domenica , 17 Novembre 2024

Tecnologie dell’ubiquità. Prove tecniche di sfruttamento on-demand

Tecnologie dell'ubiquitàdi ELEONORA CAPPUCCILLI

In un recente articolo dell’Economist, la rivoluzione tecnologica dell’economia su richiesta è stata definita come il futuro del lavoro.

A San Francisco […] giovani professionisti che lavorano per Google e Facebook possono usare una app sul cellulare per trovare qualcuno che faccia le pulizie nei loro appartamenti per mezzo di Handy o HomeJoy; che faccia loro la spesa e gliela consegni attraverso Instacart; che lavi i loro vestiti con Washio e che spedisca i loro fiori con BloomThat. FancyHands offre loro assistenti personali che prenotano viaggi o contrattano con la loro compagnia telefonica. TaskRabbit manda una persona a scegliere un regalo last-minute e Shyp lo impacchetta e consegna. SpoonRocket porta direttamente a casa un pasto di qualità  in 10 minuti.

Nelle grandi metropoli nordamericane il fenomeno pare essere piuttosto diffuso e in espansione, come esemplifica lo sviluppo di Handy, impresa di pulizie nata nel 2011 e che impiega ora ben 5000 lavoratori autonomi «in 29 delle più grandi città degli Stati Uniti, come pure a Toronto, Vancouver e sei città britanniche».

Il luogo di nascita di queste imprese on-demand lascia immaginare che la geografia sia ancora una variabile importante e che, cosa non nuova, molto spesso lo stipendio può dipendere più dal luogo dove si abita che dal curriculum. Di fatto, queste società costituiscono una sorta di indotto pompato dalle spinte finanziarie dei grandi nodi del capitale globale, come pure dalle traiettorie della logistica, che portano alla concentrazione di manager e professionisti in punti del globo ben determinati.

Il boom dell’economia su richiesta ha tratto slancio dalla tecnologia «ormai onnipresente» degli smartphone e dall’invenzione di app ideate per soddisfare qualunque esigenza e fornire qualunque servizio. Chi vende la propria forza lavoro sono free-lance di ogni genere. Sebbene la dicitura alluda a professionisti smart, creativi e giovani, imprenditori di sé navigati, questi free-lance sono molto spesso le lavoratrici domestiche della già citata Handy, oppure i cuochi e gli sguatteri che permettono a SpoonRocket di «porta[re] direttamente a casa un pasto di qualità  in 10 minuti», o persino gli autisti di Lyft, servizio autovetture. In queste imprese, la felice onnipresenza e la potenza della tecnologia degli smartphone si sposano così con il meno felice obbligo di ubiquità dei free-lance, che forniscono non solo lavoro cognitivo, ma anche manovalanza di ogni genere e soprattutto sempre disponibile.

Questa economia on-demand, costruita su algoritmi del profitto fatti di codici informatici, potenza di calcolo e forza lavoro precaria, prospera anche grazie allo sfruttamento di cavilli e scappatoie che lo rendono sempre meno soggetto alle leggi che regolano il mercato del lavoro statunitense; così succede ai conducenti di Uber, assunti e pagati come lavoratori a chiamata ma comandati come dipendenti regolari. Non mancano inserimenti di clausole creative, raramente contestate a queste società, se non in pochi casi. Ad esempio, «Handy a un certo punto ha incluso una clausola nei suoi contratti che scaricava i costi di eventuali risarcimenti sui clienti, ma ha poi dovuto ritirarla».

L’importanza delle geografie del valore è evidente osservando la vita di Handy e di tutte e altre società su richiesta. Come nel caso degli addetti alle pulizie che prima che spunti il sole rendono lustre le superfici dei grattacieli da film in cui si decide il movimento di enormi masse di denaro, così dietro all’economia on-demand si cela un esercito di lavoratori disposti a vendere il proprio tempo per rendere più comoda e facile la vita di quei professionisti che popolano i piani alti di quegli stessi grattacieli.

La retorica dell’economia su richiesta sembra però glissare su questo particolare, ovvero sul fatto che senza stratosferici movimenti di denaro essa non sarebbe possibile. Secondo il mito delle origini, tutto il merito va all’innovazione: giovani e brillanti investitori avrebbero generosamente e intelligentemente occupato il ruolo di oliare gli ingranaggi di un’economia che fa fatica a funzionare al massimo delle sue potenzialità, dove manca il dialogo scattante tra domanda e offerta. Ciò che questi potenti manager fanno è semplicemente mettere «tempestivamente in contatto professionisti urbani affamati di tempo con lavoratori affamati di lavoro». Tuttavia, come persino l’Economist è stato costretto ad ammettere, ciò non sarebbe possibile senza l’esistenza di enormi diseguaglianze economiche e sociali: ironicamente, un giornalista della rivista New York aveva assunto attraverso l’agenzia di pulizie HomeJoy («gioia della casa») un lavoratore domestico senzatetto.

