di LAVORO INSUBORDINATO
→vedi anche Il regime del salario #1, #3, #4
C’era una volta il progetto di mettere al lavoro l’intera società italiana senza eccezioni e senza possibilità di sottrazione. Nel 2001 l’allora ministro Maroni in un celebre libro bianco proponeva una «società attiva e una nuova qualità del lavoro». Dopo quasi 15 anni di lotte e di resistenze quel progetto sembra oggi realizzarsi grazie al nuovo regime del salario che il governo Renzi sta progressivamente instaurando. Sarebbe perciò quanto mai sbagliato leggere le politiche del lavoro del nuovo governo come la trovata estemporanea e vagamente populista di un decisionista allo sbaraglio. Non si tratta nemmeno della truffa di un giocoliere più abile di altri. Non basta cioè denunciare l’ingiustizia o la furbizia dell’imbonitore, affinché i truffati si rendano conto dei loro diritti violati. Tutte queste misure sono invece il compimento di un processo e pretendono di registrare lo spostamento dei rapporti di forza che è oramai avvenuto all’interno della società italiana ed europea. Il regime del salario che il governo sta imponendo mira a stabilire le condizioni grazie alle quali la coazione del lavoro investa anche il non lavoro, stabilendo una paziente disponibilità a una nuova occupazione, in altri termini all’occupabilità. Questo regime del salario non punta a una salarizzazione dell’intera società, non fa cioè corrispondere un salario certo a un lavoro sicuro, esso stabilisce piuttosto le basi di un’incertezza generalizzata che investe tanto il salario quanto il reddito, facendo di quella stessa incertezza il solo e unico criterio di giustizia.
La logica dell’attività legislativa del governo in materia di lavoro è quella dei due tempi: in primo luogo, il decreto legge sui contratti a tempo determinato acausali e sull’apprendistato votato il 23 aprile alla Camera formalizza il lavoro precario full time e spiana la strada alla riforma degli ammortizzatori sociali, preparata dalla compiuta precarizzazione del lavoro. Come abbiamo mostrato a proposito dei voucher, la precarietà viene assunta come un dato della prestazione lavorativa non modificabile e che strutturalmente non si vuole modificare. Il problema che il lavoratore-voucher come ogni altro lavoratore si trova di fronte è come gestire la propria occupabilità, cioè la propria non occupazione tra un lavoro e l’altro. Tra i progetti del nuovo governo con una prospettiva di medio periodo c’è perciò e inevitabilmente una generale riforma degli ammortizzatori sociali che comprende tanto una riforma degli istituti che hanno il compito di gestirne l’organizzazione, quanto un diverso sistema di assicurazione contro la disoccupazione. Una nuova indennità di disoccupazione, chiamata Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego), andrebbe a sostituire Aspi e mini-Aspi introdotte dalla riforma Fornero, in direzione di una loro maggiore inclusività. Questo sarebbe l’orizzonte strategico capace di chiudere definitivamente la connessione tra posto di lavoro e reddito da lavoro, come salario sia diretto sia indiretto.
La Naspi verrà erogata in base alla personale carriera contributiva, tanto in termini di entità, quanto in termini di durata. Rispetto alle precedenti indennità, si prevede di estendere il numero dei mesi in cui può essere calcolato l’ammontare dei contributi versati, aumentando così il bacino di lavoratori che possono soddisfare i requisiti di accesso. Così come per le Aspi, l’indennità si può ricevere per la metà dei mesi lavorati. Sarà inoltre introdotto un massimale di tempo di erogazione per i titolari di lunghi periodi di contribuzione e sarà estesa agli iscritti alla Gestione separata, ma non alle partite Iva. In generale, la Naspi è presentata come un’indennità pressoché universale proprio perché mirerebbe a includere anche quei precari che, pur versando i contributi, non riuscivano a soddisfare i requisiti per accedere alle precedenti indennità.
