduttivo svolgendoli entrambi in un solo e medesimo istante, in un solo e medesimo luogo!
In buona sostanza, dietro le classiche formule standard da era massmedioevale, cui purtroppo credono ancora in troppi, si tenta, anche con questo Jobs Act minor, di favorire lo sviluppo di forme di lavoro sempre più precarie, svincolando il datore di lavoro da ogni responsabilità se non quella di pagare il prezzo della singola prestazione e costringendo i lavoratori autonomamente subordinati ad accettare il ricatto occupazionale in chiave produttivistica grazie a una riorganizzazione intensiva del lavoro e del comando.
Non una parola viene spesa circa il fatto che in molti casi una partita IVA è costretta al pagamento dell’aliquota contributiva fissa del 27% (che salirà al 33% entro il 2019) per una pensione che non vedrà mai. Non una lettera sulle condizioni salariali e contrattuali dei «prestatori d’opera», che dovranno essere contrattate nel faccia a faccia con il «cliente» che, come è noto, ha il coltello dalla parte del manico. D’altra parte, il senso dello statuto pare proprio questo: ammortizzare i colpi quel tanto che basta per continuare a colpire più duramente. Riconoscere le «false» partite IVA perché i lavoratori autonomamente subordinati continuino a vendersi al prezzo più basso sul mercato libero in cui siamo tutti autoimprenditori. Alla fine della fiera, questo è uno statuto della miseria che generalizza la precarietà con il nome di diritti e certamente non pone fine allo sfruttamento di coloro che, nascosti dietro la sequela di 11 cifre, continueranno a vivere alla mercé del padrone, che grazie a questi correttivi garantiti con renziana solerzia potrà recitare la parte dell’eroe che genera posti di lavoro. Inoltre, è ormai chiaro che non si esce dalla crisi abbattendo la precarietà, ma trasformandola in un fattore essenziale alla produttività. È la produttività dell’incertezza baby.
Certo è che per i precari quest’incertezza è il modello e il lavoro autonomamente subordinato sembra essere un nuovo tassello di un processo più generale di informalizzazione: le forme giuridiche si moltiplicano, a ciascuno la sua, mentre la partita si gioca tutta nel faccia a faccia con il padrone. Il lavoro autonomo deve allora essere considerato all’interno di un quadro più ampio di isolamento e frammentazione tra i vari soggetti che sono messi al lavoro, cosa che, già di per sé, rende velleitaria qualsiasi forma di protesta che non riconosca la convergenza tra lavoro autonomo e autonomamente subordinato sotto il regime del salario, trattandoli come categorie separate. Così, forte delle divisioni che indeboliscono lavoratori e lavoratrici, l’inquilino di palazzo Chigi pone in essere un utilizzo aziendale del diritto del lavoro, in cui il datore può decidere delle tutele dei lavoratori e in cui i rapporti di forza sono completamente informalizzati. Pensare che si tratti di una politica made in Italy è illusorio: dopo anni spesi a combattere l’austerità e le politiche della Troika, sarebbe il caso di riconoscere che questa è solo la declinazione di quelle politiche con altri mezzi. La fuga dalla subordinazione, che a lungo ha caratterizzato come ideologia e come pratica il lavoro autonomo in Italia, si trova così di fronte l’Europa che, senza ideologia e senza equivoci, ha fatto della produttività dell’incertezza la sua parola d’ordine. Andando oltre la specificità di una condizione, sarebbe allora il caso di stabilire collegamenti con tutti coloro che subiscono e praticano la mobilità del lavoro in Europa.