Da un lato il bacino degli utenti sembra essere largamente un bacino di «ricchi»: di fatti i servizi sono efficienti ma decisamente costosi anche per un lavoratore di classe medio alta che di certo stenta a pagare un minimo di 200 dollari per una visita specialistica a domicilio fornita da Medicast nel giro di un paio d’ore. Dall’altro chi lavora nei vari Uber, TaskRabbit o Instacart lo fa per motivi molteplici e proviene da fasce sociali diverse. Sono secondo l’Economist

persone che valorizzano la flessibilità più della sicurezza: gli studenti che vogliono arrotondare; hypster che possono permettersi di entrare e uscire dal mondo del lavoro; giovani madri che vogliono combinare la crescita dei figli con lavori part-time; i quasi pensionati, volontariamente o meno.

Uno dei lati più positivi è la retribuzione. In un’azienda come Handy la tariffa oraria media è di 18 dollari e il «20% che lavora di più guadagna 2500 dollari al mese» mentre la quantità di ore lavorate individualmente varia da 5 a 35 ore settimanali.

Certo è che, se da un lato la flessibilità è un vantaggio netto per molti, la prospettiva di essere free-lance a vita – o forse precari, sebbene spesso ben pagati – può non apparire così «allettante»:

L’economia on-demand difficilmente è un’esperienza positiva per persone che danno un grande valore alla stabilità rispetto alla flessibilità: professionisti di mezza età con bambini da mandare a scuola e mutui da pagare.

Se l’Economist invita, tutto sommato, a cambiare punto di vista e apprezzare lo sviluppo di un settore che spinge ad abbandonare le certezze del passato per sfruttare a pieno le potenzialità di un futuro ormai a portata di smartphone, non riesce però a trattenersi dall’esprimere qualche dubbio: «una crescente abbondanza di lavoratori on-demand senza diritti come l’indennità di malattia o gli straordinari danno ai padroni nelle aziende con maggiori garanzie un incentivo per abolirli». E questo porterebbe alla nefasta previsione secondo cui «più questa pressione si diffonde, più si diffonderanno le proteste contro il “capitalismo della piattaforma”». Non vale la pena però di bocciare in toto questo nuovo modo di produzione, sostiene l’Economist accoratamente, ma vanno valutati pro e contro in maniera attenta:

Che tipo di mondo produrrebbe il modello on-demand? I detrattori temono che ciascuno sarebbe ridotto alla condizione dei portuali del XIX secolo che si ammassavano sul molo all’alba aspettando di essere assunti a chiamata. I sostenitori invece pensano che ci porterebbe in un mondo dove tutti possono controllare le loro vite, facendo il lavoro che vogliono quando vogliono. Entrambe le posizioni non devono dimenticare, però, che l’economia on-demand non sta introducendo il serpente del lavoro precario nel giardino del lavoro «garantito»: sta sfruttando una forza lavoro già precaria in modi che potrebbero risolvere alcuni problemi e aggravarne altri.

Insomma, non lamentiamoci dello sfruttamento on-demand, la precarietà è già un dato di fatto.

Dietro potenti flussi di dati, informazioni e servizi, si cela dunque un modello produttivo che fa del lavoro precario il suo punto forte, armato di retoriche meritocratiche secondo cui, a prescindere da quello che pensano i lavoratori, se sei brillante («bright») nel tuo lavoro non ti servono diritti, garanzie, tutele e neanche un posto fisso – retaggio di relazioni industriali oramai estinte (al pari della lotta di classe?), ammette l’Economist – ma basta la tua genialità per fare soldi. Sembra allora che questo sia un mercato riservato a coloro che hanno avuto le chance di procurarsi il genio (forse il genio della precarietà). Come afferma orgogliosamente l’Economist, c’è infatti una selezione rigida in imprese come Handy, dove:

Oisin Hanrahan, il fondatore dell’azienda, dice che più di 400.000 persone hanno fatto domanda per essere inserite nella piattaforma ma solo il 3% di questi è riuscito a superare la selezione e il procedimento di verifica.

Questa struttura carrieristica per così dire a imbuto non dice niente però della sorte del restante 97%. Tutto ciò fa pensare che allo sfruttamento ripagato profumatamente di alcuni corrisponda l’immiserimento di tutti gli altri, che non sono abbastanza trendy da poter essere ammessi in quel circuito.

