A cosa contribuiamo versando ogni mese una percentuale del nostro salario all’INPS? Molti di noi precari e precarie non vedranno mai la pensione, perciò non è al nostro futuro che stiamo contribuendo. Dall’INPS e dal Ministero del Lavoro le risposte sull’ammontare della pensione dei precari di oggi sono talmente vaghe da essere chiarissime: la pensione, nei rari casi in cui si riceverà, sarà una miseria. L’obiettivo delle ultime riforme in merito è stato piuttosto l’aumento costante dell’età pensionabile. Dietro la facciata di una battaglia ai pre-pensionamenti, l’azione coordinata di INPS e governo mira ad aumentare gli anni in cui i contributi vengono versati e a rimandare il momento in cui i precari li potranno, eventualmente, riavere indietro. La maggior parte di noi, inoltre, versa i contributi per ricevere le indennità per la disoccupazione, per la maternità, la malattia e il congedo parentale. Si tratta di indennità, però, che oggi sono sempre più difficili da ottenere per i precari, sia a causa dell’intermittenza del lavoro, sia perché le istituzioni usano la loro discrezionalità e la scarsa trasparenza dovuta anche ai continui cambiamenti legislativi per rendere sempre più difficile il godimento di quei diritti. Insomma, non è neppure al nostro presente che stiamo contribuendo e nel migliore dei casi più che alla previdenza ci affidiamo alla provvidenza.
Questa situazione è aggravata dai problemi di registrazione delle situazioni contributive da parte dell’INPS o di verifica in caso di mancato pagamento da parte dei datori di lavoro. La prassi vuole che siano i lavoratori e le lavoratrici a pagare le conseguenze di irregolarità di cui non sono responsabili, perdendo il diritto alle indennità per le quali hanno contribuito con una parte del loro salario. Esemplare è il caso di molti supplenti delle scuole superori che, nonostante abbiano accumulato l’ammontare di contributi sufficiente per ottenere l’indennità di disoccupazione, non l’hanno ottenuta a causa di irregolarità nella ricezione da parte dell’INPS dei moduli Emens. Dal gennaio 2013, questi moduli devono essere forniti direttamente dal Ministero del Tesoro mentre nelle comunicazioni dell’INPS ai precari cui è stata negata l’indennità si richiede che sia la scuola stessa a fornirli. Per un apparente problema di mancata coordinazione tra INPS e Ministero, molti precari della scuola hanno perso le indennità. Questi problemi burocratici sembrano essere un perfetto completamento della tendenza a rendere sempre più incerta la restituzione ai precari dei contributi che devono versare. Un caso esemplare è anche quello degli assegnisti dell’Università di Pavia iscritti alla Gestione Separata. Nonostante l’Ateneo avesse versato regolarmente i contributi a ogni singolo dipendente e non risultasse quindi colpevole di omissione contributiva, buona parte dei contributi non è stato registrata nel database dell’INPS. L’INPS attribuisce il problema a un errore di sistema e l’arcano pare irrisolvibile, o meglio, si risolve ma a danno dei precari dell’Università che oltre alla lotta quotidiana contro i tagli alla ricerca, si vedono derubati dal sistema informatico anche dei contributi. Non solo non vedranno mai una pensione ma non hanno diritto neppure alle indennità.
Nel caso dei lavoratori migranti la situazione si aggrava ulteriormente dal momento che in Italia la loro permanenza è strettamente vincolata al lavoro e al versamento dei contributi, che ormai da tempo servono a far quadrare i conti dello Stato che li intasca anche quando i migranti decidono di tornare nei paesi di provenienza. Nonostante una sentenza del Tar (Lombardia) dica chiaramente che eventuali irregolarità o ritardi nel versamento dei contributi non possono essere responsabilità del lavoratore migrante né motivo di diniego del rinnovo, le Questure gestiscono i rinnovi controllando tramite l’INPS la presenza dei contributi per stabilire se si ha diritto o meno al rinnovo. Così facendo, scaricano integralmente sul lavoratore migrante le responsabilità dei mancati versamenti da parte dei padroni e dei ritardi dell’INPS nel registrare il versamento dei contributi. L’INPS sembra coordinarsi perfettamente con le altre istituzioni quando si tratta di far pesare sui lavoratori le inadempienze di chi fa profitti sfruttando il loro lavoro. Grazie a questa prassi, migliaia di cooperative e di aziende in appalto, specie nel settore della logistica, si stanno di fatto arricchendo sulla pelle di chi lavora e l’INPS sembra più la banca dei padroni che quella dei lavoratori. Nelle indagini del ministero nel 2013 si registra che «malgrado il numero di controlli sia aumentato e le irregolarità riscontrate anche, è più basso (-14,2%) l’importo complessivo delle sanzioni incassate, pari a 78,1 milioni di euro». Le sanzioni diminuiscono mentre precari e migranti si vedono ridotta la possibilità che venga loro restituita la percentuale di salario che versano ogni mese. Come vengono usati allora i contributi che ogni mese ci vengono sottratti dal salario? A quanto pare vanno a coprire altri buchi e servono a fare quadrare i conti malmessi dell’INPS che, inglobando l’Inpdap ha ereditato anche un enorme debito. Insomma, in verità, la banca siamo noi non l’Istituto di Previdenza. Dietro ai grandi discorsi sulla spending review e sulla razionalizzazione delle pratiche amministrative, il problema dell’INPS e del governo sembra essere quello di mantenere alto il flusso di contributi versati da chi lavora e di promuovere, d’altra parte, una politica di sgravi contributivi per le aziende che inseguono la ripresa. L’aumento della Cassa Integrazione durante la crisi, inoltre, comporta un dirottamento dei fondi contributivi in quella direzione a discapito di altre, anche se molto spesso le Casse vengono ricevute in ritardo e in maniera irregolare.
La gestione «tecnica» della crisi passa anche per le pratiche amministrative dell’INPS. La previdenza sociale, infatti, è sempre più uno strumento di impoverimento dei lavoratori e di riproduzione di una condizione di incertezza presente e futura. Previdenti, ma non per noi. Lo scenario che si apre per i giovani precari, occupati tramite tipologie contrattuali che non consentono una storia contributiva omogenea e continuativa, è perciò paradossale. Ai precari viene chiesto di essere flessibili, occupabili, adattabili, mobili ma allo stesso tempo la loro collezione di lavori in molti casi non consente di accumulare i contributi necessari per i servizi previdenziali. Per quelli ci vuole un lavoro «alla vecchia maniera». Il lavoratore che non potranno mai essere, cioè quello del «posto fisso», è così uno spettro ossessivo. Ma poi sappiamo che anche in quel caso non sempre funziona così, che anzi molti lavoratori hanno perso i contributi perché sono stati versati negli anni in casse diverse o per il passaggio dall’Inpdap o perché ora gli viene chiesto di pagare per avere quello che hanno già pagato con il lavoro di una vita! La domanda è per tutti i lavoratori la stessa: ma per chi e per cosa contribuiamo? Contribuire sembra non avere alcun senso perché di fatto si contribuisce solo alla propria precarietà.