di CAPRIMULGUS
L’inchiesta «Mafia Capitale» ha finalmente scoperchiato agli occhi dell’opinione pubblica e della stampa una realtà che i movimenti dei migranti denunciano da tempo: il razzismo istituzionale è un grande affare. Lo è per molti motivi. Nelle ultime settimane, una città che sembrava in preda al disagio delle periferie si è scoperta ostaggio di assemblaggi di potere tanto sofisticati quanto evidentemente più attenti alle politiche sull’immigrazione di tanti fautori dell’integrazione. Il sistema era perfetto: prima di tutto c’è l’emergenza immigrazione, che nasce da un nuovo modo di utilizzare la classificazione internazionale dei migranti che distingue tra quelli che si muovono per lavoro e i rifugiati e prevede percorsi specifici per i minori non accompagnati. Grazie a questa distinzione, ai rifugiati e ai minori è dovuta una minima assistenza da parte dello Stato «ospitante», con lo scopo dichiarato di favorirne l’integrazione. Siccome è impossibile entrare in Italia in modo regolare, ora i migranti in ingresso sono in gran parte considerati «rifugiati». Sentiamo quotidianamente ripetere questo mantra: «qui non si tratta di immigrati clandestini, ma di rifugiati». Una volta stabilito questo, ai numeri fanno seguito i soldi. Sì perché lo Stato e le amministrazioni locali devono a questi uomini e donne percorsi di accoglienza. Il sistema ha dunque prima bisogno dell’emergenza e poi che ci siano tanti rifugiati. Una volta ottenuto ciò, non rimane che far arrivare i rifugiati dove si ha un maggiore controllo del tessuto economico e organizzare l’accoglienza attraverso la gestione dei centri e delle attività previste dai protocolli internazionali. I soldi al sistema arrivano grazie al meccanismo europeo di tutela legato agli accordi di Dublino: più l’Italia rispetta gli impegni internazionali, più il sistema guadagna. Dalle indagini emerge come il sistema conoscesse molto bene il loro funzionamento, e avesse tutto l’interesse a dirottare i gruppi di rifugiati. Lo strumento per investire questo denaro sono le cooperative sociali, ormai divenute una figura di riferimento delle forme imprenditoriali da Nord a Sud: strumenti agili e flessibili, trasversali alle diverse categorie e settori economici, dove vige come regola aurea il lavoro precario e nei fatti l’articolo 18 è da sempre una lontana chimera (non sorprende dunque che l’ex capo di Legacoop Poletti sia il promotore della riforma del mercato del lavoro e compagno, se non di merende, quanto meno di cena del sistema).
Gli uomini e le donne che hanno deciso di muoversi per cambiare la propria vita si trovano così catalogati, gestiti, spostati in situazioni paradossali, ‘integrati’, come prevede il sistema, in una sorta di limbo e di attesa dentro centri di accoglienza circondati dall’ostilità quasi mai spontanea, molto più spesso organizzata, del vicinato. A Roma, peraltro, il paradosso si somma al paradosso, perché a coordinare questa speculazione sul governo dei rifugiati sono fascisti più o meno come quelli che poi si presentano davanti ai centri di accoglienza o ai campi rom per contestarne la presenza: fascismo di governo e di lotta. Non si tratta dunque di un’ostilità totale e nemmeno incondizionata. Non siamo di fronte a una lotta senza quartiere e nemmeno con il quartiere, si tratta piuttosto di una più prosaica e famelica lotta nel quartiere, cioè sulle possibilità di sfruttarne al meglio le potenzialità. E chi vive nei centri di accoglienza o nei campi fa parte integrante di questa economia politica dello sfruttamento del quartiere, che non a caso è sempre un quartiere proletario. La definizione di «rifugiato» o di «minore non accompagnato» funziona infatti come un codice a barre, che la logistica del sistema controlla e gestisce in base al funzionamento della catena dello sfruttamento. Anche non facendo niente, i rifugiati fruttano. Ma se fanno qualcosa, possono fruttare ancora di più. C’è lo sfruttamento umanitario nelle campagne e quello in luoghi meno remoti delle campagne, seppur a esse collegati. Nelle ultime settimane, ad esempio, è emerso come vi sia un sistema integrato tra case famiglia e il centro Agroalimentare di Guidonia: i minori non accompagnati lavorano nel centro per pochi euro l’ora. Tutti si stupiscono, anche di come saltino agilmente reti alte diversi metri. Senza considerare che questi ragazzi, che hanno attraversato confini e frontiere per arrivare in Italia, difficilmente si fanno intimidire dalle reti e difficilmente possono trovare soddisfacente questa integrazione nello sfruttamento, mascherata dalla promessa di percorsi inserimento che vivono di frasi fatte e schemi tanto fallimentari per loro quanto proficui per il sistema e per gli ‘eroici’ padroncini che possono così ottenere manodopera a bassissimo costo.
Dietro tutto questo non c’è niente di speciale, ma solo l’evidenza di una situazione di normale eccezione che caratterizza la condizione migrante. Per questo diciamo, riprendendo quanto disse il Coordinamento per lo sciopero del lavoro migrante dopo i riots di Rosarno, che Roma è l’Italia. Va però aggiunto qualcosa in più: alla base di tutto questo c’è la perfetta sintonia funzionale tra regolamenti che hanno il presunto scopo di aiutare le ‘vittime’ di guerre e persecuzioni o minori ‘indifesi’ e la legge Bossi-Fini, che da quasi quindici anni governa la mobilità del lavoro migrante in sintonia con i regolamenti europei. Poiché è impossibile ottenere documenti che non dipendano dalla volontà di un datore di lavoro, il ricatto politico del permesso di soggiorno getta la sua ombra su tutti i migranti e le migranti, spingendo a chiedere l’asilo umanitario pur di ottenere il diritto di restare, innescando così il business del sistema e fornendo manodopera a basso costo. Contro tutto questo non serve scandalizzarsi, non è sufficiente indignarsi alimentando la sterile retorica della legalità: gridare allo scandalo copre ciò che rende possibile i fatti di cui parliamo. Per quanto schifo faccia il sistema, questa è la legge del razzismo istituzionale contro cui è necessario organizzarsi e lottare. Come è stato fatto la scorsa settimana a Brescia, come faremo il prossimo 13 dicembre a Modena in occasione del presidio indetto dal Coordinamento Migranti e come andrà fatto all’interno del percorso dello sciopero sociale, creando lo spazio per un protagonismo dei migranti nell’organizzazione del rifiuto della precarietà e dello sfruttamento.