di DEVI SACCHETTO
Domenica 1 dicembre sette operai sono morti a Prato. Stavano dormendo nello stesso posto in cui lavoravano, separati solo da qualche cartongesso. Lavoravano in sub-sub appalto dalle 12 alle 14 ore al giorno per qualche ditta del pronto moda e venivano pagati a cottimo guadagnando una quindicina di euro al giorno. Non perché fossero schiavizzati dai loro padroni, ma perché il mercato del lavoro italiano lo richiedeva e lo permetteva.
Quei lavoratori e quelle lavoratrici stavano in una condizione analoga a quella di migliaia di altri operai nelle campagne dell’Italia meridionale. L’abbassamento del costo del lavoro è un abbassamento del costo della vita, sicché si può morire ed essere dimenticati senza tante storie. Nessun minuto di silenzio per loro, né nei teatri presidenziali né, pare di capire, nelle assise di partito. I mass media hanno dedicato a questa vicenda una certa attenzione per un paio di giorni, per poi passare rapidamente ad altre notizie. Di loro non sappiamo i nomi, qualche giornale locale ha pubblicato le loro fotografie.
Se a denunciare le loro condizioni non è la loro vita, ma la loro morte, allora è evidente che ci troviamo di fronte a una tragedia. Si tratta di una doppia tragedia operaia: sono morti in quanto operai e sono presto dimenticati in quanto migranti. In questi giorni ricorre il sesto anniversario della morte di altri sette operai alla Thyssen Krupp di Torino. L’evento viene ricordato annualmente. Quei lavoratori avevano la pelle bianca ed erano cittadini italiani, ma questo non li ha certo risparmiati. A Prato gli operai possedevano un passaporto diverso e per questo dovevano pagare dazio: un debito, solitamente 20-25 mila euro, di cui si erano fatti carico per arrivare in Europa. Nel loro tentativo di superare i confini c’era l’obiettivo di sottrarsi alle differenziazioni nazionali dei salari e di vendersi a migliori condizioni. Tre, quattro anni di lavoro sostanzialmente gratuito, finito il quale si cerca di emanciparsi spostandosi verso altre aree italiane. Qualche razzista ha già detto che «quelli non dovevano stare lì», dimenticando colpevolmente che la loro situazione è un prodotto della legislazione italiana che gestisce le migrazioni e soprattutto il mercato del lavoro attraverso il ricatto del permesso di soggiorno. Il coro di condanna dei sindacati, Cgil in testa, ha inoltre indicato nell’illegalità la radice del male, fingendo di non conoscere l’effetto di una legge come la Bossi-Fini. Non è un caso che i primi arresti, sulla scia dell’emozione, abbiano coinvolto un presunto traffico di residenze false riconosciute ai migranti cinesi, uno dei tanti balzelli richiesti ai migranti per mantenere in regola i documenti.
Partiti e sindacati hanno dunque immediatamente ridotto la vicenda a una questione cinese, ma la questione di Prato coinvolge completamente il nostro sistema produttivo ed evidenzia in modo esemplare la progressiva perdita di valore della forza lavoro in Italia. I buontemponi del ministero del Lavoro si sono premurati di fornire i dati dell’irregolarità cinese: nei controlli effettuati nei primi nove mesi del 2013 è emerso un tasso di irregolarità per le aziende del distretto di Prato del 76% a fronte del 63% medio in Toscana. Non ci pare una grande differenza, piuttosto una generale illegalità che accomuna gli imprenditori per quanto con accenti e colori della pelle diversi. È piuttosto evidente, poi, che la campagna contro il pubblico impiego ha permesso l’esplosione di questa illegalità: nell’area del Marcolotto di Prato, dove si è sviluppato l’incendio, vi sono 90 mila lavoratori presenti, ma un solo ispettore Inail e due dell’ispettorato del Lavoro. È anche grazie alla distruzione dei controlli sui luoghi di lavoro che è possibile ricreare ‘a casa’ quelle condizioni che gli imprenditori italiani sono soliti cercare altrove attraverso la delocalizzazione. In effetti, si tratta di condizioni di lavoro abbastanza simili a quelle che questi operai, emigrando, avevano lasciato in Cina.
La sovrapposizione tra produzione e riproduzione è una delle spinte verso cui tende il capitalismo sia per abbassare i costi sia per ridurre sempre più il tempo tra le due sfere e rispondere alle esigenze di just-in-time delle imprese. La compressione dello spazio e del tempo per una più veloce valorizzazione del capitale richiede una sincronizzazione delle attività. Eliminare ogni tempo morto e accorciare quelli «vivi» rimane l’obiettivo di questo sistema produttivo. Questa è la situazione in cui la tragedia di Prato è potuta accadere. Risalendo la catena del valore si trovano in larga parte imprese italiane sia del pronto moda a prezzi stracciati sia del lusso che sub-appaltano a imprenditori cinesi, imponendo a questi ultimi tempi e prezzi. Gli stessi stabilimenti sono presi in affitto da ex-imprenditori italiani che trovano più conveniente affittarli che produrre: essi conoscono perfettamente quanto accade dentro ai loro capannoni. D’altra parte, a Prato come altrove, gli italiani sono molto meno disponibili ad affittare abitazioni private ai cittadini cinesi.
Prato, come altre aree in Italia, costituisce ormai una sorta di stato di eccezione, un’enclave produttiva socialmente e politicamente sterilizzata dove l’unica attività sembra essere l’erogazione di lavoro. Ma Prato è possibile solo grazie a un preciso comando politico sul contesto locale, sui flussi migratori e sul mercato del lavoro. I legami tra imprenditori cinesi e italiani non si fermano certo a Prato: essi ripercorrono tutta la strada fino alla Cina dove aprono nuovi stabilimenti con altri operai messi in concorrenza con quelli posti dall’altra parte del mondo. Lo sbraitare contro i cinesi è perfettamente funzionale all’inabissamento delle condizioni di lavoro di questi operai, mentre il silenzio operaio su questa tragedia non è un gran segnale, che tuttavia non stupisce vista la reticenza e l’opposizione sindacale e del movimento a considerare il lavoro migrante come una questione operaia.