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Quando arriva il momento di descrivere e spiegare che cosa sia SYRIZA, nel discorso dei media mainstream, degli analisti e dei politici nel resto d’Europa (e talvolta anche in Grecia) il termine «populista» torna utile e appare in bella vista. Lo stesso epiteto viene affibbiato anche al Podemos spagnolo. Questa descrizione è naturalmente un chiaro esempio di «come fare cose con le parole», poiché essa crea associazioni «oggettive» con etichette dispregiative come «nazionalista/anti-europeo», anche se queste non sono esplicitate (un tentativo di risignificazione paragonabile a questo, e più ambizioso, è stato poi messo in campo con il termine «radicalizzazione», che è stato praticamente trattato come sinonimo di «adesione al jiahadismo»). Per quanto ne so, la sfida più seria e interessante a questa politica linguistica è stata ingaggiata da Yannis Stavrakakis, teorico politico formato nel solco della tradizione della cosiddetta Scuola di Essex e collaboratore di Ernesto Laclau. Negli ultimi tre o quattro anni – con una serie di articoli scritti da lui o in collaborazione con Yorgos Katsambekis, pubblicati su diverse riviste di teoria politica – Stavrakakis ha offerto argomenti ampi e forti contro l’uso stigmatizzante e unidimensionale di «populismo» e contro il corrispondente «bombardamento a tappeto».
Ovviamente non è possibile riprodurre qui tutti gli aspetti del suo intervento. Ciò che mi pare importante sottolineare, visti gli intenti di questa nota, è la scelta – interessante e ardita – compiuta da Stavrakakis in termini di strategia discorsiva: contestare la narrazione del populismo de jure anziché de facto. Di fronte all’accusa «SYRIZA è populista», la sua risposta può essere sintetizzata come segue: «sì, lo è, e in questo non c’è niente di [necessariamente/intrinsecamente] sbagliato. Non può esserci politica senza un certo grado di populismo. Perciò, non resta che vedere con quali varianti abbiamo a che fare in ciascun caso preso in esame». Da qui, Stavrakakis procede distinguendo un «populismo inclusivo», come quello praticato da SYRIZA, dal populismo «escludente» nelle sue varianti razziste e religiose. Questa linea di difesa, che consiste in farsi carico dell’accusa, «dichiarandosi colpevole» dell’atto commesso e quindi rigettando la sua qualificazione per rimuovere da esso la colpa, ha lasciato perplessi alcuni commentatori. Tra di loro, in particolare, Etienne Balibar, che ha partecipato di recente a un dibattito pubblico con Stavrakakis presso l’Istituto francese di Atene.
1. Una sfumatura
Per quanto mi riguarda, non ho niente da obiettare a questa strategia tipicamente non-leninista – si potrebbe dire anche, semplicemente, una non-strategia – che consiste nell’attaccare il punto più forte dell’avversario, anziché quello più debole (e nell’attaccarlo trasformandolo in un argomento che si sconfigge da sé, facendo in modo che la sua forza si rivolti contro se stessa). In questa utile discussione non intendo tanto sollevare un’obiezione quanto osservare una sfumatura che può servire a portare questa (non)strategia un passo oltre. In uno dei loro articoli, Populismo di sinistra nella periferia europea: il caso di SYRIZA, Stavrakakis e Katsambekis descrivono i loro criteri per definire il populismo in questi termini:
Il processo attraverso il quale il discorso populista si articola implica tipicamente la costruzione di connessioni tra una serie di domande insoddisfatte inizialmente eterogenee, che entrano in rapporti di equivalenza formando così un’identità collettiva intorno al «popolo» e alla leadership che lo rappresenta.
In questa luce, essi analizzano diversi esempi tratti dai discorsi di Tsipras e anche, come riferimento centrale, tre manifesti della campagna elettorale del partito. Su questa base, concludono che questa produzione di discorso si conforma ai criteri indicati.
La sfumatura che intendo portare alla luce, dunque, è la seguente.
