Pubblichiamo la versione integrale della recensione apparsa su «il Manifesto» del 7 maggio 2014
Il Punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista (Verona, ombre corte, 2014, 15,00 €) presenta in un’unica raccolta quasi quarant’anni della riflessione teorica e politica di Silvia Federici, studiosa (ha insegnato presso l’Università di Port Harcourt in Nigeria e la Hofstra University di New York) e soprattutto militante politica femminista. Del 1974 è il saggio che apre il volume, del 2010 quello conclusivo. Tra questi due estremi si collocano processi di trasformazione del capitalismo – la sua globalizzazione e l’affermazione dell’ordine mondiale neoliberale – che rischiano di rendere i testi più datati quasi un souvenir dal passato, a meno di non approfittare di questo scarto temporale per leggere la riflessione di Federici a ritroso, sia per valutare potenzialità e limiti della sua più recente proposta politica, sia per utilizzarla come «grado zero» dei percorsi attuali dei movimenti in modo da vagliare le possibilità reali di resistere alle trasformazioni del capitalismo globale.
Per Federici la messa in comune [commoning] del lavoro riproduttivo, la sua gestione al di fuori delle logiche del mercato, unisce la resistenza opposta dalle donne ai nuovi processi di enclosure nei contesti post-coloniali agli esperimenti di «auto-riproduzione» realizzati dai movimenti sociali contemporanei, come Occupy o meno note comunità anarchiche statunitensi. Orti urbani, cucine di quartiere, movimenti per il free software sono considerati modi – niente affatto utopici ma già in atto, sebbene non integrati in un progetto complessivo condiviso dai movimenti radicali – di sottrarre le condizioni della riproduzione al comando del salario che il capitale cerca di imporre a quote crescenti della popolazione mondiale attraverso una nuova «accumulazione originaria». In questa resistenza, le donne avrebbero un ruolo cruciale non grazie a una loro naturale vocazione, ma in virtù del bagaglio di sapere e dell’esperienza di lotta che esse hanno storicamente accumulato nel lavoro riproduttivo.
Dal rifiuto alla valorizzazione
È un’indicazione coerente con l’esigenza di Rimettere il femminismo sui piedi, come recita il titolo di un saggio del 1984, cioè di combinare la prospettiva di una trasformazione totale con una visione strategica degli obiettivi conseguibili dal movimento femminista nel presente. Si tratta anche, soprattutto, di un passaggio dal rifiuto alla valorizzazione del lavoro riproduttivo che Federici espressamente riconosce nella prefazione al volume. Il rifiuto segnava la rivendicazione di un salario per il lavoro domestico negli anni Settanta: il capitale aveva contenuto i costi della riproduzione della forza lavoro trasformando il lavoro domestico in un’attività «naturale» per le donne e perciò non pagata. Pretendere un salario significava «de-sessualizzare» quel lavoro riconoscendolo come tale e non come una componente essenziale di una presunta identità femminile. Non si trattava, quindi, di un’implicita sanzione dei ruoli previsti dalla divisione sessuale del lavoro – secondo una critica avanzata allora da molte femministe – ma di un rifiuto di quei ruoli e al contempo della possibilità di ridurre il potere del capitale di estrarre lavoro gratuito alle donne attraverso la mediazione del salario maschile. Eliminare la mediazione maschile significava, per Federici, ripensare la concezione della classe: a partire dall’idea trontiana di «fabbrica sociale» (estesa non solo al territorio, ma anche alla camera da letto e alla cucina) e dalla critica terzomondista a Marx era possibile pensare il salario come strumento per estrarre il valore anche da chi è apparentemente escluso dal «lavoro produttivo» e considerare le donne come parte della classe in virtù della loro funzione specifica all’interno della divisione del lavoro. Vi è quindi una sostanziale continuità tra rifiuto e valorizzazione del lavoro riproduttivo, perché in entrambi i casi le donne traggono il loro ‘significato’ politico dalla posizione in cui sono collocate dai rapporti capitalistici di (ri)produzione. Per questo, mentre coglie un problema, la critica di Federici al femminismo italiano della differenza risulta essa stessa problematica: pur avendo il merito di aver rifiutato l’assimilazione delle donne agli uomini attraverso l’uguaglianza, il femminismo della differenza ha trasformato quest’ultima in un’essenza, una ‘natura’ femminile da affermare come fine in sé, al di fuori di un progetto di trasformazione sociale. Bisogna però domandarsi in che cosa questa trasformazione consista per le donne se la loro ‘seconda natura capitalistica’ – il loro bagaglio di esperienza come ‘riproduttrici’ – è il valore politico da affermare nella prospettiva dei commons. Si tratta d’altra parte di un problema di cui la stessa Federici sembrava consapevole quando considerava le politiche di «crescita lenta», interamente basate sulla riproduzione e la sussistenza, come un modo per riportare le donne in casa condannandole alla vita che avevano sempre fatto, per di più ammantata di una funzione etica, disconosciuta sul piano salariale e perciò ancora una volta non politica.