La nuova Aspi dovrebbe unificare in un’indennità onnicomprensiva tutte le precedenti tipologie di sostegno al reddito dei disoccupati, che saranno quindi tutte legatealla risoluzione del rapporto di lavoro: mobilità, sospensioni, cassa in deroga, mobilità in deroga scompaiono. La cassa integrazione in deroga, introdotta nel 2009, è stata massicciamente utilizzata durante la crisi per intervenire in situazioni ad hoc ed è stato uno dei principali strumenti per la gestione delle ricadute della crisi economica, che ha spento sul nascere le tensioni sociali e politiche. Non a caso tanto Confindustria quanto i sindacati confederali non sono favorevoli ai tagli previsti a questa forma di intervento pubblico. Questi ultimi hanno attivamente gestito la crisi attraverso gli enti bilaterali, che sono stati una sorta di palestra per sperimentare le politiche attive dell’occupabilità. Da questo punto di vista, ben oltre le preoccupazioni democratiche, lo stesso accordo sulla rappresentanza sindacale altro non è che la registrazione di un patto per la futura gestione congiunta delle politiche attive del lavoro, nelle quali godere dei servizi offerti da un «sindacato riconosciuto» promette di abbreviare i tempi di passaggio tra lavoro e non lavoro e viceversa. Il passaggio dalla cassa integrazione in deroga alla Naspi segna perciò il passaggio dall’emergenza della crisi alla gestione «normale» della precarietà quotidiana.
Una differenza tra Naspi e cassa integrazione in deroga è che la prima è pagata dai contributi versati e la seconda dalla fiscalità generale. Il fare affidamento sulle quote di contributi viene presentato come un’armoniosa condivisione di responsabilità tra lavoratori e imprese. Non sempre è evidente che tutte le politiche attive di sostegno all’occupazione sono consistite negli ultimi anni in pesantissimi sgravi contributivi per le aziende, che hanno concorso a prosciugare le casse dell’Inps. D’altra parte per i lavoratori, in particolare precari, i contributi rimangono altissimi. Per esempio gli iscritti alla Gestione separata, che vengono solo parzialmente inclusi nel godimento dell’indennità Naspi (le partite IVA non avendo una busta paga non possono dimostrare quanti mesi hanno lavorato e soddisfare quindi i requisiti per accedervi) versano contributi molto alti. Nel nuovo regime del salario ogni indennità sarà quindi pagata a caro prezzo, per di più secondo un ferreo calcolo monetario di ciò che si può ricevere in base a ciò che si è versato che rende il salario l’unica misura tanto del lavoro quanto del non lavoro.
Inoltre, la Naspi oltre a essere legata alla cessazione dell’attività lavorativa, si distingue dalla cassa integrazione in deroga soprattutto per il fatto di essere individualizzata. L’assistenza pubblica sarebbe legata non più al rapporto di lavoro con un determinato padrone, ma alla storia contributiva, anche in diversi luoghi di lavoro, del singolo lavoratore. In questo modo, la mobilità del lavoro viene considerata parte integrante della sua gestione pubblica. In caso di crisi aziendale il collettivo operaio sarebbe immediatamente rotto, perché ognuno sarebbe obbligato a seguire il destino che è già scritto nella sua storia contributiva. Questa individualizzazione si lega ai discorsi e ai progetti sulla riqualificazione dei disoccupati e sulla gestione della mobilità tra un lavoro e l’altro. Secondo le parole del ministro Padoan, il programma è: «meno sicurezza sul posto di lavoro, più sostegno al reddito». All’assicurazione pubblica contro la disoccupazione deve perciò accompagnarsi una responsabilità pubblica nel mettere di nuovo al lavoro, nella maniera più efficiente possibile, chi il lavoro lo ha perso. È nell’ottica di una mobilità lavorativa diventata ormai strutturale che sono pensate le proposte di riforma degli istituti che gestiscono il sistema degli ammortizzatori sociali. L’Inps continuerebbe a occuparsi della riscossione dei contributi, mentre una nuova Agenzia Nazionale per l’Occupazione dovrebbe gestire l’erogazione delle indennità economiche e le politiche attive per l’impiego, cioè la riqualificazione dei disoccupati, attraverso