Per i seguaci dell’economia su richiesta non è però tutto così rose e fiori, cuoricini e unicorni, come si potrebbe immaginare, avverte l’Economist. Per quanto riguarda l’offerta di lavoro, la ripresa economica potrebbe rendere più difficile per le aziende attrarre lavoratori precari rispetto agli anni della crisi – da cui comunque gli Stati Uniti sono usciti a costo di una maggiore e più pervasiva precarizzazione. Anche sul piano della concorrenza la faccenda si complica. Per dirne una, in Olanda il servizio di taxi free-lance Uber è stato ufficialmente bandito, e in Sud Corea pare sia stato bollato come servizio taxi illegale. Persino lo spirito del capitalismo reclama vendetta contro l’economia on-demand, se addirittura dalla Germania si sollevano critiche feroci contro tutto il «capitalismo della piattaforma»: «si intravede la possibilità che questo sistema possa ridurre tutti gli aspetti della vita della gente, dallo spazio libero al tempo libero, a beni che possono essere venduti e tutto ciò è visto come altamente disumanizzante».

A parte la preoccupazione dal sentore vagamente moralistico per il futuro delle relazioni sociali e del tempo libero dei professionisti, poco altro sembra attirare per ora l’attenzione pubblica internazionale su queste nuove società on-demand. Gli unici scioperi menzionati dall’Economist sono – ancora – quelli dei tassisti:

Di fronte alla minaccia presentata da Uber, le aziende di taxi già affermate in tutto il mondo hanno organizzato scioperi, hanno accumulato cause legali e fatto pressione sulle autorità che emettono regolamentazioni in materia.

Cosa accade però quando ondate di forza lavoro a basso costo e spesso altamente qualificate allagano il mercato on-demand? La risposta è servita sulle piattaforme di crowdworking, un meccanismo di messa in comunicazione tra domanda e offerta di piccoli lavoretti informatici, i cui effetti benefici e progressivi sulle sorti dell’umanità sono svelati in maniera compiacente dall’Economist.

Il «lavoro-folla», sulla cui indubbia innovatività non pretendiamo di dibattere, ci permette di inquadrare l’economia on-demand in un quadro più generale di trasformazioni del lavoro che vede il Turco Meccanico di Amazon e l’operaio-folla come paradigma. Anche dietro il lavoro immateriale, come quello svolto dai «membri della rete Quirky, che pubblicano idee per nuovi prodotti sul sito dell’azienda […] mentre altri […] membri votano il grado di interesse di ciascuna idea e propongono modi di trasformarla in realtà»,

si cela la dura materialità del lavoro di chi, magari assunto tramite CrowdFlower e ripagato in crediti di gioco, deve raccogliere dati, inserire tag, rivedere i contenuti, trascrivere audio e video.

Guarda caso,

Nel 2008 Pfizer, un’azienda farmaceutica, ha intrapreso un’enorme auto-valutazione intitolata «PfizerWorks». Ha realizzato che i suoi dipendenti più qualificati spendevano dal 20% al 40% del loro tempo su lavoro di routine – inserendo dati, creando presentazioni Power Point, facendo ricerca sul web. L’azienda ora esternalizza la maggior parte di questo lavoro.

È chiaro come economia on-demand e crowd-sourcing siano sempre più interdipendenti tra loro e non coinvolgano più solamente le figure ai margini del mercato del lavoro – quei quasi pensionati o studenti/lavoratori citati dall’Economist –, attingendo invece dalle fasce più precarie della forza-lavoro.

Insieme all’esternalizzazione, la parcellizzazione è il punto forte dell’on-demand. Per esempio:

Topcoder può offrire un prezzo del 75% inferiore rispetto ai suoi rivali sminuzzando i progetti in piccoli pezzi e offrendoli ai suoi 300.000 sviluppatori freelance in 200 paesi come una serie di competizioni.

Esternalizzazione e parcellizzazione del lavoro – un tempo affidata esclusivamente alle macchine e ai prodigi dell’automazione – sembrano essere dunque tendenze gemelle e in via di consolidamento.

Si assiste così a un movimento implicitamente contrario a quello descritto nel Frammento sulle macchine: l’introduzione di software che rastrellano lavoro non serve a liberare lavoro, bensì a comandare il lavoro in condizioni tutt’altro che immateriali. Per mezzo della parcellizzazione, la macchina – il computer, lo smartphone, la piattaforma – non avvicina alla piena socializzazione del lavoro, ma reintroduce in continuazione la sua desocializzazione, aumentando lo sfruttamento e rendendo più facile e capillare il controllo della forza lavoro.

