L’accostamento sembra casuale. Però disporre uno accanto all’altro, sul banco della libreria della 56° Biennale dell’Arte di Venezia, il Capitale di Marx, l’Angelus Novus di Benjamin e il Catalogo ufficiale dell’Expo milanese pare un classico lapsus freudiano. Come se l’inconscio trapelasse nella macchina espositiva veneziana. Al tempo delle «eclissi delle utopie» anche Marx e Benjamin possono essere dei «filtri», degli strumenti per selezionare le possibili interpretazioni del capitalismo contemporaneo. A patto di non sovvertire, scardinare il presente attraverso il futuro. Qui sta tutta l’ambiguità di All the world’s futures, il titolo di questa Biennale, che traguarda possibili futuri attraverso il passato, saltando a piè pari come si riproduce il presente. Come in ogni riproduzione sociale e anche artistica, però, il processo non è mai uguale a se stesso. Ci sono sempre degli scostamenti, degli scarti imprevisti e imprevedibili che condensano quelle contraddizioni che aprono nuovi tempi e spazi.
Ma andiamo con ordine. La scelta del curatore della Biennale di quest’anno, Okwui Enwezor, è stata quasi obbligata dopo le camuffate celebrazioni ideologiche di un’arte e di un’architettura incorporate nel modo di produzione sociale con la Biennale d’Arte del 2013 e quella di Architettura dell’anno scorso. Enwezor era lo snodo ideale in grado di connettere a livello internazionale artisti, galleristi, critici d’arte, media e le imprese dell’arte e della cultura. E cioè quello che oggi passa sotto il nome di arte contemporanea. Ma la figura di Enwezor impattava anche con una certa immagine di critico d’arte attento all’impegno, al dissenso, alla contestazione del circo mediatico artistico internazionale. Insomma dai galleristi di Chelsea a Manhattan alle provvisorie installazioni artistiche delle periferie metropolitane. Per ricalibrare la Biennale e stabilire una qualche sintonia con lo spirito dei tempi, e anche con il mercato dell’arte, era necessaria una scelta che tenesse conto che in varie aree del mondo a partire dal 2011 le società sono state messe sotto una seria pressione con Occupy, gli Indignados, le rivolte arabe, turche, brasiliane tanto per citarne solo alcune. Chi meglio di Enwezor poteva assolvere il compito dopo essersi cimentato come direttore a Kassel di Documenta XI, nel 2002, dopo Seattle, Genova, l’attacco alle Torri gemelle e lo scoppio della guerra in Afghanistan? Se Documenta XI fu un tentativo solo parzialmente riuscito di riflettere sul nesso tra arte e trasformazione del mondo, l’esposizione veneziana è lo spettacolo della rappresentazione di quella possibile relazione. Se a Kassel si parlava di piattaforme artistiche sulla democrazia irrealizzata, sul capitalismo senza democrazia, a Venezia si sussurra di filtri sovrapposti per descrivere l’attuale stato delle cose e l’apparenza delle cose. I tre filtri individuati sono una supposta vitalità (dell’arte?), un generico giardino del disordine (degli stili artistici?) e il Capitale di Marx. Lasciando perdere i primi due che risentono molto dei giochi promozionali e mercantili insiti in qualsiasi esposizione internazionale d’arte, è il terzo che avrebbe potuto aprire uno spazio di riflessione interessante sulla natura delle cose e la loro manifestazione fenomenica. Tema difficilissimo da rappresentare con i linguaggi dell’arte, della comunicazione e delle video installazioni. Diciamo subito che a Venezia non solo si fallisce l’obiettivo, ma la stessa lettura del Capitale – con il controcanto di David Harvey – durante i mesi di apertura della Biennale, diventa un happening depotenziato dal contesto in cui è inserito. Così come la voce di Pasolini che accoglie i visitatori al Padiglione centrale parlando di cos’è il fascismo. Tuttavia nella grande kermesse veneziana, a metà tra arte intesa come merce e riproduzione delle condizioni del suo valore sociale, simbolico ed economico, qualcosa sfugge. Poco, è vero, ma la potente macchina delle sussunzione totale non ha mai tutti gli ingranaggi perfettamente funzionanti. Le quattro installazioni di Fabrik nel padiglione tedesco a opera di artisti che sovvertono il senso comune – usando la metamorfosi delle immagini – in tema di cittadinanza, fortezza Europa, modalità di comunicazione e di sfruttamento nel lavoro vivo contemporaneo, appaiono piuttosto lontane e quindi maggiormente performative rispetto a meccanismi di banale descrizione della realtà o addirittura di inevitabili coincidenze tra arte «socialmente impegnata» e politica. Ma l’imprevisto, in questa Biennale, s’incontra al padiglione canadese. Con Canadassimo il collettivo di artisti BGL mette in scena il Capitale di Marx. Per farlo destruttura lo stesso spazio del padiglione con percorsi tortuosi e superfetazioni come a dire che il capitalismo è continua rivoluzione di se stesso oppure non è. L’ingresso è un minimarket, cioè il mondo della distribuzione e del consumo delle merci con il loro carattere di feticcio che sfuoca se ci sia avvicina troppo. Si prosegue con la circolazione del denaro fatto scorrere in guide metalliche che ricordano le montagne russe di un luna park per poi costringere il visitatore a scendere attraverso ripide scale nei laboratori segreti della produzione. L’installazione si può comprendere solo camminandoci dentro, dall’esterno non si ha che una vaga idea. Sembra che il collettivo BGL abbia appreso a fondo la lezione di Rancière sull’arte che non è politica per i messaggi che veicola o per la maniera in cui rappresenta i conflitti o le strutture della società. È politica per la distanza che prende in rapporto a queste funzioni per il tipo di spazio e di tempo che istituisce, per il modo in cui ritaglia questo tempo e popola questo spazio. In tutto il resto della Biennale, sia ai Giardini sia all’Arsenale, non si opera questa rottura portando la rappresentazione dello spettacolo capitalistico all’eccesso con una varietà di linguaggi.
Infine una segnalazione. Nel grande spazio dell’Arsenale c’è un piccolo quadrato fatto di libri che riproducono le copertine di un po’ di materiali presenti dell’Archivio Primo Moroni. Un modo per sostenere e tenere in vita una memoria non riconciliata.