È perciò significativo che il «patriarcato» – termine che compare in questo volume solo quattro volte e solo in forma aggettivata, per indicare la società italiana degli anni Cinquanta o le strategie di de-patriarcalizzazione compatibile con il capitalismo adottate dalle Nazioni Unite – appaia quasi del tutto assorbito nel rapporto capitalistico. Violenza sessuale, pornografia, prostituzione e nuove forme di «caccia alle streghe» risultano altrettanti effetti collaterali della trasformazioni del capitale – benché innescati anche dal rifiuto opposto dalle donne alla divisione sessuale del lavoro – tanto che non pare esservi alcun conflitto sessuale che non possa essere ‘risolto’ da una consapevolezza del ruolo delle donne nella lotta di classe. Negli anni ’70 la rivendicazione del salario per il lavoro domestico era rivolta non ai mariti ma allo Stato, rappresentante del capitale collettivo, «l’“Uomo” che trae realmente profitto da questo lavoro»; ora il bagaglio politico delle donne come riproduttrici costituisce una risorsa tanto per le donne quanto per gli uomini, «sia per demolire l’architettura sessuata delle nostre vite, sia per ricostruire le nostre case e le nostre vite come beni comuni».
Le enclave di libertà
Nell’indicare la società capitalistica come la causa dell’oppressione delle donne, in ogni caso, Federici fa della loro condizione una chiave specifica per comprendere processi di portata globale. Nei saggi centrali di questo volume la riorganizzazione delle politiche (ri)produttive tra disinvestimento statale nella spesa pubblica, inclusione delle donne nel mercato del lavoro in una posizione subordinata, commercializzazione dei servizi riproduttivi e globalizzazione della cura è interpretata alla luce della sempre più marcata coincidenza tra divisione sessuale e internazionale del lavoro. La subordinazione delle donne è rovesciata, per dirla con Chandra Talpade Mohanty, in un «privilegio epistemologico» che sarebbe invece cancellato, secondo Federici, dalle recenti teorie del lavoro «immateriale» che, mentre riconoscono la dimensione «affettiva» di tutto il lavoro, mettono in ombra la specificità di quello riproduttivo. Il problema di queste letture (Federici si confronta in particolare con Toni Negri e Michael Hardt) non è solo analitico – si trascura la dimensione «materiale» del lavoro riproduttivo, lo si assimila a forme di lavoro ad alto contenuto tecnologico – ma anche politico: viene meno la possibilità di alleanze strategiche tra «produttori» e «riprodotti», come quelle che si vedono negli Stati uniti tra pazienti e infermiere contro l’esternalizzazione delle cure ospedaliere, o tra datori di lavoro e lavoratrici domestiche nelle rivendicazioni di diritti di fronte allo Stato. Così, se la critica di Federici agli effetti ‘neutralizzanti’ delle teorie del lavoro immateriale risulta convincente, essa rischia di cadere in una diversa neutralizzazione che sembra trascurare i conflitti interni alla classe e la loro rilevanza sul piano organizzativo: se donne e uomini possono trovarsi uniti nella lotta al capitale, lo stesso dovrebbe dirsi di serve e padrone, come se queste ultime non fossero l’immediata controparte delle prime, soprattutto nel momento in cui è il salario a essere in questione.