monitoraggio, formazione e collocamento. Non a caso nelle proposte iniziali di reddito minimo contenute nel jobs act alla ricezione di prestazioni assistenziali doveva corrispondere l’accettazione del lavoro o del corso di formazione proposto. Quel che rimane è che, esaurita la Naspi, si potrebbe ricevere un’indennità economica concessa però in presenza di conclamata povertà. Tanto nell’organizzazione dell’occupabilità, quanto in eventuali forme di reddito della povertà, ciò che conta è che il percorso di riattivazione lavorativa diventi cogente. Alla disponibilità sempre più richiesta nei luoghi di lavoro, corrisponde una disponibilità anche nel passaggio da un lavoro a un altro. Si vede così che quando viene nominato il reddito si intende la disoccupazione e, allo stesso tempo, un’obbligatoria disponibilità al lavoro. Non è diverso in Germania, dove i centri per l’impiego forzano i minijobbers ad accettare qualsiasi lavoro si presenti e possono punire il rifiuto con il taglio dell’assegno mensile di disoccupazione. Il reddito non è un risarcimento per i diritti sospesi o negati, ma viene sempre inteso come necessario supporto alla totale disponibilità lavorativa. Contro queste forme di workfare, i sostenitori di un reddito incondizionato pensano che questo possa aumentare il potere dei lavoratori nel contrattare le proprie condizioni di lavoro e accrescere la loro possibilità di scegliere il lavoro. Il problema, però, è che la direzione della doppia gestione pubblica e privata del lavoro si muove verso una combinazione di sostegno al reddito ed estrema precarizzazione. La richiesta di reddito sembra così assecondare piuttosto che contrastare la precarizzazione crescente del lavoro e non in direzione di una più libera scelta. Al pubblico si chiede il reddito, mentre nei luoghi di lavoro il ricatto rimane immutato, i salari bassissimi, la mobilità aumentata dal fatto di avere un cuscino di assistenza pubblica sul quale i precari possono assestarsi in attesa del prossimo lavoro.
La riforma degli ammortizzatori s’inserisce così in un percorso di lunga durata che si compone della costruzione di un destino individuale che intreccia, da una parte, un lavoro frammentato con la sua dote salariale e, dall’altra, un sostegno al reddito in mancanza di lavoro dato a condizione di impegnarsi ad attivare la propria occupabilità, per impedire che la forza lavoro si presenti in massa per far valere la sua forza. Prima di lottare per nuovi sistemi di welfare comunque immaginati, si tratta quindi di comprendere cosa è e cosa non è più il welfare attuale. Esso è sempre meno il terreno su cui viene risarcita la condizione sociale del salariato, intendendo in questo modo la condizione complessiva di chi è costretto a lavorare per riprodursi. Non è cioè la garanzia per tutti quei servizi e quelle prestazioni che il salario non può garantire, perché non è più il segno di un potere sociale acquisito. Sembra quasi che, assieme agli Stati nazionali che lo avevano inventato e sostenuto, stia tramontando la stagione più che secolare del welfare. Con una violenta sincronizzazione i sistemi di welfare si stanno omogenizzando su scala globale per garantire semplicemente la riproduzione della forza lavoro. Ciò comporta che questa sincronizzazione si presenti in altre aree del pianeta come un riconoscimento di prestazioni e servizi finora sconosciuti. In questo modo, sul piano globale, si stabilisce una sorta di illusione progressiva del welfare, che lo connette con lo sviluppo, il salario e il potere statale. Si dovrebbe invece registrare che come terreno di lotta quello del welfare rimane sostanzialmente nazionale, mettendo in discussione il fatto che le lotte contro il salario debbano puntare a riproporre o a conservare ciò che è possibile ottenere sul piano nazionale. Una volta individuato il legame tra incertezza del salario e destrutturazione del welfare, la lotta contro il salario e il comando sul lavoro esercitato anche attraverso forme di reddito dovrà essere capace di ostacolare la produttività globale dell’incertezza e intaccare il regime del salario che su questa fa leva.