In effetti, i manifesti elettorali 1 e 3 confermano la loro affermazione. Soprattutto il primo segue un modello che può essere definito non solo populista, ma altrettanto chiaramente messianico/teologico («il popolo» qui è presentato come un dio onnipotente che può «fare qualsiasi cosa»). Il modello, però, non emerge con la stessa evidenza se si prende in considerazione la frase sul poster n. 2 che, come gli stessi autori notano, è servita come «slogan principale di SYRIZA per la campagna delle elezioni del 2012». La frase suona così: «Loro hanno deciso senza di noi, noi andiamo avanti senza di loro». Se i «due criteri [del populismo] messi in luce da Ernesto Laclau» sono «un riferimento centrale al “popolo” e una logica discorsiva caratterizzata dall’equivalenza e dall’antagonismo»[1], nessuno dei due criteri sembra essere letteralmente presente nel testo di questo slogan.
1a. Che dire del ‘noi’?
Quanto al primo elemento, gli autori inequivocabilmente considerano il «noi» che compare nel discorso di SYRIZA come «il popolo». Per esempio, lo fanno quando presentano un lungo estratto dai discorsi elettorali di Tsipras, che introducono nel loro testo con la frase «che dire del ‘noi’, cioè ‘il popolo’ al quale SYRIZA indirizza il proprio invito? Tsipras, nel suo discorso, si rivolge…», e qui inseriscono la loro citazione, che riporto io stesso per mostrare che essa è più ambigua di come la presentano. Tsipras, dunque, si rivolge
a ogni cittadino democratico. A tutti coloro che fino al 2009 hanno combattuto e votato per il PASOK. […] L’elettore conservatore comune che annaspa sotto il Memorandum. […] Ci rivolgiamo [anche] agli elettori di sinistra e ai comunisti […]. Solo l’establishment sta traendo profitto dalle divisioni della sinistra, non il nostro popolo […]. Infine, ci rivolgiamo agli uomini e alle donne, ai giovani, a tutti quelli che non sanno decidersi, che non hanno ancora le idee chiare in merito al proprio voto, quelli che credono che le elezioni non abbiano niente a che fare con loro. E allora diciamo: non lasciate che altri parlino al vostro posto [i corsivi sono miei].
È senza dubbio legittimo affermare che queste parole interpellano «vari soggetti» per formare «un’ampia alleanza popolare», così che il noi in questa frase sta per il popolo. Tuttavia, prima di arrivare a questo punto, è ugualmente e forse più legittimo leggere in queste parole un riferimento chiaro a una rottura e a un abbandono delle identificazioni stabilite piuttosto che – o almeno accanto a – una volontà di unificazione e rappresentazione. Queste parole partono dal presupposto – e su di esso cercano di costruire – che coloro ai quali sono rivolte prima avevano un diverso orientamento politico o addirittura non ne avevano nessuno, partono dalla mancanza di un orientamento o di un investimento, da una confusione. E la loro prima e principale «interpellanza» verso questi soggetti, sia in senso temporale sia in senso logico, è a trasformare queste identificazioni. Questo risulta ancora più ovvio in un altro dei principali slogan di SYRIZA: próti forà aristerà – «[vota] sinistra per la prima volta»[2].
1b. Una linea di fuga anziché un campo
Certamente i due autori sono molto cauti nel sottolineare che questa alleanza introdotta dai «soggetti» non è basata su «una qualche unità essenzialistica pre-esistente» (e proprio questo rende il loro populismo non escludente). Tuttavia ciò che propongono come base è che questa gente «condivida una mancanza che pervade tutti», e questa mancanza «può acquisire diversi significati a seconda di ciò che esattamente individui eterogenei o soggetti collettivi hanno perso negli anni della crisi, che si tratti del salario o delle pensioni che sono state tagliate, del loro lavoro, della copertura sanitaria e così via». Così, questa unità non essenzialistica si esprime in una lotta per riconquistare quanto è stato perso e, più in generale, in una «lotta democratica comune che si suppone tenga insieme i diversi soggetti, orientando la loro azione verso una causa comune: il rovesciamento del bipartitismo e delle politiche di austerità». Se però ci agganciamo al testo del manifesto elettorale e alla citazione di Tsipras, vediamo che essi non nominano nessuno di questi obiettivi – né, se è per questo, qualsiasi obiettivo particolare che sia esterno all’azione. Se ci affrettiamo a colmare questa mancanza con una lunga lista di obiettivi «impliciti», allora non siamo in grado di vedere una dimensione cruciale di questa «azione dei vari soggetti»: il suo essere un mezzo senza fini. Questa dimensione è già presente nel modo in cui il soggetto dell’azione, «il popolo», è messo in scena, ma diventa anche più visibile quando ci volgiamo al secondo criterio di Laclau, la «logica antagonistica». Qui, l’uso positivo del verbo andare avanti non si riferisce esclusivamente, e nemmeno primariamente, a un confronto binario, a uno «schema antagonistico descritto dal modello ‘noi/il popolo contro loro/l’establishment»; questo andare avanti è presentato come qualcosa che è fatto senza di loro – non contro di loro. È descritto come puro movimento e anche come abbandono. Sostengo, quindi, che il discorso di SYRIZA può essere letto come qualcosa che articola un desiderio e un appello per l’esodo, per la deterritorializzazione; non – o anche – per la formazione di un campo per combattere un esercito regolare.
