Dopo il caso di Silvia Guerra, l’artista e cittadina italiana da tempo residente a Bruxelles che è stata espulsa perché considerata un peso per il welfare belga, abbiamo iniziato a ripensare in che modo l’Europa sta riconfigurando i suoi confini e come la questione della mobilità si colloca in tale scenario. L’affaire Guerra, infatti, non è isolato, ma è uno dei molti casi di restrizione alla libertà di movimento delle persone all’interno dell’Europa.
Negli ultimi anni la libertà di movimento è stata una parola d’ordine centrale per i movimenti, che hanno messo sotto accusa il fatto che la libera circolazione nell’area Schengen è garantita al prezzo delle restrizioni e dei vincoli imposti ai migranti, che possono entrare legalmente in Europa solo come lavoratori o come richiedenti asilo sottoposti all’odioso regime di Dublino II. Con la crisi, sembra che o spazio comune europeo di libera circolazione stia collassando, inaugurando una realtà fatta di differenziazioni e gerarchie che ora colpiscono anche i cittadini europei. I governi degli Stati più forti economicamente scaricano sui paesi più colpiti dalla crisi tutti i suoi costi, rimandando a casa (come nel caso di Silvia Guerra) migranti anche di lunga data, oppure tagliando qualsivoglia aiuto sociale destinato loro, o semplicemente non assicurando il godimento dei benefici sociali ottenuti pagando i contributi. Questa modalità di governo dei movimenti degli individui e della forza lavoro mostra così tutto il suo debito verso la normativa di Dublino II, che fa sobbarcare i costi dell’accoglienza dei rifugiati ai paesi del sud dove, nella maggior parte dei casi, i richiedenti asilo mettono piede per la prima volta in Europa. Sembra, insomma, che sia finita l’epoca dell’Europa libero spazio di transito e stabilimento delle persone, oltre che delle merci e dei capitali. Attraverso una gestione combinata dei sistemi di welfare, delle politiche di austerity e degli accordi di Schengen l’Europa sta sviluppando nuovi strumenti per disciplinare la forza lavoro, non solo extraeuropea ma anche interna all’Unione, governandone i movimenti. Come i migranti provenienti dal resto del mondo, anche i cittadini europei si trovano sottomessi al regime del «lavoratore ospite» che, a dispetto dell’eventualità che si sia trasferito in pianta stabile in un paese diverso da quello in cui è nato, può essere rimandato al paese di origine non appena risulti essere un fardello eccessivo per il paese «ospitante».
A partire dai limiti introdotti da diversi paesi alla libera circolazione dei cittadini dei nuovi Stati membri è diventato evidente che sono i governi nazionali a decidere come e se far valere gli accordi di Schengen quando si tratta delle aree di competenza ancora destinate agli Stati membri. Il caso di Silvia Guerra dimostra che il welfare sta diventando in Europa un moltiplicatore indiretto di confini che colpisce tanto i migranti quanto i cittadini europei. Il welfare è un settore in cui la discrezionalità degli Stati membri è ancora ampia, un’area residuale di loro competenza esclusiva dentro a processi di portata transnazionale. Secondo le norme di coordinamento tra i paesi europei in materia di welfare, infatti, può «esportare» i propri diritti sociali chi già ne gode nel proprio paese, ma si tratta di una condizione sempre più minoritaria a fronte di una complessiva erosione e precarizzazione di quei diritti che coinvolge tutti, a prescindere dal tipo di contratto e di rapporto di lavoro. Con le retoriche che enfatizzano l’autoimprenditorialità, la disponibilità a muoversi per migliorare la propria condizione di vita e di lavoro investendo sul proprio capitale umano e con l’apologia dell’«occupabilità», l’Europa è impegnata a governare la mobilità degli individui che la attraversano secondo le logiche del profitto e del pareggio in bilancio. Così, ad esempio, il governo inglese ha annunciato che non verrà erogata nessuna misura di welfare nei confronti dei lavoratori europei che non riescano a dimostrare di guadagnare un minimo di 150 sterline a settimana. A ogni passaggio di confine interno all’Unione, i lavoratori e le lavoratrici perdono ogni traccia dei contributi che hanno accumulato nei loro paesi e possono stabilirsi in un altro paese europeo solo a patto di non gravare sulla sua spesa pubblica. I contributi versati dai lavoratori, se mai, diventano un modo di finanziare la spesa pubblica dei singoli paesi, mentre i servizi sociali – dalla sanità alla scuola alla pensione – i lavoratori devono andarseli a comprare sul mercato. L’equilibrio (fragile) dei sistemi di sicurezza sociale dei cosiddetti paesi virtuosi è fatto salvo escludendo dal godimento dei benefici una parte della popolazione che produce ricchezza senza avere nulla in cambio.