La desocializzazione del lavoro è tanto vera quanto più si palesa nella fine della società, laddove vige una programmatica negazione di qualsiasi reciprocità tra le parti che la compongono. Si pensi al caso degli ingegneri informatici indiani costretti a lavoretti sottopagati o gratuiti e a orari da brivido nella in-sourcing industry statunitense, sorvolando sul ricatto del visto che li costringe a pagare somme spropositate agli agenti delle migrazioni. Per questi tech workers la libertà di cambiare lavoro o licenziarsi viene rimpiazzata dalla costrizione al lavoro e dalla richiesta di disponibilità permanente, poiché, come riporta un articolo del Times of India, il loro intermediario o addirittura il datore di lavoro può legittimamente fargli causa e richiedere un risarcimento in caso di abbandono del lavoro prima del tempo.

Anche se difficilmente la tecnologia dell’economia on-demand sarà applicabile al lavoro industriale, la sua diffusione indica che l’informatica non introduce un modello di lavoro immateriale basato sulla conoscenza, ma è il mezzo per produrre lavoro materiale ad alta intensità di sfruttamento. Il free-lance di questa economia della piattaforma viene allora a essere l’incarnazione pura del lavoro sans-phrase: né cognitivo né manuale, e neanche espressione di tutta la vita messa a lavoro. Semmai a essere diventato immateriale è il controllo sul lavoro, ma anche questo risponde a un’esigenza specifica, che è quella di disciplinare la mente del lavoratore – e a tal proposito l’Economist suggerisce di partire dal mondo della formazione, ventilando novità per tutti tra cui l’obbligo di iperspecializzazione, perché «i lavoratori che vogliono fare passi avanti devono aggiornare continuamente le loro competenze» e «prendersi la responsabilità di formare se stessi».

In altre parole, la parcellizzazione del lavoro promossa dalle app in fondo non fa che replicare quanto Taylor aveva intuito tempo fa, rimediando però al punto debole del taylorismo, cioè che impegnava le mani ma non la mente (e le menti oziose sono pericolose almeno quanto le mani libere, poiché il diavolo si annida nell’ozio in tutte le sue forme, dicevano i puritani). Allora il ruolo del software è quello di produrre piattaforme di apparente libertà – la libertà neoliberale –, ma per accedervi e soprattutto per avere successo bisogna piegarsi a una certa forma mentis: a seconda del tipo di lavoro: si va dall’essere sempre disponibili, flessibili e pronti a tutto all’essere iperformati e iperspecializzati. Il software introduce dunque una disciplina mentale, che è quella già contenuta nell’algoritmo e che non si può discutere, una disciplina che ovviamente continua a impegnare – e pure tanto – le mani, e che perciò non può sancire il passaggio compiuto dal lavoro manuale a quello cognitivo. In questo senso, il software, condensato di scienza, svolge le funzioni di apparato ideologico.

Se lo scenario futuristico iper-tecnologico dell’economia on-demand appare lontano nel tempo e nello spazio, da noi le condizioni dei lavoratori lungo le catene globali della produzione e dello sfruttamento riportano la dimensione del lavoro su richiesta nel qui e ora. Infatti, a partire dalla constatazione che la flessibilità prevale sulla sicurezza, non è così difficile immaginare che l’assenza di garanzie e tutele lavorative accomuni (almeno) i free-lance sulle due sponde dell’Atlantico. In Italia l’associazione italiana che rappresenta i free-lance, ha denunciato il divario spropositato tra quello che i free-lance iscritti alla Gestione Separata INPS pagano in contributi e quanto viene restituito loro in indennità di malattia, maternità, disoccupazione ecc. (negli scorsi giorni si è tenuto addirittura un workshop su come «fuggire» dall’Inps). Questo «trattamento speciale» dal punto di vista contributivo riservato alle partite IVA – che richiama però quello che accade a tutti i «parasubordinati» afferenti alla Gestione Separata, e per altri versi ai migranti, cioè in pratica il versamento dei contributi a fondo perduto – viene spesso motivato con il fatto che sono liberi professionisti. La tendenza tuttavia sembra quella di rendere ogni precario imprenditore di se stesso: in sostanza, è il lavoratore autonomo a doversi fare carico di tutti gli oneri, non importa che lavoro faccia, se il consulente legale, l’insegnante o la lavoratrice domestica. L’idea di autoimprenditorialità si estende a tutto il lavoro e rende tutti i precari sempre di più, di fatto, dei free-lance, come mostra l’economia on-demand.

Forse per tutti loro, per tutti quelli per i quali il lavoro non è garanzia di nulla, varrebbe la pena ideare una app, in grado di produrre una comunicazione per liberarsi dalla coazione dell’ubiquità del lavoro. Sarebbe il frutto di una tecnologia assolutamente innovativa, applicata alle menti e ai corpi di milioni di persone e avrebbe senza dubbio un valore immenso. Rispetto alle attuali miserie del valore, produrrebbe davvero un plusvalore su scala globale. Che cosa ne pensa l’Economist?

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