2. Ci rappresentano (o dovrebbero rappresentarci)?
Il mio interesse nel dire tutto questo non è linguistico né stilistico. Questa sfumatura non sarebbe di grande importanza se non corrispondesse – come invece secondo me fa – a una reale tendenza e a una dimensione esistente del modo in cui SYRIZA ha stabilito un rapporto con i suoi elettori, almeno con molti di loro. Non si tratta di negare che elementi populisti siano presenti nel discorso di SYRIZA; da questo punto di vista, gli argomenti dei due autori sono più che convincenti. Tuttavia ciò non esaurisce la natura di SYRIZA come fenomeno politico. Rimane da vedere se questi elementi siano stati la ragione (la sola/la principale) per cui la gente li ha votati. Come ho già detto, gran parte del popolo – o meglio, della moltitudine – ha deciso di votare per questo partito non tanto perché fosse convinta che avrebbe soddisfatto alcune «richieste insoddisfatte», o perché esse abbiano formato «un’identità collettiva intorno al ‘popolo’ e alla leadership che lo rappresentava», quanto piuttosto per la ragione opposta: perché questa opzione ha permesso di disidentificarsi, di abbandonare le leadership che fino a quel momento avevano preteso di rappresentarli. Questo voto ha aperto uno scarto nella rappresentanza, e non dovremmo saltare alla conclusione che questo scarto sia stato immediatamente colmato e chiuso senza residui attraverso una mera sostituzione dei vecchi rappresentanti con i nuovi, antagonistici rispetto ai primi. Una simile chiusura non sarebbe utile né politicamente né teoricamente. Questo è uno di quei casi in cui è davvero pertinente tenere in considerazione un’osservazione fatta da Deleuze e Guattari in Millepiani: che «un campo sociale è definito non tanto dai suoi conflitti e dalle sue contraddizioni quanto dalle linee di fuga che lo attraversano»[3].
3. Su domande, promesse e impegni
In questo senso, penso che ci sia un termine che dovrebbe essere usato con cura, perché può produrre fraintendimenti. È il termine «domande». La domanda è una nozione sovraccaricata nella tradizione lacaniana che ispira l’approccio di Laclau. Quando è usata in politica, tuttavia, questa nozione implica l’esistenza di un soggetto trascendente, un Sovrano, al quale queste domande sono indirizzate e che ha la capacità materiale e l’autorità di ammetterle (oppure no). Così, il termine potrebbe guidare (o deviare) il lettore verso una concezione contrattuale del comportamento politico, secondo la quale il «popolo» (soggetti interpellati come tali dall’egemonia) acconsente che i suoi «rappresentanti» svolgano certe funzioni in cambio della sua sottomissione. Questa è la versione della storia interpretata secondo la «scelta razionale»: questo «contratto sociale» può essere anche costruito nel senso di una transazione, grazie alla quale certi privilegi sono accordati a gruppi organizzati. Il che, soprattutto se è combinato con il termine «populismo», apre la strada a un altro familiare (fra)intendimento di questi fenomeni come l’espressione di un «clientelismo pre-moderno» e di un favoritismo, secondo la più tipica tradizione orientalistica-eurocentrica. Questa lettura auto-colonizzatrice è già diffusa in Grecia tra le élites che si auto-proclamano «europeiste/moderniste», ma è stata usata anche dallo stesso Schäuble durante il periodo pre-elettorale, quando ha ammonito Tsipras e i suoi compagni di «non fare promesse che non potessero mantenere». Questa concezione del legame politico e sociale sulla base della coppia «promessa/soddisfazione», però, non può spiegare adeguatamente i movimenti del popolo. Personalmente, sono abbastanza vecchio da ricordare gli anni ’80, quando esattamente le stesse accuse erano state rivolte pressoché da tutti ad Andreas Papandreou e al partito che aveva appena fondato. Anche la sinistra radicale sosteneva che il PASOK avrebbe presto tradito la fiducia che la gente riponeva in esso, che si sarebbe dimostrato incapace di onorare tutte le sue promesse. Così, i membri della sinistra pensavano che, se avessero continuato a denunciare l’«incoerenza» e i «tradimenti» del governo, avrebbero convinto «il popolo» ad abbandonare i «falsi» socialisti e a scegliere invece loro come rappresentanti più affidabili. Tuttavia, hanno aspettato invano: questo non è mai accaduto. E anche quando, intorno al 1990, alcuni elettori hanno cominciato ad abbandonare il PASOK non si sono rivolti alla sinistra.