D’altra parte, per Federici il confronto con Negri e Hardt è significativo anche da un altro punto di vista: gli autori di Impero sarebbero infatti tra gli entusiasti celebratori del Frammento sulle macchine, il massimo esempio di una concezione «tecnicista» della rivoluzione che avrebbe impedito a Marx di riconoscere la funzione e il significato del lavoro riproduttivo delle donne per la lotta di classe. Non solo le macchine non potranno mai sostituire il lavoro riproduttivo umano – che richiede competenza e attività non meramente meccaniche – ma la tecnologia è anche il segno più evidente del rapporto distruttivo del capitale con le risorse naturali. Ancora una volta, Federici indica un’irriducibile specificità del lavoro riproduttivo, che impone di evitare qualsivoglia semplificazione dei modelli interpretativi lungo un asse ‘sviluppista’ che focalizza il centro dell’iniziativa politica nelle presunte figure più avanzate del lavoro produttivo (il cosiddetto «cognitariato») relegando a forme anacronistiche modalità di erogazione del lavoro, come quello a domicilio, che sono in realtà parte di un progetto di lungo periodo del capitale. Tuttavia, qui la sua proposta politica rivela forse i punti maggiormente problematici. I commons, infatti, rischiano di cristallizzare un’associazione tra donne e natura in chiave anti-tecnologica che fa il paio con una concezione dei rapporti sociali più rivolta verso il passato che non capace di misurarsi con le contraddizioni del presente. Se è vero – come ammette Federici – che il vantaggio della teoria di Negri e Hardt è quello di considerare la produzione del comune come immanente all’organizzazione capitalistica del lavoro, allora è difficile considerare i commons come un «fuori» dal capitale o dal mercato senza farne enclave la cui possibilità di esistenza dipende dalla loro irrilevanza politica – zone franche perché indifferenti per il capitale – o addirittura dalla loro funzione di calmieramento degli effetti della crisi proprio come l’economia di sussistenza delle donne del Terzo mondo era stata un «ammortizzatore» degli effetti della globalizzazione. Non stupisce, da questo punto di vista, Federici superi i limiti di Marx attraverso un riferimento all’anarchismo di Kropotkin o al socialismo utopistico.
Il miraggio del reddito
Il problema sollevato negli anni Settanta, in altre parole, resta aperto: «se assumiamo che ogni lotta debba concludersi con una redistribuzione della povertà, assumiamo l’inevitabilità della nostra sconfitta». Proprio per questo, le domande che Federici pone nel corso del suo lungo lavoro di definizione del punto zero della rivoluzione – l’imprescindibile fondamento femminista della lotta di classe – restano ineludibili. Pensare la dimensione sociale della riproduzione significa, ad esempio, riportare la questione dell’aborto (sempre più attuale nei processi di riorganizzazione capitalistica oltre la crisi) non solo nei termini di una libera scelta individuale delle donne sul proprio corpo, ma alla luce delle condizioni materiali nelle quali si dà quella scelta. Quella dimensione impone di interrogarsi su che cosa significa pretendere un riconoscimento della vita messa al lavoro in termini di «reddito» senza fare di quel reddito il miraggio di una perfetta equivalenza salariale e dello Stato un mediatore neutrale. Essa obbliga a domandarsi se la comunità – senza la quale non si danno commons – possa essere la risposta al problema di una società globale sempre più organizzata attraverso l’esclusiva mediazione del denaro, una «parola sporca» per le femministe degli anni Settanta che anche Federici sembra ora pronunciare senza vagliarne fino in fondo le implicazioni. Significa interrogarsi, come femministe, sul problema del potere, quello che Federici ‘percepiva’ nelle grandi assemblee di donne di quarant’anni fa, in una dimensione di massa difficilmente conseguibile nelle comunità della riproduzione. Ma proprio la riproduzione, come sostiene Federici, è il punto zero della rivoluzione persino in un presente globale nel quale la liberazione di molte donne dal lavoro riproduttivo – magari grazie al lavoro di una donna migrante – ha spinto alcune a dichiarare la fine del patriarcato. Benché del tempo sia trascorso, «dal punto di vista della totalità del rapporto capitale-lavoro» forse è ancora necessario ammettere che «possiamo anche non servire un uomo in particolare, ma siamo tutte in un rapporto subordinato nei confronti dell’intero mondo maschile».