Contemporaneamente, si moltiplicano sul suolo europeo le zone economiche speciali in cui i diritti, le condizioni lavorative, gli orari di lavoro e i salari possano legalmente sfuggire alla disciplina comunitaria o servirsi di quella nazionale: aziende multinazionali che occupano milioni di persone come Foxconn o Chung Hong Electronics delocalizzano in Europa – rispettivamente nella Repubblica Ceca e in Polonia – e mettono a valore la mobilità del lavoro e i regimi giuridici dei paesi in cui sono insediate per accrescere i profitti non meno che le gerarchie sul posto di lavoro. Il tasso di sfruttamento si allarga notevolmente, infatti, se la forza lavoro non può permettersi di vivere in casa propria ma è costretta all’interno di dormitori ghetto iperaffollati, dove la gestione della riproduzione della vita da parte del padrone garantisce un regime di piena disponibilità dei lavoratori.
Davanti a questa immagine di un’Europa che gestisce la forza lavoro – migrante ed europea – secondo la legge del capitale migliaia di lavoratori e delle lavoratrici – perlopiù giovani, ma non solo – si spostano seguendo i movimenti del capitale e soprattutto le variazioni salariali per cercare di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. In aziende come Foxconn, Chung Hong Electronics e Amazon, il turn over è spaventosamente alto. Se da una parte c’è l’operaio che si augura che i propri figli e i figli dei propri figli continuino a lavorare per la multinazionale di turno, dall’altra migrare è un modo per sottrarsi al crescente sfruttamento. Si tratta di comportamenti fortemente individualizzati, che ancora non si traducono in forme collettive di iniziativa politica e anzi spesso riducono le possibilità di lottare all’interno di un luogo di lavoro. Tuttavia, d’innanzi ai tentativi di disciplinare e governare il lavoro all’interno e attraverso i confini dell’Europa, la mobilità di precarie, operai e migranti indica un terreno possibile di iniziativa e organizzazione.
L’Europa sta sempre di più diventando uno spazio non omogeneo in cui la mobilità della forza lavoro – quella del lavoro migrante, quella imposta dalla crisi e dal nuovo paradigma dell’occupabilità, quella dei «giovani» che rifiutano di essere incatenati per sempre a un posto di lavoro fisso, quella delle forme contrattuali – inizia a pesare come fattore di squadernamento delle logiche del capitale, non più solamente come strumento nelle sue mani. Attraverso meccanismi quali il legame tra il permesso di soggiorno e il contratto di lavoro, i migranti sono stati i primi a sperimentare le forme di governo e sfruttamento che stanno progressivamente estendendosi anche per i cittadini dello spazio Schengen. I migranti sono stati però anche i pionieri di percorsi politici che hanno fatto della mobilità una possibilità per reagire a quel governo e a questo sfruttamento. Questa sfida può essere ora raccolta dai movimenti – a partire da Blockupy – che guardano all’Europa come terreno di scontro in un contesto di trasformazioni globali che avvengono precisamente sotto il segno della mobilità. La mobilità di precarie, operai e migranti all’interno dell’Unione Europea e attraverso i suoi confini costituisce un terreno strategico per costruire organizzazione perché impatta questioni fondamentali e permette di guardare a tutti i nessi tra austerity, regime dei confini, precarietà e welfare. La mobilità di precarie, operai e migranti indica la possibilità di definire processi organizzativi e di comunicazione politica che permettono di ridefinire, dentro a una politica di parte, il significato transnazionale di democrazia e solidarietà.