Ciò che manca a un’analisi come questa, basata sulle «domande» e sulla loro soddisfazione, è che la politica, o almeno il tipo più interessante e trasformativo di politica, non è basata sullo scambio, almeno non su uno scambio commensurabile di valori equivalenti. La politica trasformativa non consiste soltanto nella conquista dell’egemonia attraverso l’istituzione di equivalenze e la riduzione dell’eterogeneità a una rappresentazione antagonistica duale; un momento ugualmente importante di essa può essere l’interruzione di identificazioni note e stabili, in luogo della loro istituzione. In altre parole, la produzione di una maggiore eterogeneità, di nuove domande – o meglio, desideri – che eccedono la logica della rappresentanza e dello scontro, che non possono trovare un posto in essa né essere tradotte nel suo linguaggio.
4. La prossima volta chiedi a noi
La parte di questa domanda incommensurabile o infinita (in quanto immateriale – come ho sostenuto insieme ad altri) è stata giocata dalla nozione di dignità. Il tema della dignità infatti è presente nel manifesto che ho analizzato, nel quale la ragione per muoversi in avanti è che «loro» hanno offeso e mancato di rispetto a «noi» decidendo senza interpellarci. Il desiderio di dignità può spiegare perché SYRIZA ha mantenuto, o anche allargato, la propria popolarità dopo le elezioni – anche se la sua risposta alle «domande eterogenee» che si presuppongono omogeneizzate non è stata fino a ora spettacolare. Credo che, nell’ascesa di SYRIZA, possiamo trovare elementi di entrambe queste procedure: tanto l’egemonia/omogeneizzazione quanto la sua mancanza, o addirittura il suo rifiuto. Sebbene non sia un esperto di questioni spagnole, ho l’impressione che lo stesso possa dirsi dell’ascesa di Podemos. Sto cercando naturalmente di seguire le discussioni sulla sua vicenda, compresi i risultati delle recenti elezioni municipali e regionali. In esse vedo scambi simili sia per quanto riguarda il dove – e il come – andiamo a partire da qui, sia per l’attenzione alla domanda se una strategia basata meno sul populismo e l’egemonia possa essere preferibile a quella presente. La questione di come sia meglio articolare queste due dimensioni è aperta tanto in Grecia quanto in Spagna, così come in qualunque altro luogo, e non voglio certo sostenere di avere una soluzione nei termini di un rifiuto completo di una delle due o alla loro esclusione. L’intervento rigoroso e informato di Stavrakakis mi sembra una base estremamente utile per affrontare questo problema, e ho cercato di dare il mio contributo a quello che spero possa continuare a essere un dibattito aperto.
[1] Tutte le frasi tra virgolette, a meno che non sia indicato diversamente, sono tratte dall’articolo di Stavrakakis e Katsambekis a cui si è fatto riferimento sopra.
[2] Soprattutto in Grecia dove, dopo la Guerra civile degli anni ’40 e le inimicizie che ha prodotto, le affiliazioni politiche non sono solo politiche ma anche sociali, culturali, persino familiari, questo suona più come una chiamata alla distruzione piuttosto che all’omogeneizzazione. Per una persona di destra votare per i «fan dei Soviet» (una definizione effettivamente usata dall’ex primo ministro Samaràs poco prima delle elezioni), o per un membro del Partito Comunista Greco votare per i «riformisti eurocomunisti», può significare che una grande distanza deve essere coperta, può significare fare un passo carico di grandi costi soggettivi.
[3] G. Deleuze – F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Castelvecchi, 2006, p. 150. È interessante notare che, immediatamente prima, i due autori menzionano come ragione di ciò il fatto che «il concatenamento collettivo di enunciazione [è prioritario] rispetto alla lingua e alle parole» [corsivo mio].